mercoledì 20 giugno 2012

pm_20.6.12/ Danni collaterali.===La Germania continua dunque a finanziarsi a costi decisamente inferiori a quelli pagati dagli altri partner dell'Eurozona. La Francia, paese peraltro estraneo al contagio della crisi del debito sovrano, per finanziarzia a due anni paga lo 0,56%, cioe' 5,6 volte in piu' di Berlino.---La grande fuga da Napoli è stata sottolineata a maggio anche dal National Geographic che nel secondo numero della nuova rivista pubblicata con il Touring Club ha dedicato la copertina alla città. «Nel 1980 il centro storico - ha scritto - vantava la presenza di circa 1.500 imprese. Negli ultimi trent’anni quest’area ha perso il 60 per cento dei residenti, ha visto invecchiare la popolazione e, nell’ultimo ventennio, ha assistito al progressivo sfaldamento del suo sistema manufatturiero, con una perdita di oltre il 50 per cento della propria forza lavoro.

Censimento della popolazione Napoli non è più milionaria
LA NUOVA SARDEGNA - Economia: La crisi più lunga, isola a crescita zero
L'UNIONE SARDA - Economia: «Lo Stato deve alla Regione quasi 1,5 miliardi»
Industria: in calo ordini e fatturato
I danni «collaterali» che feriscono l'Italia
Germania: raccoglie 4 mld con titoli biennali e paga appena lo 0,1%
Svizzera. Le imprese svizzere nelle mani di dirigenti stranieri

Censimento della popolazione Napoli non è più milionaria
Per la prima volta dal 1951 la città scende a 970.438 residenti. Nel '600 era più popolosa di Londra e di Parigi
L'incipit è scontato e banale: Napoli non è più milionaria. Però, senza scomodare il grande Eduardo, è la frase che rende meglio l'idea di cosa stia accadendo a livello demografico nell'ex capitale del Sud. Anche con il dilemma: 'a nuttata è passata o adda passà.
CURVA DISCENDENTE - Il fatto è che ieri l’Istat ha ufficializzato i dati definitivi sulla popolazione emersi dal quindicesimo censimento d’Italia, aggiornando le cifre, riguardanti le metropoli, che prima erano state soltanto stimate. La notizia era nell’aria ma ora ha avuto l’imprimatur dei documenti storici: per la prima volta dal 1951 Napoli scende sotto il milione di abitanti. Per l’esattezza 970.438. Un dato che ormai non stupisce ma ha ugualmente una grande portata storica. A fine Cinquecento la città era la più popolosa d’Europa (540 mila anime nel 1595) superando addirittura Londra e Parigi. Per questo fu anche tra le prime a sperimentare l’architettura verticale per conquistare spazi in altezza. Così nello stesso palazzo di cinque-sei piani vivevano nobili, popolani, borghesi in una promiscuità tale da far abortire, prima ancora che ne nascesse l’idea, la divisione di classe in città. Colera, peste, eruzioni del Vesuvio non bastarono a invertire la rotta. Napoli era appetita, il punto di arrivo di migliaia di popolani che fuggivano dalle campagne. Nel 1936 la città contava circa novecentomila abitanti e nel Dopoguerra ci fu il salto demografico con la metropoli da ricostruire che superò a piè pari il milione. Per l’esattezza 1.010.550 abitanti. Il massimo si toccò nel 1971 con 1.226.594 napoletani. Poi una curva discendente e costante. Nel 2001 Napoli aveva salvato il milione per soli quattromilacinquecento cittadini.
TETTO SFONDATO - Ora il tetto è stato sfondato con tutto ciò che comporta. Ma soprattutto la domanda alla quale bisognerà rispondere è: perché da Napoli si continua a fuggire? In dieci anni sono andate via (numericamente) 34 mila persone. Ma il dato in realtà è molto più consistente: quasi quattromila residenti fuggiti ogni anno. Secondo alcuni studi del Cnr, si tratta invece di quattrocentomila persone di cui 200 mila giovani, in età compresa tra i 18 e i 30 anni, emigrati negli ultimi 10 anni. La metà del totale. L’altra metà si sarebbe spostata solo di pochi chilometri preferendo andare ad abitare in altre province, come quelle del Salernitano o del Casertano, per i costi minori e la maggiore vivibilità.
FUGA DA NAPOLI - La grande fuga da Napoli è stata sottolineata a maggio anche dal National Geographic che nel secondo numero della nuova rivista pubblicata con il Touring Club ha dedicato la copertina alla città. «Nel 1980 il centro storico - ha scritto - vantava la presenza di circa 1.500 imprese. Negli ultimi trent’anni quest’area ha perso il 60 per cento dei residenti, ha visto invecchiare la popolazione e, nell’ultimo ventennio, ha assistito al progressivo sfaldamento del suo sistema manufatturiero, con una perdita di oltre il 50 per cento della propria forza lavoro. Nel 2010 l’artigianato contava 3.975 addetti, con laboratori non superiori ai 50 metri quadrati e spesso non più di due addetti per bottega. Il 52 per cento degli artigiani ha ora come riferimento un unico committente, spesso un negoziante, che assorbe oltre il 60 per cento della produzione».
Vincenzo Esposito

LA NUOVA SARDEGNA - Economia: La crisi più lunga, isola a crescita zero
20.06.2012
CAGLIARI Con la tradizionale misura che contraddistingue il vertice della Banca d’Italia, Flavio Danalache, neo direttore pro-tempore della sede regionale, spiega che la Sardegna «è in sofferenza». Ma è un eufemismo. Il quadro statistico dimostra che l’economia regionale è boccheggiante. Vanno male i diversi comparti e quando stanno a galla, come nel caso dei servizi, il sistema ristagna ma non cresce. La crisi si fa sentire e i problemi che esistevano da tempo, tanto che per molti indicatori la Sardegna è tornata indietro di dieci anni, sono divampati. Dalla relazione elaborata dall’Ufficio studi della Banca d’Italia in Sardegna emerge che la spesa per investimenti da parte del sistema pubblico è stata fortemente ridotta. E quando le statistiche attestano che è aumentata la spesa corrente, in realtà, sono cresciuti solo i pagamenti della sanità. I costi della spesa ospedaliera, calcolati anche in termini pro capite, sono superiore alla media nazionale. In sostanza è venuto meno proprio quel traino dell’economia che c’era stato, ad esempio, negli anni Sessanta da parte dell’amministrazione pubblica. Un ruolo fondamentale: Flavio Danalache, che ha sostituito alla direzione Gioacchino Schembri, afferma che quello dei pagamenti ritardati della pubblica amministrazione nei confronti delle imprese che vantano crediti è uno dei maggiori problemi. Nell’isola sono stati fatti una serie di accordi tra la Regione e le banche «ma non si riesce a fare il passo conclusivo». La forza del sistema sardo può venire fuori da quella che, a prima vista, è una debolezza: il ruolo strategico delle piccole imprese, spesso a conduzione familiare, con modesto utilizzo di risorse tecnologiche e manageriali. Certo la Banca d’Italia sottolinea che quelle aziende che hanno tenuto bene e sono cresciute si sono aperte, guardando ai processi di internazionalizzazione. Ma in valori assoluti sono poche rispetto alla miriade di imprese piccole, che resistono nonostante le difficoltà del credito, il rapporto sbilanciato con uno Stato che da una parte fa l’esattore implacabile e dall’altro non paga. L’altra speranza viene dalla “consapevolezza” delle famiglie sarde, messa in rilievo nelle considerazioni della Banca d’Italia. Di fronte alla grave crisi di liquidità, i sardi si sono indebitati meno rispetto alla media nazionale: nel 2011 il rapporto tra i debiti finanziari e il reddito è stato pari al 52,5 per cento; con una crescita rispetto agli ultimi dieci anni ma tutto sommato contenuta. E l’indebitamento dei sardi risente in particolare dei mutui: il 18,5% delle famiglie ne aveva uno, con cinque punti percentuali più alti rispetto al resto della nazione. Per questo, a giudizio del vertice regionale della Banca d’Italia, nell’isola spaventa meno il peso delle carte di credito revolving: «Sono solvibili», assicurano. La ricchezza delle famiglie resta consistente, stimata in 173,9 miliardi di euro, suddivisi tra il possesso delle abitazioni (116,5 miliardi) e le attività finanziarie. Il “tesoro” delle famiglie deriva dalle proprietà immobiliari (più dell’82 per cento), rispetto alle attività finanziarie. Nei titoli pubblici italiani è stato investito un miliardo e seicento milioni.Gravissima la condizione dei giovani sardi ma la Banca d’Italia sottolinea un dato particolarmente preoccupante: il trenta per cento dei ragazzi tra i 15 e i 34 anni fa parte della generazione Neet, sono tra coloro che non studiano e non lavorano. Un dato allarmante, (la media nazionale, pur alta, è inferiore di sei punti). E in questo dato è implicita la critica al sistema scolastico e formativo perché sulla probabilità di trovarsi nella condizione di giovane Neet, (Not in education, sployement or training), incide il titolo di studio conseguito. Tra i laureati, quelli provenienti dalle discipline umanistiche e sociali, al contrario di quanto sta accadendo in Germania, locomotiva dello sviluppo europeo, sono maggiormente a rischio. La svolta per l’economia può incominciare dalla scuola.

L'UNIONE SARDA - Economia: «Lo Stato deve alla Regione quasi 1,5 miliardi»
20.06.2012
La gestione del bilancio regionale è stata condizionata dal quadro di rigidità costituito dalla mancata soluzione della Vertenza entrate e dall'immobilismo dei vincoli imposti dal Patto di stabilità. Lo scrive la Corte dei conti nella relazione all'esercizio finanziario 2011 della Regione «Lo Stato non ha accolto la possibilità di adeguare nel 2011 il Patto alle incrementate quote d'entrata», evidenziano i giudici contabili, «e nonostante le pronunce della Corte costituzionale del primo semestre 2012, che hanno affermato che la riforma delle entrate deve ritenersi a regime fin dal 1 gennaio 2010, con il conseguente credito maturato in favore della Regione nei confronti dello Stato che ammonta a 1,459 miliardi al 31 dicembre 2011». La Corte sottolinea dunque il mancato adempimento dello Stato agli obblighi. «Una relazione che testimonia quanto abbiamo sempre affermato sia in relazione all'esercizio 2011 e sia in sede di discussione della Finanziaria 2012», hanno commentato il presidente della Regione, Ugo Cappellacci, e il vicepresidente e assessore della Programmazione, Giorgio La Spisa: «Lo Stato deve restituire alla Sardegna le risorse che le spettano e ricorreremo in ogni sede per rivendicare questo credito. La cifra di 1,460 mld rappresenta per la Sardegna e i sardi un'opportunità di rilancio che non possiamo perdere». Diversa la lettura della relazione da parte di Franco Sabatini, esponente del Pd e vice presidente della Commissione bilancio del Consiglio regionale. «I dati presenti nella relazione della sezione di controllo per la Sardegna della Corte dei Conti confermano quanto l'opposizione ha sempre sostenuto e cioè che il presidente Cappellacci e l'assessore La Spisa sulla vertenza entrate e sul patto di stabilità non sono stati in grado di aprire un confronto utile con lo Stato».

Industria: in calo ordini e fatturato
Ad aprile il calo su base mensile è di 1,9 per cento per gli ordinativi e dello 0,5 per cento per il fatturato. Su base annua -12,3 per cento e -7 per cento.
ID doc: 75736 Data: 20.06.2012 (aggiornato il: 20.giu.2012)
I dati Istat indicano che gli ordinativi dell'industria ad aprile hanno registrato una riduzione congiunturale dell'1,9%, sintesi di diminuzioni dello 0,3% degli ordinativi interni e del 4% di quelli esteri. Nel confronto con il mese di aprile 2011, l'indice grezzo degli ordinativi segna un calo del 12,3%. Nella media degli ultimi tre mesi gli ordinativi totali diminuiscono del 4,7% rispetto al trimestre precedente. Per quel che riguarda il fatturato dell'industria, al netto della stagionalita',
ad aprile registra un -0,5% rispetto a marzo, con cali dello 0,1% sul mercato interno e dell'1,4% su quello estero. Nella media degli ultimi tre mesi, l'indice totale scende dello 0,2% rispetto ai tre mesi precedenti. L'indice grezzo del fatturato diminuisce, isu base annua, del 7%.

I danni «collaterali» che feriscono l'Italia
Potremmo chiamarli danni "collaterali". Il deprezzamento dei titoli di stato e dei bond bancari sta facendo terra bruciata intorno agli istituti di credito italiani: dato che ormai per ottenere qualunque tipo di finanziamento tutte le banche devono consegnare titoli in garanzia (chiamati appunto "collaterali"), più questi titoli si deprezzano meno finanziamenti le banche italiane riescono ad ottenere. In Spagna è ancora peggio: proprio ieri la cassa di compensazione Lch ha aumentato le garanzie richieste a chi consegna titoli di Stato spagnoli. È così che la bufera in Borsa, i rating e le regole della finanza finiscono per esasperare una crisi diventata ormai economica e sociale: perché tagliano le gambe proprio a chi, per la sola "sfortuna" di trovarsi in un Paese debole, è più in difficoltà.
Prendiamo per esempio i finanziamenti presso la Bce. L'istituto centrale presta alle banche tutti i soldi di cui hanno bisogno. C'è un'unica condizione: che queste diano alla stessa Bce dei titoli in garanzia. Cioè del "collaterale". Ebbene: più il rating di questi titoli è basso, meno soldi la Bce eroga. Dato che le banche dei Paesi più deboli hanno da offrire titoli di Stato o bond bancari con rating più bassi (perché il loro portafoglio è spesso concentrato sul proprio Paese), la loro possibilità di "abbeverarsi" a Francoforte è dunque limitata. Ma il problema vero nasce per le banche con rating "spazzatura" (sotto la "BBB-"): dato che la Bce non accetta nulla con quel tipo di rating (con alcune eccezioni per Grecia, Irlanda e Portogallo), questi istituti perdono la possibilità di consegnare in Bce le proprie cartolarizzazioni o i propri bond. Dunque perdono in parte le possibilità di finanziarsi a Francoforte.
Stesso discorso sui derivati. Ogni banca stipula contratti derivati con controparti internazionali. I più comuni sono gli swap, che servono per coprire i rischi di tasso. Ogni contratto di questo tipo è garantito da titoli dati come "collaterale". Ebbene: più si deprezzano questi titoli, o più si deteriora la qualità stessa della banca italiana, più le controparti estere chiedono di reintegrare le garanzie. E, sostengono alcuni banchieri, in alcuni casi ormai non accettano più nemmeno i BTp: vogliono solo Bund tedeschi, T-Bond Usa o cash. Ecco perché le banche più deboli si indeboliscono sempre di più. In Italia non c'è ancora allarme "rosso", come in Spagna, anche perché la Bce ha abbondantemente foraggiato tutte le banche. Ma i danni "collaterali", soprattutto negli istituti medio-piccoli, si vedono già.
 20 giugno 2012

Germania: raccoglie 4 mld con titoli biennali e paga appena lo 0,1%
20 Giugno 2012 - 12:11
 (ASCA) - Roma, 20 giu - Nonostante le prese di beneficio sui titoli di stati tedeschi a piu' lunga scadenza dopo un lunghissimo rally, la Germania rimane comunque un porto sicuro dove ormeggiare i risparmi.
 Nell'odierna asta di titoli di stato biennali (Schatz), Berlino ha raccolto 4 miliardi di euro corrispondendo agli investitori un rendimento dello 0,10%, in rialzo rispetto allo 0,07% della precedente asta. Molto buona la domanda pari a 7,5 miliardi di euro.
 La Germania continua dunque a finanziarsi a costi decisamente inferiori a quelli pagati dagli altri partner dell'Eurozona. La Francia, paese peraltro estraneo al contagio della crisi del debito sovrano, per finanziarzia a due anni paga lo 0,56%, cioe' 5,6 volte in piu' di Berlino.
 Molto peggio per i paesi che soffrono il contagio della crisi del debito sovrano. La Spagna per collocare titoli biennali paga interessi del 5,16%, cioe' 51,6 volte in piu' della Germania. L'Italia sui due anni paga interessi del 4,12%, cioe' 41,2 volte in piu' di Berlino.
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Svizzera. Le imprese svizzere nelle mani di dirigenti stranieri
Di Matthew Allen, swissinfo.ch
Chiamati sempre più spesso a dirigere le imprese elvetiche, i manager stranieri sono considerati da alcuni fondamentali per lo sviluppo economico del paese. Per altri, sono invece un ulteriore esempio dell’erosione dei valori svizzeri da parte degli stranieri.
 Entro pochi anni, si prevede che un dirigente aziendale su due attivo in Svizzera avrà nazionalità straniera. Secondo un rapporto della società Guido Schilling, specializzata nella ricerca di quadri aziendali, già oggi il 45% di tutti i manager impiegati dalle principali imprese elvetiche proviene dall'estero. Questa quota dovrebbe superare il 50% entro il 2015.
La Svizzera beneficia già da molto tempo delle capacità e delle conoscenze di dirigenti di origine straniera. Imprenditori come Henry Nestlé o Nicolas Hayek (Swatch) hanno dato in passato un’enorme contributo all’economia elvetica. Dal profilo economico, le critiche rivolte contro l’assunzione di dirigenti stranieri non si giustificano di certo.
Dato il piccolo mercato interno, le imprese svizzere sono costrette a indirizzarsi verso l’estero, se vogliono aumentare il loro fatturato e i loro utili. L'espansione verso nuovi mercati richiede però anche conoscenze ed esperienze che superano i confini nazionali.
Inoltre, la crescita delle imprese elvetiche in altri paesi genera anche posti di lavoro in Svizzera: molte aziende sono così spesso costrette a cercare manodopera qualificata all’estero, viste le ristrettezze del mercato del lavoro locale.

Crescente avversione
 L'apertura delle frontiere ai lavoratori dell'Unione europea, basata sull’accordo sulla libera circolazione delle persone entrato in vigore nel 2002, ha permesso in questi ultimi anni di soddisfare il fabbisogno di manodopera qualificata. Sono arrivati soprattutto cittadini tedeschi, che hanno spesso assunto impieghi di alto livello, tra cui molti posti dirigenziali.
"Le imprese svizzere sono veramente aperte: coloro che apportano le giuste competenze e sono disposti a fare uno sforzo per adattarsi sul luogo di lavoro, vengono generalmente ben accolti”, dichiara Jim Pulcrano, direttore esecutivo presso l’International Institute for Management Development (IMD) di Losanna.
"Il fatto di occupare i posti dirigenziali con manager stranieri di calibro internazionale serve tra l’altro a posizionare la Svizzera sul mercato mondiale, ciò che è ancora più utile se pensiamo che la maggiore crescita economica non si registra da tempo in Europa”, aggiunge Jim Pulcrano.
La crescente avversione contro l’afflusso di stranieri dimostra però che non tutti in Svizzera sono contenti di vedere cittadini tedeschi, francesi o britannici occupare i posti migliori nelle aziende elvetiche.
Le critiche, alimentate soprattutto dall’Unione democratica di centro (destra conservatrice), scaturiscono anche dal fatto che gli stranieri corrispondono ormai al 22% della popolazione residente in Svizzera. A detta di alcuni, la forte crescita degli immigranti sta provocando gravi disagi nel settore dei trasporti e per altre infrastrutture importanti.
Negli ultimi tempi, il malcontento si è manifestato soprattutto nei confronti dei lavoratori stranieri più qualificati, in particolare i tedeschi, che toglierebbero agli svizzeri numerosi impieghi nel settore medico, come pure in quello legale e industriale.

Cultura diversa
 Poco prima della crisi finanziaria si temeva che diverse importanti aziende svizzere potessero essere inghiottite da opportunisti stranieri. A suscitare queste paure vi è stata l’acquisizione della compagnia aerea Swiss da parte della tedesca Lufthansa e delle imprese Oerlikon e Sulzer parte deli miliardario russo Viktor Vekselberg.
Molti problemi di UBS e Credit Suisse durante la crisi del settore finanziario sono stati attribuiti tra l’altro all’arrivo ai posti dirigenziali delle due banche di molti manager anglosassoni, accusati di aver imposto un’altra cultura.
Il dito accusatore è stato inoltre puntato contro gli “insensibili” dirigenti stranieri, quando la società farmaceutica Novartis ha annunciato il taglio di 1'000 posti di lavoro alla fine del 2011 (poi revocato) e quando i proprietari tedeschi di Serono hanno deciso quest'anno di chiudere buona parte della produzione in Svizzera dell'azienda specializzata nelle biotecnologie.
"Vi è il pericolo che i manager stranieri siano troppo orientati a livello internazionale e facciano così perdere alle imprese svizzere il contatto con la cultura locale", rileva Ewald Ackermann, portavoce dell’Unione sindacale svizzera. ”Abbiamo già visto diversi esempi dei problemi che possono derivare dai programmi di ristrutturazione inflitti alle aziende elvetiche”.

Anche le pmi
 A detta di Jim Pulcrano, i manager stranieri non tendono però necessariamente a erodere i valori tradizionali delle società svizzere o a calpestare la manodopera locale.
“I dirigenti stranieri non cercano generalmente di invertire completamente la rotta delle imprese svizzere. Generalmente vengono piuttosto assunti per sviluppare gli affari nelle aeree in forte crescita, come l’Asia o l’America latina”, afferma il direttore di IMD.
Sono soprattutto le grandi multinazionali ad impiegare manager provenienti da altri paesi: il 66% dei dirigenti delle aziende più importanti quotate alla borsa svizzera hanno nazionalità straniera, secondo il rapporto della società Guido Schilling.
I manager stranieri interessano però anche le piccole e medie imprese (pmi) orientate verso l’esportazione. Secondo Thierry Volery, direttore dell'Istituto per le pmi presso l'Università di San Gallo, starebbero assumendo sempre più quadri aziendali anche all'estero.
"Queste aziende più piccole sono molto pragmatiche e innovative”, dichiara Thierry Volery. “Quando cominciano ad espandersi all’estero, cercano rapidamente di trovare dirigenti stranieri con le conoscenze necessarie per affrontare i nuovi mercati”.
 Matthew Allen, swissinfo.ch
Traduzione di Armando Mombelli

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