giovedì 1 marzo 2012

News/pm.1.3.12/ Patria est ubicumque est bene (La patria è dovunque si stia bene – Pacuvio) - L’Italia conta oltre 2,2 milioni di occupati stranieri, la maggior parte concentrati nelle aree settentrionali: oltre mezzo milione nella sola Lombardia, oltre 200mila in Emilia Romagna, Piemonte, Lazio e Veneto. Ma dal 2008 al 2011 si è assistito in Italia ad un aumento del tasso di disoccupazione di 3,4 punti percentuali passando dell’8,1% all’11,5%, raggiungendo 291mila immigrati senza lavoro. Questo significa che nel triennio considerato un nuovo disoccupato su quattro ha origini straniere.---In una lettera inviata dal presidente della Banca centrale tedesca, Jens Weidman, al presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, la Bundesbank lancia l'allarme sui crescenti rischi della politica monentaria impostata dal governatore italiano.

Pil Sicilia, si prevede un calo del 2,2%
Il gasolio agricolo è sempre più caro
Inflazione: consumatori, ricaduta 1. 305 euro anno per le famiglie
1° marzo. Gli immigrati scioperano. Ma qual è il loro valore economico?
In una lettera la Bundesbank attacca Draghi: troppo generosi i prestiti alle banche. Rivedere subito le regole sui collaterali
Bosnia i Erzegovina. Vent'anni di sofferta indipendenza



Pil Sicilia, si prevede un calo del 2,2%
di Stiben Mesa Paniagua
È quanto emerge dal quinto numero di CongiunturaRes, dell’Osservatorio della Fondazione Res. Le stime della Banca d’Italia sono meno “nere”: 1,5 punti percentuali di flessione
PALERMO – Il Prodotto interno lordo della Sicilia potrebbe scivolare di 2,2 punti percentuali in questo 2012 rispetto al 2011. Il quadro, per nulla roseo, potrebbe essere molto simile anche nel 2013. È quanto è stato prospettato dall’Osservatorio Congiunturale della Fondazione Res nel quinto numero di CongiunturaRes. L’istituto di ricerca, promosso e sostenuto da UnicreditGroup e dalla Fondazione Banco di Sicilia, ha recentemente presentato, presso la facoltà di Economia dell’Università di Palermo, un focus dedicato alla situazione dell’occupazione ed economica in Sicilia.
 Il Prodotto interno lordo siciliano – vale a dire il valore complessivo dei beni e dei servizi prodotti nella regione – è lo specchio dell’economia dell’Isola che, insieme a quella italiana, sta vivendo in questo tempo la crisi più drammatica e complessa dall’ultimo dopoguerra ad ora. La stima della Fondazione conferma i segnali di rallentamento generale del sistema Sicilia, tra aumento della disoccupazione, calo dei consumi e della produzione da parte delle imprese. Stallo che, in assenza di interventi, scrivono nel focus: “Potrebbe estendersi fino alla seconda metà del 2013, con l’avvio di un lento percorso di recupero solo a partire dall’anno successivo”. In pratica alla flessione del 2,2 per cento attesa per quest’anno, “potrebbe seguire un rallentamento dello 0,5 per cento nel 2013, – dicono nel report – a conferma di una double-dip recession caratterizzata da una doppia caduta, con una breve pausa intermedia (una sorta di rimbalzo tecnico del sistema nel 2010), al termine della quale le condizioni dell’economia potranno rivelarsi decisamente più negative di quelle iniziali”.
 Ampliando lo sguardo si può notare come a partire dal 2010, la variazione rispetto all’anno precedente del Prodotto interno lordo reale dell’Isola sia andata via via regredendo: 2010 1,1 per cento, 2011 0,3 per cento e le previsioni per il 2012 -2,2 per cento.
 Questo balzo indietro ipotizzato dalla Fondazione Res sposta l’asticella della flessione molto più in basso; rispetto ad altre previsioni iniziali che sembravano essere un po’ più rassicuranti, anche se ugualmente di segno negativo. Per esempio la Banca d’Italia sul Bollettino economico n. 67 di gennaio faceva una stima di un calo di 1,5 punti percentuali. Così come l’associazione Prometeia nel Rapporto di previsione di gennaio stimava un -1,7 per cento.
 La dinamica del Prodotto interno lordo siciliano è molto simile all’andamento di quello italiano (come si può vedere nel grafico), anche se la crisi sembra aver colpito un po’ più a fondo nell’Isola.
 Il problema, come hanno sottolineato durante la presentazione dei dati gli studiosi della Fondazione più volte, è che, al di là della congiuntura economica, si sta attraversando una vera e propria crisi di fiducia. E proprio per questa ragione superarla non sarà facile. Se non si vuole lasciare la barca “Sicilia” alla deriva, oltre alle promesse e agli annunci in pompa magna, le imprese e i cittadini – che vivono la crisi sulla propria pelle – hanno bisogno di fatti concreti, soluzioni verificabili e riscontrabili.
Articolo pubblicato il 01 marzo 2012

Il gasolio agricolo è sempre più caro
 «Il nuovo record della benzina, salita alla media che ha superato 1,80 euro al litro (con picchi sino a 1,90) fa crescere le preoccupazioni degli imprenditori agricoli.
«Non dimentichiamo - dice Confagricoltura - che gli agricoltori sono anche consumatori e subiscono i contraccolpi degli aumenti dei carburanti, sia sui bilanci aziendali, sia su quelli familiari. Inoltre questi rincari, seppur destinati inevitabilmente a pesare sull'inflazione, potrebbero essere presi a giustificazione di nuovi rialzi di prezzo al consumo degli alimentari freschi, come l’ortofrutta, il cui trend - come si è evidenziato  al tavolo di confronto con Mister Prezzi - è invece in calo dopo gli aumenti congiunturali dovuti al maltempo».
«Negli ultimi sei mesi i costi agricoli per i carburanti hanno avuto - fa presente Confagricoltura - un incremento del 10,83%. Ora è arrivata la nuova raffica di rincari che aggrava una situazione già oggettivamente insostenibile per le aziende agricole e pone seriamente a rischio le coltivazioni e gli allevamenti».

Inflazione: consumatori, ricaduta 1. 305 euro anno per le famiglie
12:35 01 MAR 2012
 (AGI) - Roma, 1 mar. - "L'inflazione di nuovo in salita e' un segnale preoccupante, che non si puo' e non si deve sottovalutare". Lo sottolineano Federconsumatori e Adusbef spiegando che "gli aggravi per le famiglie saranno di oltre 1.305 euro annui, di cui oltre 216 solo nel settore alimentare (stando agli aumenti denunciati dall'Istat)". Purtroppo, aggiungono i consumatori, in tale settore, "la crescita dei prezzi stimata dall'Istat ci risulta ancora sottostimata. Le ricadute nel settore alimentare saranno gravissime, soprattutto sulla spinta delle speculazioni in atto e dell'aumento dei carburanti, in crescita sia per l'erroneo ed incredibile aumento della tassazione nel corso dell'ultimo anno, sia a causa delle gravi tensioni internazionali sul prezzo del petrolio". "Si tratta di cifre insostenibili per le famiglie che, solo nel corso dell'ultimo anno, hanno conosciuto una caduta del proprio potere di acquisto del -2,8%." - dichiarano Rosario Trefiletti ed Elio Lannutti. Per questo e' indispensabile intervenire al piu' presto".

1° marzo. Gli immigrati scioperano. Ma qual è il loro valore economico?
In Italia si contano oltre 2,2 milioni di occupati stranieri, di cui 402mila sono imprenditori, con il loro lavoro producono il 12,1% del valore aggiunto nazionale, in sede di dichiarazione dei redditi notificano al fisco 40 miliardi di € (12.507 € a testa) e pagano di Irpef quasi 6 miliardi di € (2.810 € a testa).
Comunicato del  01/03/2012
 Ricoprono quelle mansioni che “gli italiani non vogliono più fare” come camerieri, baristi, pittori, stuccatori, magazzinieri, muratori, carpentieri, commercianti ambulanti… Ma rappresentano la parte di popolazione che maggiormente ha subìto gli effetti negativi della crisi dal momento che di tutti i nuovi disoccupati creati dal 2008 al 2011, il 40% è di origine straniera. Ma gli immigrati sono anche quelli che “ringiovaniscono” l’Italia: il 13,9% di tutti i nati lo scorso anno sono stranieri. Inoltre, tra gli oltre 4,5 milioni di residenti (il 7,5% della popolazione totale), 650mila sono giovani di seconda generazione, minori cioè che sono nati in Italia ma che sono ancora per lo stato italiano cittadini stranieri. Queste le informazioni più significative del fenomeno migratorio in Italia e del loro impatto sull’economia nazionale elaborate dalla FONDAZIONE LEONE MORESSA che ha analizzato gli ultimi dati a disposizione.
Gli stranieri nel mercato del lavoro. L’Italia conta oltre 2,2 milioni di occupati stranieri, la maggior parte concentrati nelle aree settentrionali: oltre mezzo milione nella sola Lombardia, oltre 200mila in Emilia Romagna, Piemonte, Lazio e Veneto. Ma dal 2008 al 2011 si è assistito in Italia ad un aumento del tasso di disoccupazione di 3,4 punti percentuali passando dell’8,1% all’11,5%, raggiungendo 291mila immigrati senza lavoro. Questo significa che nel triennio considerato un nuovo disoccupato su quattro ha origini straniere. La crisi sembra però non aver fermato la voglia di fare impresa da parte degli immigrati: gli attuali 402mila imprenditori di origine straniera (che rappresentano il 9% di tutti gli imprenditori in Italia) sono aumentati in numerosità nell’ordine del 3% dal 2010. Tra lavoro dipendente e autonomo gli stranieri, secondo alcune stime, contribuirebbero alla formazione del 12,1% del Pil nazionale, che tocca il 15% in Umbria e che supera il 14% in Veneto, Piemonte, Lombardia, Lazio ed Emilia Romagna.
Effetto sostituzione italiani – stranieri per alcune professioni. Gli stranieri sono occupati prevalentemente in lavori dalla media e bassa qualifica. Quasi un terzo è occupato in professioni non qualificate e il loro numero è cresciuto più di quanto non si sia verificato per altre professionalità. Tra le prime professioni più ricoperte da stranieri, sembra che molti mestieri “manuali” siano stati “snobbati” dagli italiani, che hanno lasciato progressivamente il posto agli stranieri, assistendo ad un vero e proprio effetto sostituzione. Nel caso di categorie come la ristorazione (cuochi, camerieri, baristi), i lavoratori non qualificati nell’industria e le figure di saldatori, montatori e lattonieri i nuovi ingressi di stranieri hanno superato di gran lunga gli abbandoni degli italiani (oversostituzione). Si registra una perfetta sostituzione (quando il flusso in entrata di stranieri è simile a quello in uscita degli italiani) nel commercio ambulante e nelle professioni di laccatori, palchettisti e pittori. Si tratta di sostituzione parziale per i magazzinieri, manovali edili, muratori, carpentieri, ponteggiatori, pavimentatori, idraulici, installatori…
Redditi dichiarati e Irpef pagato. In Italia si contano complessivamente 3,2 milioni di contribuenti nati all’estero che dichiarano oltre 40 milioni di €: tradotto in termini relativi si tratta del 7,9% di tutti i contribuenti  e del 5,1% del redditi complessivamente dichiarato in Italia. Gli stranieri dichiarano mediamente 12.507 € e si tratta quasi esclusivamente di redditi da lavoro dipendente. I nati all’estero nel 2009 hanno pagato di Irpef quasi 6 miliardi di €, che equivale a 2.810 € a testa.
Gli stranieri ringiovaniscono l’Italia. Oltre a contribuire allo sviluppo economico, gli stranieri concorrono ad abbassare l’età della popolazione italiana. Non solo i 4,5 milioni di stranieri residenti sono mediamente giovani, ma di tutte le nascite quasi il 14% è nato da genitori stranieri. Si stima che in Italia vi siano più di 650mila giovani di seconda generazione, ossia minori che per la nostra giurisdizione sono considerati cittadini stranieri pur essendo nati nel territorio italiano.
“La raccolta e l’analisi di dati sull’impatto economico dell’immigrazione” affermano i ricercatori della Fondazione Leone Moressa “permette di delineare un profilo il più possibile oggettivo del fenomeno migratorio, affinché questo non faccia parte esclusivamente della agende politiche sulla sicurezza, ma che sia riconosciuto come vero e proprio strumento di sviluppo economico, prosperità e competitività: in sostanza un valore economico. Questo rende ancora più urgente una seria riflessione sul diritto di cittadinanza: un bambino che nasce in Italia da genitori stranieri acquisisce la loro cittadinanza e non quella italiana, cioè del Paese nel quale è nato e nel quale molto probabilmente costruirà il proprio futuro”.

In una lettera la Bundesbank attacca Draghi: troppo generosi i prestiti alle banche. Rivedere subito le regole sui collaterali
La maxi-asta con cui la Bce ha ieri prestato 530 miliardi di euro a 800 banche europee (139 alle banche italiane) al tasso agevolato dell'1% da restituire in tre anni, contenta Borse e spread (ai minimi da 6 mesi). Ma scontenta la Bundesbank. In una lettera inviata dal presidente della Banca centrale tedesca, Jens Weidman, al presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, la Bundesbank lancia l'allarme sui crescenti rischi della politica monentaria impostata dal governatore italiano.
Sotto accusa proprio le due maxi-aste della Bce (la prima il 21 dicembre, la seconda ieri) e le nuove regole sui collaterali (i titoli offerti in garanzia dalle banche per ottenere il prestito a tasso agevolato) che prevedono la possibilità di includere anche asset rischiosi. Tra questi, sono stati esclusi in ultima ratio solo i titoli greci (dopo che l'agenzia di rating Standard and Poor's ha tagliato il rating di Atene a "Sd", default selettivo).
Il presidente della Buba scrive che se una parte dei crediti non venissero risarciti, le banche di emissione nazionali dell'eurosistema potrebbero non essere in grado di compensarle.
Weidman accusa Draghi di aver impostato parametri "troppo generosi" per offrire alle banche europee l'accesso alla liquidità. Una mossa che potrebbe spingere in alto l'inflazione, il cui contenimento resta il primo obiettivo istituzionale della Banca centrale europea (che per statuto, a differenza di Federal Reserve, Bank of England, Bank of Japan e Banca centrale svizzera) non può stampare moneta e quindi aiutare direttamente gli Stati membri.
Nella sua lettera - ricevuta in esclusiva dal Frankfurter Allgemeine Zeitung, su cui la Bundesbank non rilasciato al momento commenti -Weidmann chiede un ritorno alle regole sui collaterali vigenti nel periodo pre-crisi (prima di luglio 2011) e sottolinea i rischi derivanti dai crescenti squilibri nel sistema di pagamento transfrontaliero della zona euro, conosciuto come Target2.
 01 marzo 2012

Bosnia i Erzegovina. Vent'anni di sofferta indipendenza
di Marija Miladinovic
Zlatko Hodzic lavora alla RSI come presentatore. Vent’anni fa faceva il giornalista a Sarajevo, fino allo scoppio della guerra. Oggi ci racconta cos’è cambiato in Bosnia da allora.
Dicono che ci vogliano vent’anni per fare una generazione, sono stati sufficienti per fare una Nazione?
No. Quando furono stipulati gli Accordi di Dayton si sperava in un progresso: in verità il Paese è paralizzato da allora. Io sono scettico perché conosco la realtà locale e mi sembra che la Bosnia stia stagnando in un sistema governativo sbagliato. Al mondo non esiste un altro Paese in cui ci siano: un’autorità a livello comunale, quelle cantonali, un Governo fatto in base alle nazionalità, e in più c’è un rappresentante dell’Unione europea che gestisce il tutto. Questi livelli di potere non permettono di fare passi avanti, non è un caso che ci sia tutta questa lentezza nel progredire. Si dovrebbe fare un inventario dei problemi e rivoluzionare interamente la Costituzione bosniaca. Quando sono stati fatti gli Accordi di Dayton ho detto: “bene”. Solo che poi hanno creato queste due maledette entità. Quando un croato propone qualcosa, il politico della Repubblica Srpska (serba, ndr) pensa subito che ci sia dietro una fregatura, e viceversa. Se la politica non prevedesse una divisione precostituita, ci si verrebbe più in contro. L’appartenenza, la nazionalità non devono essere i fattori su cui basare la propria scelta, altrimenti va a finire che si decide per il male minore. Un Paese come la Bosnia ha il 40% di disoccupazione, criminalità e corruzione alle stelle; il tutto è dovuto allo stallo dato da questi livelli di potere che abbiamo citato. Dovrebbe essere un Governo scelto dal popolo ma non a seconda dell’etnia, tutto lì.
Quali aspettative sono state deluse?
La popolazione sperava che si potesse stare insieme, come effettivamente succede ora in Bosnia, uno accanto all’altro, anche se non c’è più il rapporto che c’era prima della guerra. Ci si aspettava che si potesse ricostruire il Paese, creare dei posti di lavoro e uno Stato che possa provvedere alla gente. Ma così non è stato. Quando sono stato intervistato dalla televisione bosniaca, dopo gli Accordi di Dayton, ho detto che a mio avviso sarebbero passate almeno due generazioni per poter mettere da parte l’accaduto e avere uno Stato “normale”. Probabilmente avevo ragione.
Quindi ci vorranno altri vent’anni?
Venti, o anche dieci, dipende dall’Unione europea. Adesso soffiano diversi venti all’interno del Paese, e quelli che arrivano dall’esterno fanno sì che la situazione non migliori. Dopo la guerra, moltissime fabbriche sono state vendute a magnati stranieri per spiccioli. A Mostar per esempio, una fabbrica intera è stata venduta per un franco, per aggiudicarsela bastava avere un progetto. Questa fabbrica ha impiegato 300 lavoratori invece dei 1.500 che c’erano in precedenza e dopo un anno ha chiuso i battenti rivendendo i macchinari all’estero. Questo vuol dire che in molti hanno colto l’occasione per speculare. I dipendenti non ricevono lo stipendio per mesi perché non protetti dallo Stato, il quale ha invece incoraggiato questa privatizzazione criminale. Si fanno pochi passi e molto corti.
La popolazione ha fiducia nella politica?
Per niente, perché c’è nepotismo e ipocrisia fra i politici. Il Governo è stato scelto dopo più di un anno. Perché? Perché i partiti si “giocavano” le poltrone tra loro. Tutto questo ha portato la gente a non pensare all’interesse comune ma solo al proprio: ne conseguono quindi corruzione e criminalità. La gente si è quasi rassegnata, non sa chi votare e di chi fidarsi. La Bosnia deve fare molto di più, ma non ce la può fare da sola. Tra le tre etnie, che politicamente non si metteranno mai d’accordo, ci deve essere qualcuno che faccia da mediatore.
Non ci sarebbe già dovuto essere?
Certo, il problema è che ad ogni decisione segue una tempesta da parte dei partiti interni. Per quanto riguarda Dayton, già nel ’98 si era capito che l’accordo non garantisce le libertà fondamentali. L’unica cosa che è cambiata è che non si spara più.
Ma tra vicini di casa c’è ancora astio?
Questo è il problema, il tasto dolente. Perché la gente comune vive e convive come prima della guerra, sono addirittura aumentati i matrimoni misti. Il problema vero è dato dal grandissimo vuoto della politica e non dai cittadini. È un Paese in cui si ascolta la stessa musica e si parla la stessa lingua ma ci si informa ognuno dalla propria rete: ci sono 46 reti televisive, e nessuna fallisce. Questo vuol dire che ci sono mezzi mediatici a disposizione dei politici per provocazioni populiste. Ed è quando ci sono dei disagi tra la popolazione che questi mezzi assumono un ruolo decisivo.
Si spera in un futuro nell’UE?
C’è molta fiducia in questo senso. Solo una supervisione dell’UE potrebbe portare il Paese al progresso, all’interno non ci sono le forze per farlo. Non ci sono o non riescono a trovare un accordo. Anche perché, se consideriamo la celebrazione dell’indipendenza: due membri della presidenza la festeggeranno, il terzo no. La stessa cosa avviene quando ci sono i festeggiamenti in Repubblica Srpska. C’è bisogno di qualcuno dall’esterno che smuova la situazione, che dica «ragazzi avete giocato per vent’anni con la politica sciovinista e nazionalista – parlo di tutti e tre gli esponenti – ora bisogna fare uno Stato dove la gente stia bene, lavori, viva bene, si sposti senza conseguenze».
«L’accordo di Dayton fu un errore»
Il politologo e politico svizzero di origini bosniache Nenad Stojanovic è collaboratore esterno della Direzione dello sviluppo e della cooperazione DSC, Dipartimento federale degli affari esteri, a capo del progetto “Contributo svizzero alla riforma costituzionale in Bosnia ed Erzegovina”. Con noi ha accettato di fare qualche bilancio delle intricate vicende bosniache a vent’anni dalla guerra e dall’indipendenza.
Parliamo dell’indipendenza bosniaca...
L’indipendenza è stata un evento tragico perché seguita dalla guerra durata tre anni e mezzo. Nella maggior parte di questi nuovi Stati, nati dall’implosione della Jugoslavia, la gente vive peggio di vent’anni fa. Lo Stato è ancora molto fragile. Si regge sugli Accordi di Dayton, i quali sanciscono che il sistema si basa sulla suddivisione in tre gruppi etnici distinti.
Ed è un sistema che funziona?
Funziona male. Questa separazione è simile all’Apartheid: nelle scuole, i bambini vengono suddivisi per classi a seconda l’appartenenza etnica. Il che, oltre ad essere assurdo, è anche triste. È una separazione forzata, perché è gente che parla la stessa lingua, anche se la chiamano in tre modi diversi.
Se la divisione etnica è forzata, un referendum sull’indipendenza della Republika Srpska torna però in auge ciclicamente.
Il referendum è uno strumento dei leader nazionalisti per raggiungere altri scopi. Ciò non sarebbe permesso dalla comunità internazionale perché destabilizzerebbe tutta la regione dei Balcani occidentali. Inoltre, queste indipendenze hanno portato morte e distruzioni e nessuno vuole che questo si ripeta.
Come giudica la stabilità del Governo attuale, eletto dopo quattordici mesi di attesa?
La difficoltà di formare un Governo è insita al tipo di sistema politico messo in piedi dagli Accordi di Dayton, i quali privilegiano i partiti etnici rispetto a quelli multietnici, una mescolanza intrapartitica non è prevista. Sono sistemi che portano a diverse difficoltà: anche in Belgio il Governo è stato formato dopo un anno e mezzo e non è un caso. Ciò avviene perché si obbligano i partiti ad assumere posizioni radicali prima delle elezioni, e solo dopo formare coalizioni con posizioni più moderate. Serve una riforma del sistema elettorale.
Come vede un’eventuale candidatura all’UE?
Questione di tempo. Accadrà. Come è successo a Croazia e Serbia. La carta europea serve, per dare non solo maggiore stabilità politica, ma anche una prospettiva concreta, per vedere la propria situazione socio-eonomica migliorare.
Cosa non è stato recepito da chi non ha vissuto questi cambiamenti?
Non è stato capito che, affinché i cittadini possano essere davvero liberi, non bisogna istituzionalizzare le differenze etniche. Questo è un grave errore. Rigide quote che suddividano i seggi non portano a niente di buono. Bisogna concedere il lusso di cambiare il proprio gruppo d’origine, creare legami potendosi anche differenziare all’interno di uno stesso gruppo etnico. C’è chi non si sente parte di nessun gruppo, così come non esiste l’omogeneità all’interno dei gruppi esistenti. È importante poter sviluppare delle identità multiple legate non solo all’etnia, ma anche al territorio, all’opinione politica, eccetera. Per liberarsi dalla “gabbia etnica”. (Ma.Mi.)
Intervista a Toni Capuozzo: «Serviranno anni prima che torni la curiosità e apertura all’altro»
Sarajevo oggi: la condanna di «una memoria troppo viva»
di Maria Acqua Simi
«Quella bosniaca è una pace apparente e precaria». Così, con la voce roca tipica di chi ha mangiato la terra consumando le suole facendo l’inviato e fumando migliaia di sigarette, Toni Capuozzo commenta i 20 anni di un’indipendenza, quella della Bosnia-Erzegovina, il cui bilancio «è melanconico». Capuozzo ha vissuto la guerra dei Balcani da inviato di punta: era sotto le bombe a Sarajevo e ci torna, ogni anno, da allora. «Quello che era stato il sogno della resistenza della Sarajevo assediata e cioè ricostruire una città multiculturale, multietnica, crogiuolo delle diversità è fallito e oggi si confronta con un presente molto più modesto», spiega il giornalista. Che prosegue: «Dal punto di vista dell’ingegneria costituzionale quello che è stato il tentativo degli accordi di Dayton di costruire una Federazione che vedesse equamente rappresentati tutti quanti i gruppi etnici della Bosnia si è rivelato solo un trionfo della burocrazia. Per fare un esempio: ci sono tre ministri dei Trasporti, sei sottosegretari ai Trasporti in ogni Cantone. Si vive in una sorta di assistenzialismo politico-burocratico mantenuto dalla comunità internazionale e c’è comunque un diverso modo di guardarsi tra le diverse etnie che è solo non violento. Non si spara più. Ma parlare di una Federazione autentica non si può».
Nemmeno con l’adesione all’UE, domandiamo.
«In questo momento far aderire qualcuno all’UE è come invitarlo a fare una crociera su una nave della Costa. Non è un passaporto per la salvezza per nessuno. Forse entrare nella comunità europea può indebolire delle divisioni interne al Paese. Ma sarà un processo lungo, in ogni caso». Non crede in una riesplosione del conflitto, Capuozzo. «C’è molta stanchezza, ora. Ma è una pace precaria. Non si spara, certo. Ma rimangono dei confini invisibili nel Paese. I confini sono nell’anima della gente. E trattandosi di una storia unica che si è frantumata, questo è un po’ più doloroso. Il tempo non ha fatto altro che aprire queste ferite e approfondire queste diversità. Ci vorranno generazioni prima che torni l’ingenuità e la curiosità nei confronti dell’altro».
Perché la guerra non è così lontana, nella memoria del popolo bosniaco, che ancora oggi si divide nettamente in serbi (ortodossi), croati (cattolici) e bosgnacchi (musulmani). «La memoria a volte è una condanna. Noi tutti veniamo incitati a ricordare, ma talvolta non è così facile girare pagina. In Bosnia ad esempio il nazionalismo sconfina nell’identità religiosa. Il problema è che nelle situazioni di crisi non è facile l’apertura all’altro. Le crisi mordono, corrodono: e più va in frantumi identità, più uno si attacca al primo simbolo che passa pur di affermarsi. Fosse pure il dialetto della propria regione». La vita a Sarajevo, per il cronista, è oggi spenta. Nessuno spera in qualcosa di meglio. La guerra non esiste semplicemente perché nessuno ha voglia di farla. Ma allo stesso modo, è la vita, che manca. «C’è perfino chi rimpiange le tragedie della guerra. Era un periodo duro, ma rispetto alla modestia del presente, era un tempo in cui tutto sembrava possibile. Si riusciva a sperare nel cambiamento. Oggi invece si campa di sussidi, piccoli commerci e tutto quello che è stato…viene da chiedere: a cosa è servito?». E sulle etnie che compongono la Nazione, il giudizio di Capuozzo è chiaro. Adesso sono i bosniaci musulmani a imporsi. Lo racconta con un esempio. «C’è stata recentemente una polemica molto forte perché il ministro dell’Educazione, un musulmano laico (del Cantone di Sarajevo) si è detto contrario all’insegnamento religioso nelle scuole. È stato minacciato e ha dovuto dimettersi. Perché accade questo? Vent’anni fa, i musulmani sono stati bombardati per la loro religione e ora che c’è la pace, si sentono in dovere di essere musulmani fino all’estremismo. L’identità ne è uscita esacerbata». Ma, Capuozzo ne è certo, «si potrà ripartire. Dalle nuove generazioni, si potrà ricostruire».
01.03.2012

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