domenica 29 luglio 2012

(1) XXIX.VII.MMXII/ Se prima c’era qualche dubbio, ora non ce ne sono piu’, su Lo Bello.

Lo Bello: "Un pezzo di società non ha colto i segnali di crisi"      
Ilva, la città difende Riva
Crisi, contribuenti.it: italia, boom di capitali all'estero, 110 mld nel 2012.
Grecia: Schaeuble, nessuna altra concessione puo' essere data
La Svizzera resiste alla deindustrializzazione

Lo Bello: "Un pezzo di società non ha colto i segnali di crisi"      
Intervista al vice presidente di Confindustria, che nei giorni scorsi aveva sollevato il rischio default della Sicilia: "Era una provocazione per far riflettere, i problemi sono sotto gli occhi di tutti. Adesso spero che il voto possa portare un profondo rinnovamento. E servono gli investimenti dei privati"
di NINO SUNSERI
PALERMO. Adesso è scoppiata anche la rivolta della Casta. Il ritardo nel pagamento degli stipendi ha eccitato gli animi dei novanta componenti dell'Ars. Anch'essi, ora, lamentano la trasandatezza con cui la giunta ha gestito le risorse. Ivan Lo Bello, siracusano, vice presidente di Confindustria non ha avuto esitazioni nel sollevare il tema della crisi finanziaria della Regione. Ha auspicato l'intervento incisivo del governo per mettere sotto tutela i conti. Monti ha colto il disagio convocando Raffaele Lombardo. In Sicilia, però, le reazioni alle parole di Lo Bello sono state assai meno concilianti. Quelle usate dal Presidente della Regione, nel corso di una conferenza stampa erano vicine alla diffamazione.
Rifarebbe quella provocazione?
«Più che una provocazione era un ragionamento per riflettere sulle ragioni antiche e recenti della crisi finanziaria. Era un modo per richiamare l'attenzione dell'opinione pubblica su un problema ormai evidente come lo stato di liquidità dell'amministrazione regionale. Un po' come accade nelle aziende quando viene chiesto l'intervento di un revisore per certificare lo stato dei conti. Un'operazione di trasparenza».
Tanto più urgente adesso che sono in ritardo gli stipendi a Palazzo dei Normanni: la sua è stata quasi una profezia, non trova?
«Più che una profezia era il frutto di una lunga riflessione. Tre considerazioni che rendevano evidente la situazione: la difficoltà di bilancio della Regione non è un fatto episodico ma, purtroppo, un dato strutturale. Da alcuni anni».
Quali sono queste considerazioni?
«La prima riguarda la composizione del bilancio della Regione che ha perso ogni flessibilità perché gravato da un eccesso di spesa corrente. In gran parte destinata al personale e ai trasferimenti. Molto meno agli investimenti».
Molto assistenzialismo, poco sviluppo.
«I valori sono sotto gli occhi di tutti. La disoccupazione ha raggiunto la soglia del 19,5%. Si tratta solo dei dati ufficiali perché poi bisogna aggiungere tutti i siciliani, giovani e meno giovani che, stanchi di non trovare lavoro hanno anche smesso di cercare. Insomma, da questo punto di vista, purtroppo siamo vicini alla Spagna».
E anche alla Grecia. Insomma, la Sicilia prende i vizi di una parte e anche dell'altra.
«C'e' un pezzo della società siciliana che non ha colto i segnali della crisi. Il paradosso riguarda direttamente i 20 mila dipendenti regionali. Nessuno di loro si rende conto del rischio che corre. Forse solo adesso, visto il ritardo negli stipendi all'Ars qualcuno comincia a capire. Come i pensionati pagati direttamente per cassa. Una procedura molto pericolosa che esiste solo in Sicilia. Effetto di un'autonomia che, purtroppo, ha finito per danneggiare tutti e tutto. Probabilmente se fossimo stati controllati dallo Stato i 30 mila precari e 30 mila forestali oggi contribuirebbero con altri lavori alla crescita dell'economia isolana».
Servirebbe uno scossone. Chi può darlo?
«Solo gli investimenti privati. Non certo la spesa pubblica. Evidente, però, che il cambiamento passa attraverso la riforma della pubblica amministrazione e il mutamento della prevalente cultura politica».
Questo ci conduce alla seconda considerazione di fondo.
«Esattamente. La politica dei tagli varata negli ultimi due anni, prima da Berlusconi e adesso in maniera ancora più incisiva da Monti ha ridotto le risorse disponibili a Comuni e Regioni. La Sicilia non è sfuggita alla politica di rigore. Tuttavia avendo un bilancio molto rigido sul lato delle uscite ha avuto difficoltà ad adeguarsi. Da qui la crisi di liquidità di questi giorni».
Ma lo Statuto speciale offre molte difese. A cominciare dal fatto che lo Stato deve riversare il gettito delle grandi imposte raccolte in Sicilia: Iva, Irpef e Ires. I ritardi danno ragione a Lombardo: Roma è inadempiente. E allora?
«Su questo bisogna essere molto chiari. È vero, ci sono quindici miliardi di residui attivi. Si tratta di un credito che la Sicilia vanta a vario titolo. Tuttavia c'è un grande problema, ossia l'effettiva esigibilità del credito. Voglio dire: lo Stato non versa questi soldi perché inadempiente e inefficiente o perché, forse, la previsione di entrata era troppo "generosa"?. È un tema su cui occorre fare chiarezza e mi sembra che in questo senso fra le recentissime indicazioni del governo Monti è prevista un'operazione trasparenza».
Lombardo grida al complotto dei soliti poteri forti contro la Sicilia. Cambierà qualcosa con le dimissioni?
«Bisogna finirla con la storia dei poteri forti che sono stati a lungo la giustificazione contro le riforme. Anche uno spiffero di vento per far paventare l'esistenza di un burattinaio ignoto che lavorava ai danni della Sicilia. Oggi, purtroppo, a Palermo come a Roma esistono solo poteri deboli che combattono contro una crisi di vasta portata. Il governo Monti, in questa situazione si sta muovendo con grande senso di responsabilità imponendo regole di rigore anche alla Regione, dettando, sostanzialmente, il piano di spending rewiew per la prossima legislatura».
Insomma anche Palazzo dei Normanni avrà il suo fiscal compact.
«Direi di si. Per questo spero che dalle urne emerga un profondo rinnovamento. Una classe politica in grado di capire che lo sviluppo vero consiste nel superare il concetto assistenzialismo come chiave del consenso politico e della coesione sociale. Serve, invece, il recupero di un paradigma forte dell’autonomia speciale. Non certo quell'autonomia senza responsabilità che è stata la cifra di questi decenni. Fortunatamente abbiamo il governo nazionale che da ora in avanti guarderà con maggior attenzione a quanto accade in Sicilia regolando, all'occorrenza, il flusso dei finanziamenti.
Con le dimissioni di Lombardo c'è la seconda interruzione anticipata della legislatura in Sicilia. Nel 2008 l'uscita di Cuffaro era stata determinata dalla condanna. Però era stata preceduta dall'offensiva di Confindustria attraverso gli interventi di Montezemolo, allora presidente in carica e di Antonello Montante. Adesso la spinta definitiva è arrivata dalla sua intervista al "Corriere della Sera". Lombardo insiste sul complotto: che cosa risponde?
«Capisco la retorica politica, ma l'idea del complotto è una sonora balla. Gli interventi di nuovi imprenditori, a differenza di quanto crede Lombardo, non sono dettati da cattiva predisposizione d'animo verso il presidente. Parlare sempre di trame oscure serve unicamente a schivare il nocciolo dei problemi. Tanto più che quattro anni fa ero proprio agli esordi della vita associativa e quindi non avevo ruolo. Gli interventi di noi imprenditori non vogliono demolire. Casomai il contrario: sono dettati dal grande amore verso un'isola che ha grandi potenzialità di sviluppo. Pensiamo ai tanti che hanno ostacolato la nostra terra auspichiamo un cambiamento profondo».

Ilva, la città difende Riva
Taranto - L’ultimo paziente è il pensionato Ilva Orazio Mitrotti, ha l’asbestosi e il cancro alla prostata e tutti i sabati porta un fiore al suo medico, al cimitero di San Brunone. Il medico si chiamava Michele Joseph Giordano: amatissimo, fra Taranto e San Crispiano, perché lo potevi chiamare in piena notte e lui correva.
Un giorno di qualche mese fa stava andando a visitare un malato grave e come ricorda il fratello Walter, allargando le braccia di fronte al cinismo beffardo del destino, «al termine della visita è morto lui». Infarto. Tutti i sabati una piccola processione di antichi pazienti va a rendergli omaggio, nella cappella funeraria dei Giordano, «perché era l’uomo migliore del mondo». Il fratello Walter si prende cura dei fiori. Rose, garofani, tulipani. Con il grecale che spazza Taranto tutti i giorni, in questa stagione, non durerebbero dal mattino alla sera.
Meno male che c’è l’acqua: fino a cinque anni fa bisognava arrivare al cimitero con i bottiglioni, perché l’impianto idrico non funzionava più. Poi ci ha pensato l’Ilva. Con un intervento di 150 mila euro, sollecitato dal sindaco Ippazio Stefàno, le fontanelle del San Brunone si sono rimesse a zampillare. «Ero appena stato eletto e in cassa non c’era un euro», ricorda il sindaco: «Anzi, avevamo debiti per 800 milioni ed era stato decretato il dissesto finanziario del Comune. Mi sembrava giusto chiedere un segnale ai protagonisti economici della città. Eni e Cementir non hanno dato niente, Ilva si è offerta di occuparsi del cimitero».

L’operaio Cataldo Ranieri può dispensare sarcasmo a piene mani, «a Riva è sempre stato a cuore il nostro futuro». E però è vero che il San Brunone è sulla strada dell’acciaieria, e anche la tomba dei Giordano è rossa di fumi: «Dovrei farla sabbiare», sospira il signor Walter. Il fratello dell’oncologo scomparso ha lavorato all’Ilva fino a pochi anni fa, prima di fuggire a Mottola che è il paese della moglie. L’aiuto di Riva al comune di Taranto suscitò polemiche roventi: figurarsi se poi non chiede il conto, fu il sospetto meno offensivo.

Oggi Stefàno si batte perché non sia interrotta la produzione, lui che pure è oncologo pediatra e ha fatto la tesi di laurea su «L’aumento dei tumori polmonari e del mesotelioma in una città industriale». Rivela che all’Ilva ha battuto cassa anche dopo, per pretendere il pagamento di tasse arretrate: «Ci dovevano sette milioni di euro, a cominciare dall’Ici. Decisero di darceli. Ma hanno pagato anche l’Eni, la Cementir…». Non c’era altra strada per uscire dal dissesto finanziario. Il sindaco si indigna, tuttavia, all’insinuazione che l’acciaieria si sia comprata così la benevolenza delle istituzioni: «Polemiche stupide. Se a settembre risulteremo fuori dalla crisi sarà perché ci siamo dati da fare, mentre a Taranto in troppi sanno solo parlare».

Il tumore di Orazio Mitrotti è appena cominciato. Dice che ha difficoltà a respirare, racconta di aver lavorato una vita agli impianti marittimi dell’Ilva: «Scaricavo il minerale, ho respirato amianto e apirolio. L’apirolio è un olio altamente tossico, viene utilizzato per i separatori magnetici. Ho 64 anni. Meno male che nei vecchi i tumori vanno lenti». L’acciaieria è a pochi minuti dal cimitero, sulla strada per Bari. Ciminiere bianche e rosse, altiforni fumiganti, serbatoi rugginosi: qualche anno fa era così Cornigliano.

La palazzina della direzione ha un cancello che sembra la grata di una prigione, i motivi di sicurezza incupiscono un paesaggio già desolato. Il presidente, Bruno Ferrante, è tornato a Milano. L’ufficio comunicazione è impegnato. L’usciere indossa una livrea azzurra e sfoggia un sorriso colpevole, «dottore, mi spiace, dottore… Non c’è nessuno». Impossibile avere conferma, dunque, sul numero delle colate che sarebbero state effettuate malgrado lo sciopero: 22 anziché le solite 18, addirittura 31 considerato un secondo impianto.

E poi, è vero che l’azienda ha regolarmente retribuito la giornata di agitazione del 30 marzo, quando gli operai furono esortati a sfilare per le vie cittadine? E la busta paga del prossimo 12 agosto tratterrà oppure no le ore trascorse dalle maestranze a manifestare a favore dell’azienda? Gli operai non sindacalizzati, che sono un numero cospicuo, sostengono di essere stati manovrati.

Ranieri: «Anch’io ho due bambini e un mutuo di 25 mila euro da pagare. Ma qui c’è un muro di collusioni, istituzioni, sindacato, politici e imprenditore. Le denunce si sono susseguite per anni, non è che la magistratura si è svegliata all’improvviso. Sentito qualcuno commentare i dati della perizia, spaventosi? I bambini malati di tumore, i due morti al mese, l’avvelenamento dell’aria e dell’acqua, delle bestie, dei mitili? No, tutti ricordano solo che deve continuare la produzione: perché è un problema strategico, capite? Di politica industriale. Se poi mio figlio muore, pazienza».

Anche il presidente della Provincia, Giovanni Florido, è un ex dipendente Ilva. Sindacalista della Cisl, quando Riva ha rilevato l’acciaieria di Stato era il segretario dei metalmeccanici di Taranto. Da buon cattolico popolare, politicamente è approdato al Pd mentre Stefàno, eletto come indipendente, si è iscritto a Rifondazione. Florido sostiene che il top dell’inquinamento fu raggiunto quando l’impianto era pubblico, e che negli ultimi anni «Riva ha fatto moltissimo per combatterlo. Ora si tratta di consentire lo sviluppo di una nuova responsabilità sociale, da parte dell’azienda, che non si limiti alla sicurezza dei posti di lavoro ma riguardi anche l’ecologia, la cultura e il tempo libero. Un’accezione europea dell’ambientalismo, insomma».

Domattina la questione Ilva sarà dibattuta in consiglio comunale. Poi si dovrà aspettare l’esito del tribunale del riesame, che potrebbe decidere la revoca del sequestro prima che questo sia diventato operativo. L’appuntamento decisivo è fissato per venerdì. Walter Giordano, Orazio Mitrotti e le tre sorelle Spadaro (Antonia, Silvana e Pasqualina) sabato saranno comunque al cimitero di San Brunone. Pasqualina si è fatta fare la chiave della tomba, «per poter venire anche da sola», e ricorda come l’oncologo scomparso fosse «davvero il migliore di tutti. Ci credeva, sa?, che si può guarire dal cancro».

Crisi, contribuenti.it: italia, boom di capitali all'estero, 110 mld nel 2012.
ROMA - Fra i capitati ritirati dagli investitori internazionali e quelli portati all'estero dagli investitori italiani, hanno lasciato complessivamente il paese 110 miliardi di euro, circa il doppio della cifra registrata nel primo semestre del 2011. Un terzo del saldo negativo è costituito da danaro italiano. Non si registrava una simile fuga di capitali all'estero dal 2008, anno di inizio delle rilevazioni statistiche da parte di KRLS Network of Business Ethics per conto di Contribuenti.it Magazine dell'Associazione Contribuenti Italiani.
"Poveri possidenti e ricchi nullatenenti" intimoriti dalle burrasche che scuotono i mercati finanziari e dalle manovre finanziarie lacrime e sangue del Governo Monti, spostano sempre più stesso i loro capitali in paradisi fiscali per non pagare le tasse.
"La sfiducia riflessa nell'aumento record del! differenziale di rischio del debito italiano - afferma Vittorio Carlomagno presidente dell'Associazione Contribuenti Italiani - ha comportato nei primi 6 mesi del 2012 una fuga di capitali finanziari dall'economia senza precedenti".
"La Guardia di Finanza, oggi, non dispone di risorse sufficienti per combattere fino in fondo l'evasione fiscale. E' stata disarmata, lasciata priva di fondi con grave nocumento anche in danno dei diritti dei contribuenti - afferma Vittorio Carlomagno presidente di Contribuenti.it Associazione Contribuenti Italiani - Devono scendere subito in campo gli 007 per scoprire chi sono gli effettivi proprietari delle cassette di sicurezza o di conti correnti che puntualmente, ogni anno, vengono aperti nei principali paradisi fiscali ".
Contribuenti.it - Associazione Contribuenti Italiani
L'ufficio stampa Infopress 0642828753 – 3314630647

Grecia: Schaeuble, nessuna altra concessione puo' essere data
11:51 29 LUG 2012
(AGI) - Berlino, 29 lug. - Nessuna ulteriore concessione puo' essere fatta alla Grecia: lo sostiene in un'intervista a "Welt am Sonntag" il Ministro tedesco delle Finanze Wolfgang Schaeuble. "Non vedo altro spazio per ulteriori concessioni - ha detto il Ministro - il problema e' sorto non perche' il programma di aiuti ha fallito, ma piuttosto perche' la Grecia non lo ha rispettato a pieno". "Non e' una questione di generosita' - ha aggiunto - quanto piuttosto capire se c'e' un modo plausibile per il paese per affrontare tutto cio'". (AGI) .

La Svizzera resiste alla deindustrializzazione
Di Matt Allen, swissinfo.ch
Il costo crescente delle esportazioni e l’emergenza di nuovi mercati ha spinto alcune aziende elvetiche a esternalizzare la produzione. L’economia svizzera ha comunque saputo preservare il suo tessuto industriale orientandosi verso prodotti di nicchia e di alta qualità.
 Malgrado la Banca nazionale svizzera abbia fissato un tasso minimo di cambio del franco rispetto all’euro, negli ultimi tempi c’è stata un’ondata di delocalizzazioni verso paesi economicamente più attrattivi. Un’evoluzione che ha suscitato una certa irritazione nei media e in alcuni ambienti politici.
Nel mese di giugno, i proprietari tedeschi della società di biotecnologie Merck-Serono hanno confermato la loro decisione di chiudere la sede ginevrina. Verranno così soppressi 500 impieghi e altri 750 saranno delocalizzati all’estero.
La ditta Reichle & De-Massari, specializzata nelle fibre ottiche, ha inaugurato in aprile la sua nuova fabbrica in Bulgaria. Il trasferimento di parte della produzione nel paese est-europeo ha comportato la perdita di circa 50 posti di lavoro.
Anche le piccole si muovono
 L’esternalizzazione della produzione, ovvero l’associazione con altre aziende, ha permesso ad alcune piccole e medie imprese (PMI) che non dispongono del capitale per costruire i propri stabilimenti, di rimanere competitive e di svilupparsi. In Svizzera, le PMI impiegano i due terzi della forza lavoro.
In seguito all’apprezzamento del franco svizzero sull’euro e alle conseguenze negative sui margini di guadagno, un numero crescente di PMI si è interessato negli ultimi anni alle possibilità di outsourcing, rileva la società di consulenza Mattig Management Partners.
Numerose aziende vi hanno però rinunciato. La carenza di lavoratori qualificati mantiene in effetti relativamente alti i costi del lavoro.
«Le PMI si sorprendono quando i partner potenziali respingono le loro richieste di esternalizzazione siccome il volume di produzione è troppo piccolo o perché i costi locali sono più alti di quanto previsto», afferma a swissinfo.ch il direttore Andreas Mattig.
Tre anni fa, il gruppo industriale svizzero Georg Fischer ha annunciato un piano di riduzione della produzione nella sua unità svizzera GF AgieCharmilles (specializzata in macchine per l’elettroerosione), per concentrarsi sulla fabbricazione di macchine utensili in Cina.
Oggi, la multinazionale realizza l’80% dei suoi prodotti all’estero. Il fatto di avere la sede in Svizzera rimane, comunque, un elemento chiave del successo, puntualizza il direttore generale Yves Serra.
«Produciamo all’estero siccome i clienti ci vogliono vicini. In Svizzera realizziamo prodotti che richiedono un elevato livello di qualità. Qui abbiamo inoltre la possibilità di automatizzare la produzione», ci spiega Serra (vedi intervista allegata).
«Vogliamo mantenere la nostra immagine di qualità e gran parte di questa reputazione è legata appunto alla nostra presenza in Svizzera», sottolinea Serra.
Impieghi in gioco
 Le statistiche sembrano confermare l’erosione della base industriale della Svizzera. La parte del valore aggiunto del settore produttivo si è dimezzata, passando dal 40% nel 1960 al 20% attuale. Nel medesimo lasso di tempo, la quota degli impieghi è scesa dal 50 al 22%.
Questa tendenza a lungo termine segue quella osservata in altre economie avanzate. Il giornalista economico Beat Kappeler fa però notare che, con l’eccezione dell’industria tessile, la Svizzera ha evitato la sorte di Gran Bretagna e Stati Uniti, confrontati con la perdita di vasti settori produttivi.
«Il mondo anglosassone ha perso dei settori tradizionali quali il tessile, l’industria pesante e gli apparecchi elettrodomestici», osserva Kappeler, aggiungendo che la Svizzera ha invece saputo passare dalla produzione di massa a prodotti di nicchia e di qualità.
«Siamo diventati più forti nella meccanica di precisione, in campo orologiero, nei prodotti farmaceutici e di lusso. Nel mondo, la Svizzera è il nono paese produttore di biotecnologie. Ritengo che abbiamo rafforzato l’infrastruttura e l’importanza dell’industria nel paese».
Base industriale intatta
 La perdita di impieghi degli ultimi anni ha inquietato i sindacati. Circa 660'000 persone erano impiegate nell’industria manifatturiera tradizionale nel 2008, stando alle statistiche. Nonostante la recente ripresa, l’effettivo è sceso di circa 30'000 unità negli ultimi quattro anni.
La capacità delle aziende di specializzarsi in nicchie dall’alto valore aggiunto e la solidità dell’economia nazionale sono tuttavia state sufficienti per scacciare il rischio di delocalizzazione, ritiene José Corpataux, economista presso l’Unione sindacale svizzera.
«La Svizzera mantiene una buona base industriale, se paragonata ad altri paesi quali la Gran Bretagna, gli Stati Uniti o la Francia. La deindustrializzazione non è un problema come altrove».
Tuttavia, prosegue il sindacalista, se il franco si manterrà a livelli alti è possibile che le aziende guarderanno con maggiore interesse verso l’estero. «Ma con buone condizioni macro-economiche, le aziende possono ancora svilupparsi», sostiene Corpataux.
Le imprese svizzere sono riuscite a sfruttare la situazione economica favorevole dei quattro anni che hanno preceduto la crisi finanziaria del 2008. In quel periodo hanno creato migliaia di nuovi impieghi, senza per questo ridurre gli utili.
Secondo Daniel Kalt, capo economista presso la banca UBS, la delocalizzazione della produzione è semplicemente un segno dell’ultima fase del ciclo economico. E non un segno di deindustrializzazione.
«Anche se il trasferimento della produzione all’estero si accelera con il franco forte, le delocalizzazioni dimostrano che le aziende stanno lavorando sulla loro competitività e ottimizzando la loro struttura dei costi», scrive l’economista in una recente pubblicazione.
 Matt Allen, swissinfo.ch
Traduzione dall’inglese di Luigi Jorio

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