domenica 15 luglio 2012

(1)_XV.VII.MMXII/ Una delle forme occulte del genocidio/3===Mario Latronico, Potenza: Una nave che solca un mare tempestoso con un equipaggio sempre più sfiduciato. Volendo fare un accostamento figurativo è questo il quadro, non certo rassicurante, che emerge dai primi dati ufficiali appartenenti al «15° Censimento generale della popolazione e delle abitazioni in Basilicata relativo al 2011» diffusi ieri mattina in una conferenza stampa nel «Ridotto» del Teatro Stabile di Potenza per iniziativa del Prefetto Antonio Nunziante.

Censimento Istat. Basilicata si spopola
«Ecco il piano per ridurre il debito»
La cassa integrazione è aumentata del 3,16%
«Uscire dall'euro? Non serve a nulla»

Censimento Istat. Basilicata si spopola
Segno meno nel 2011
di MARIO LATRONICO
POTENZA - Una nave che solca un mare tempestoso con un equipaggio sempre più sfiduciato. Volendo fare un accostamento figurativo è questo il quadro, non certo rassicurante, che emerge dai primi dati ufficiali appartenenti al «15° Censimento generale della popolazione e delle abitazioni in Basilicata relativo al 2011» diffusi ieri mattina in una conferenza stampa nel «Ridotto» del Teatro Stabile di Potenza per iniziativa del Prefetto Antonio Nunziante. A illustrare i dati al Prefetto, ai diversi sindaci lucani intervenuti, tra cui il presidente dell’Anci, nonché sindaco di Potenza Vito Santarsiero, i responsabili dell’Ufficio regionale dell’Istat di Basilicata Antonella Bianchino e Salvatore Cariello.
Si tratta ovviamente di rilevazione e raccolta dati ancora provvisori (bisogna attendere un’indagine di controllo e di valutazione del processo di rilevazione entro settembre 2012) ma il quadro della Basilicata non lascia, purtroppo, molti dubbi. La crisi economica e finanziaria, il tasso elevato di disoccupazione giovanile (circa il 42 per cento) e l’indice di dinamicità dell’economia nostrana in sensibile ribasso (22,44 per cento contro il 46 per cento nazionale) hanno accelerato il processo di decremento demografico, in particolare nella provincia di Potenza.
Un dato su tutti: i residenti in Basilicata sono 579.251, di cui 283.471 di sesso maschile contro i 295.780 di sesso femminile. Il calo demografico rispetto all’ultimo censimento è stato netto in provincia di Potenza dove si registra un depauperamento di popolazione residente pari al -3,84 per cento, in controtendenza con la media nazionale che segna un +4,52. Il calo è stato meno vistoso nei territori della provincia di Matera che registrano un segno negativo di -1,66 per cento.
Nello specifico ben il 39 per cento dei Comuni lucani ha segnato un decremento di popolazione, anche se segnali che inducono un relativo ottimismo si sono intravisti in una ristretta area che ha visto, al contrario, crescere i propri residenti. Ci si riferisce nello specifico a comuni come Melfi, Atella, Tito, Venosa, il capoluogo Matera, Marsicovetere, Nova Siri, Policoro e Scanzano Ionico che hanno segnato un apprezzabile aumento di popolazione.
Per quanto concerne la famiglie, il dato può essere visto sotto una duplice visuale. È vero che la cosiddetta «emorragia» delle famiglie ha tenuto abbastanza bene se si pensa che dal 1881 il numero dei componenti si è ridotto del 37,5 per cento, ma è altrettanto vero che rispetto all’ultimo censimento del 2001 il calo c’è stato anche nell’ambito familiare con una consistenza media in Basilicata delle famiglie pari appena a 2,5 componenti, con un inequivocabile -11 per cento rispetto al 2001.
Alcuni dati meritano poi la loro citazione per costituire gli estremi di questo censimento. Il comune che ha conseguito la più alta densità di popolazione è Potenza con 385 abitanti per chilometro quadrato, quello invece che ha raggiunto la più bassa densità è San Paolo Albanese in coabitazione con Craco con appena 10 abitanti per chilometro quadrato. A San Paolo Albanese spetta il record di centro meno popoloso della Basilicata: solo 313 abitanti. Infine il comune che ha registrato il maggior calo di popolazione negli ultimi 10 anni è Calvera con un significativo -26,03 per cento.

«Ecco il piano per ridurre il debito»
Grilli: «Vendite da 15-20 miliardi l'anno. C'è chi scommetteva sul fallimento del Paese, adesso i tassi migliorano»
(f. de b.) Tutti si chiedono chi prenderà il posto di Monti, intanto un primo successore del premier, come ministro dell'Economia, c'è già, da giovedì scorso, e ha il nome di Vittorio Grilli, 55 anni, economista, milanese, bocconiano - qualcuno dirà, dov'è la novità? -, a lungo direttore generale del Tesoro con Tremonti. Una personalità quest'ultima agli antipodi rispetto all'attuale premier. Vero? Lo chiediamo al neoministro. «Il rapporto personale con Giulio non è cambiato, quello gerarchico era molto diverso, prima io ero parte dell'amministrazione dello Stato, oggi sono membro di un governo che fa della collegialità un punto di forza, lo dimostra se non altro la durata dei consigli dei ministri, ma va subito detta una cosa fondamentale». Quale? «La legittimazione di questo governo è nella persona del presidente del Consiglio; la mia, di conseguenza, ne è una derivata». Sì, d'accordo, ma il comitato di coordinamento costituito a Palazzo Chigi con Passera e Visco non lo vede come un limite ai suoi poteri? «Assolutamente no». E la presenza del Governatore della Banca d'Italia in un organismo governativo non rappresenta un'anomalia? «Non credo, non riduce minimamente il suo livello di autonomia». Allora diciamo che con un governo politico la cosa non sarebbe avvenuta. «Forse sì».

All'indomani dell'ennesima bocciatura di Moody's, che ha ridotto di due gradini la valutazione del debito italiano (da A3 a Baa2), la delusione per il voto ritenuto ingiusto non scalfisce in Grilli la soddisfazione per l'andamento delle aste dei titoli pubblici con rendimenti in calo. «Una grande differenza rispetto a poco meno di un anno fa». Io non mi farei, ministro, grandi illusioni, lo spread è sceso di poco dai massimi di novembre (575). «Sì, ma la curva dei rendimenti dei nostri titoli è completamente diversa. Prima, quelli a breve erano superiori a quelli a lungo termine, segno che per l'Italia l'accesso ai mercati si stava chiudendo. Oggi accade il contrario. I tassi a breve sono più bassi di quelli a lunga. Ancora troppo elevati, però». Così alti da far salire il servizio del nostro debito pubblico al 5,8 per cento del Pil (Prodotto interno lordo), qualcosa come 85 miliardi di interessi all'anno. Hai voglia a mettere tasse e tagliare le spese. «I mercati non riconoscono ancora la bontà degli sforzi compiuti dal nostro Paese per mettere in ordine i conti, il pareggio di bilancio è a portata di mano, le riforme strutturali sono avviate. Nessun altro Paese ha fatto tanto, in così poco tempo». Lo spieghi alle agenzie di rating , ci ha provato? «Certo, anche se i rapporti sono diventati difficili, se non impossibili. Prima il confronto era più facile». Che cosa è accaduto nella vostra relazione con le agenzie di rating? «Prima della crisi dei subprime (i prestiti immobiliari senza garanzie, ndr ) veniva data la tripla A, il voto massimo, anche a degli autentici pericoli pubblici, come gli special purpose vehicle , società fuori dai bilanci principali. Dopo lo scoppio della bolla, le procedure si sono ingessate. Le agenzie di rating , che sono aziende private in potenziale conflitto d'interesse con i propri clienti, esponenti di una cultura solo americana, si sono mosse sempre in ritardo, finendo per ampliare gli effetti dei fenomeni, anziché anticiparli. E il dialogo si è interrotto. Oggi ci avvertono quando tutto è deciso, non accettano spiegazioni».
E i governi appaiono impotenti, devono sempre subire? «In un'economia di mercato è assolutamente normale che vi sia una valutazione dei crediti privati, un voto di affidabilità su un debitore, può essere discutibile che ciò possa essere richiesto anche per uno Stato. L'aspetto grave, che una democrazia non dovrebbe sottovalutare, è però un altro. Un giudizio privato, pur legittimo, rientra poi automaticamente nelle procedure, di natura pubblica, di un ente regolatore che difende gli interessi di tutti. Il vero nodo è questo».

A cinque anni dallo scoppio della bolla dei subprime , qual è la sua personale valutazione, qual è stato il più grande errore commesso? «La velocità della globalizzazione ci ha colto di sorpresa e nessuno di noi pensava che l'attività di supervisione dei governi fosse così lenta e miope, a volte persino inconsapevolmente complice delle patologie dei mercati». Lei pensa che la scelta della banca universale, senza la separazione dell'attività di investimento da quella commerciale, sia la causa principale? «Il modello andrebbe cambiato. Dovremmo avere l'onestà di dirlo. Guardi, una volta le banche d'affari erano boutique e tutti conoscevano tutti. Oggi sono istituzioni estremamente complesse con migliaia di persone dove la cultura super tecnocratica dei prodotti finanziari domina su tutti».
Sono tornati gli investitori esteri, nonostante tutto, sui nostri titoli? «È presto per dirlo». Quant'è attualmente la quota del nostro debito pubblico in mano straniera? «Grosso modo il 40 per cento». Teme l'agosto sui mercati? «L'agosto è sempre un mese difficile perché i mercati sono più sottili e volatili». Lo scudo anti-spread riuscirà nell'intento di convincere gli investitori ad accettare un premio al rischio più basso, quello fisiologico secondo il Governatore della Banca d'Italia dovrebbe essere intorno a quota 200? «Condivido l'analisi di Visco, dopo il summit di Bruxelles e l'ultimo Eurogruppo è in corso un intenso lavoro tecnico per dare corpo definitivo a questo strumento, ma molto dipenderà dalla volontà politica di proseguire, a tappe forzate, lungo una maggiore unione politica e fiscale dando ai fondi Efsf ( European Financial Stability Facility ) e Esm ( European Stability Mechanism ) compiti precisi e dotazioni adeguate».

Diciamo la verità, lo scudo non piace a tedeschi e olandesi e forse resterà sulla carta. «Io non credo. Sa perché è necessario a tutta l'Unione? Perché la moneta unica ha spento i tradizionali meccanismi macroeconomici di riequilibrio delle economie nazionali. Prima, una recessione spingeva la banca centrale a ridurre i tassi e a favorire il riequilibrio, consentendo a famiglie e imprese di indebitarsi a costi più bassi. Oggi questo non funziona. E quando la Bce taglia il costo del denaro, per noi non cambia nulla. Colpa dello spread troppo alto. Una volta, quando i flussi di capitale in uscita da un Paese erano eccessivi, i tassi di cambio si muovevano di conseguenza. La Svizzera ha fatto recentemente così, impedendo tra l'altro di apprezzare troppo il franco. La Germania, se avesse ancora il marco, lo avrebbe visto schizzare verso l'alto e si sarebbe preoccupata per le sue esportazioni. Come Berna. Oggi, con lo spread elevato, Berlino riceve addirittura un sussidio pagando tassi negativi. Ecco alcune ragioni che rendono lo scudo anti-spread importante per tutti». E l'ostacolo maggiore da superare qual è? «Dimostrare a tutti i partner che non vi è alcuna intenzione di monetizzare i disavanzi di bilancio. L'Italia ha quasi annullato il proprio deficit, mettendo poi il pareggio di bilancio in Costituzione. Si tratta di stabilizzare i mercati e dare più assicurazioni sulla liquidità e la stabilità dell'Eurozona nel suo complesso. Oggi sta avvenendo un sostanziale ritorno di sistemi finanziari operanti prevalentemente all'interno dei propri confini nazionali con danni per tutti». Sono molti i capitali in fuga dall'Italia e anche dall'euro? «Non mi risultano fenomeni apprezzabili». Io non sarei così sicuro. State trattando con la Svizzera per raggiungere un accordo sulla tassazione dei capitali italiani? «Il negoziato è avviato, esaminiamo le intese già raggiunte da Berna con tedeschi e inglesi. Sono ottimista».

È allo studio una terapia antidebito? «Premetto subito - è il ragionamento di Grilli - che sarei felice di dare un colpo secco al nostro debito pubblico, oggi intorno al 123 per cento, e portarlo sotto quota 100, sarebbe bellissimo. Purtroppo, diciamo la verità, non ci sono più gli asset vendibili dello Stato e degli enti pubblici, come vent'anni fa. Vi è un patrimonio immobiliare di difficile valorizzazione, come insegnano le esperienze non felici di Scip 1 e Scip 2 (società create per vendere o cartolarizzare le proprietà degli enti, ndr ), molte attività sparse a livello locale». Ma sulle privatizzazioni potreste avere più coraggio, no? «Giusto, alcuni passi significativi sono già stati compiuti, per esempio costituendo alcuni veicoli, come quello del Demanio o le due società di gestione del risparmio (Sgr) per gli immobili e le utilities locali della Cassa depositi e prestiti (Cdp), molto sarà fatto con il recente decreto sulla spending review e riducendo drasticamente le società municipali in house , ovvero con un solo cliente, l'ente fondatore, in modo da favorire l'apertura dei mercati ai privati».

Ma, insomma, un possibile percorso di rientro del debito c'è o no? «Io non credo alle virtù di prestiti forzosi, la mia cultura liberale fa sì che certe soluzioni non mi convincano». E allora? «Non potremo vivere all'infinito con un fardello così pesante sulla testa degli italiani? «La strada praticabile è quella di garantire, con un programma pluriennale, vendite di beni pubblici per 15-20 miliardi l'anno, pari all'1 per cento del Pil». Un po' poco, ministro. «No, tutt'altro, se lei pensa che già abbiamo un avanzo primario, cioè prima del pagamento degli interessi sul debito, del 5 per cento e calcoli una crescita nominale del 3 per cento, cioè tolta l'inflazione all'1, vorrebbe dire ridurlo del 20 per cento in 5 anni».

Le tasse, specie sul lavoro, sono troppo elevate, ministro. I malumori sono giustificati. «Intanto le abbiamo ridotte». Scusi? «Sì, quello che si dimentica è che l'aumento dell'Iva al 23 per cento era già previsto per legge». È stato solo rinviato al luglio del 2013. «E cercheremo di creare le condizioni perché non aumenti del tutto. La spending review del ministro Giarda consente risparmi al di là delle cifre di cui si parla in questi giorni. Si possono ridurre ancora le agevolazioni fiscali e assistenziali, intervenire sui trasferimenti alle imprese, le ipotesi sono tante». E le imposte sul lavoro scenderanno mai in questo Paese? «Io me lo auguro e la lotta all'evasione fiscale dovrebbe creare le condizioni per renderlo possibile». Quanto pensate di incassare quest'anno dalla lotta all'evasione fiscale? «Più dei dieci miliardi previsti». Perché è così ottimista? «Perché l'Agenzia delle Entrate ha a disposizione nuovi strumenti. Ha, per esempio, una migliore accessibilità agli istituti di credito. Sono stati fotografati due milioni di immobili fantasma non accatastati. L'uso del contante è stato limitato». Ma la crisi che colpisce duramente famiglie e imprese farà inevitabilmente calare il gettito. Qual è la vostra previsione sull'andamento dell'economia, in vista della nota di aggiornamento del Def, il documento di economia e finanza, previsto a settembre? Quanto morde la recessione? Visco prevede un calo del 2 per cento, il Fondo monetario è più pessimista. «Io direi un po' meno del 2».
Il ministero dell'Economia è anche azionista di peso di molte società. Una di queste, la Rai, ha da qualche giorno un nuovo vertice con la nomina di Anna Maria Tarantola. Ma la Rai verrà mai privatizzata? «L'obiettivo principale oggi è la qualità dei programmi, la trasparenza e l'efficienza della gestione, poi sarà forse possibile tracciare una linea di confine tra ciò che è servizio pubblico e ciò che è pura attività commerciale». Finmeccanica tra scandali e vertici in discussione. «Osserviamo da vicino, anche qui la trasparenza è indispensabile». La Cassa depositi e prestiti, secondo alcuni critici, si avvia ad essere una sorta di nuovo Iri, l'ente pubblico in vita dal '33 al 2002? «Lo escludo, la Cdp svolge, in un'economia profondamente cambiata, un ruolo insostituibile di motore della crescita, pubblico e privato, garantisce lo sviluppo e la tutela nazionale delle grandi reti, con le sue partecipazioni in Terna, Snam, Metroweb, ma anche in F2I, nel Fondo strategico e in quello per le piccole e medie imprese».

Il governo, di cui Grilli è ministro dell'Economia, e successore oltre che di Monti di Quintino Sella, durerà fino alla primavera del 2013. Ormai, le sorprese sembrano escluse. E dopo che farà, non Monti, lei? «Guardi, io non ci penso, la politica non fa per me. Sono orgoglioso di fare qualcosa per il mio Paese». Pagato meno di prima? «Sì, guadagno il 40 per cento rispetto a quand'ero direttore generale, ma non mi lamento, ci mancherebbe altro».

La cassa integrazione è aumentata del 3,16%
CRISI. Secondo uno studio della Cgil il taglio al reddito dei cassintegrati è di oltre 2 miliardi
 Nei primi sei mesi di quest'anno le ore sono state 523.761.036 con 500mila lavoratori coinvolti Impennata dell'ordinaria: +41%
15/07/2012 e-mail
ROMA Al giro di boa del 2012 la richiesta di ore di cassa integrazione supera il mezzo miliardo, in deciso aumento sullo stesso periodo dello scorso anno, collocando in cassa a zero ore oltre 500 mila lavoratori. Il taglio del reddito è di oltre 2 miliardi di euro, quasi 4.000 euro per ogni lavoratore. È quanto emerge dalle elaborazioni delle rilevazioni Inps da parte dell'Osservatorio Cig del dipartimento settori produttivi della Cgil nazionale nel rapporto di giugno. Da inizio anno a giugno, il totale di ore di cassa integrazione è stato pari a 523.761.036, con un incremento sui primi sei mesi del 2011 pari a +3,16%, e con un impennata della cassa integrazione ordinaria (+41%) «segnale inequivocabile di come il sistema produttivo non si attenda a breve una ripresa produttiva», dice il segretario confederale della Cgil, Elena Lattuada. «Ciò che desta estrema preoccupazione è l'impennata nella richiesta di ore di cassa integrazione ordinaria: segno evidente di come il sistema produttivo non si attenda nei prossimi mesi una ripresa produttiva». Giugno è il terzo mese con il ricorso più alto alla cassa tra gli ultimi dodici. La cassa integrazione ordinaria (cigo) totalizza un monte ore pari a 30.947.664 per un -10,63% sul mese precedente. Da inizio anno la cigo registra invece 166.635.792 di ore per un deciso +40,77% sul primo semestre del 2011. La richiesta di ore per la cassa integrazione straordinaria (cigs), sempre a giugno, è stata di 37.307.261, in aumento sul mese precedente del +1,04%, mentre il dato dei primi sei mesi del 2012, pari a 185.061.859 ore autorizzate, segna un -16,38% sullo stesso periodo dello scorso anno. Infine la cassa integrazione in deroga (cigd) registra a giugno una flessione sul mese precedente del -20,11% per un totale pari a 27.134.241. Da inizio anno sono state richieste 172.063.385 ore di cigd: +2,38% sul periodo gennaio-giugno del 2011. Prosegue a giugno la riduzione del numero di aziende che fanno ricorso ai decreti di cigs. Da gennaio sono state 2.886 per un -24,57% sullo stesso periodo del 2011 e riguardano 5.075 unità aziendali (-11,18%). Diminuisce il ricorso per crisi aziendale (1.595 decreti per un -32,21%) ma rappresenta il 55,27% del totale dei decreti, così come frena il ricorso al fallimento (165 domande per un -31,54%). Aumentano le domande di ristrutturazione aziendale (135 per un +14,53%), pari al 4,64% del totale, mentre le domande di riorganizzazione aziendale sono 146, il 5,06% del totale.

«Uscire dall'euro? Non serve a nulla»
ANALISI. Confindustria mette in guardia dalla tentazione di abbandonare la moneta unica: «È un attrezzo arrugginito»
 «Nell'economia attuale la svalutazione del tasso di cambio non porta al rilancio di export e Pil»
15/07/2012
ROMA Un'uscita dell'Italia dall'euro, non farebbe ripartire l'economia del Paese perchè l'equazione tra svalutazione del tasso di cambio e rilancio di export e Pil è sbagliata e soprattutto non funziona. È la tesi sostenuta in un'analisi del Centro Studi di Confindustria che liquida la svalutazione della moneta come «un attrezzo arrugginito che non funziona più bene come un tempo, sempre che produca ancora qualche vantaggio». Ad averlo depotenziato - si spiega nello studio di Confindustria - sono stati quattro fattori: la diffusione delle supply chain internazionali; i sistemi bancari in crisi che rendono difficile ottenere credito; la lenta risposta dell'export in una concorrenza che i Paesi avanzati possono giocare più sulla qualità che sul prezzo; e la limitazione del guadagno di competitività dovuta alla contemporanea svalutazione effettuata da altri Paesi che si trovano nelle stesse condizioni. Infine, viene sottolineato che per esportare di più occorre poter contare su un'ampia base industriale che produca beni commerciabili internazionalmente. Lo studio di Confindustria non manca, poi, di rimarcare come una uscita dall'euro «per ripristinare il vecchio arnese della svalutazione sia la grande tentazione di alcuni esponenti del mondo politico e accademico dei Paesi che in Eurolandia sono in maggiore affanno». Ma è anche il ragionamento fatto da «qualche rappresentante dei Paesi del Nord Europa, per indorare la pillola amara dell'ipotetico restringimento del club della moneta unica a un piccolo nucleo di economie ritenute forti e più omogenee».
FILIERE GLOBALI. L'analisi del Centro Studi di Confindustria si sofferma in particolare sull'inefficacia della via della svalutazione dopo che si sono affermate le «filiere globali». Un meccanismo che riduce i guadagni di competitività legati al deprezzamento della moneta poichè i prodotti non vengono più realizzati interamente in uno stesso Paese. Tradizionalmente le economie avanzate, come ad esempio l'Italia, importavano materie prime ed esportavano beni semi-lavorati o finiti, realizzando molto valore aggiunto attraverso il deprezzamento del tasso di cambio. Ma da tempo ormai si importano gli stessi semilavorati necessari alla realizzazione dei prodotti e si è passati, osserva il rapporto di Confindustria, «da un mondo di scambi per lo più di beni finiti a un mondo di scambi di beni intermedi. Una transizione che, a meno di un ritorno a un disastroso protezionismo, non è passeggera tenuto conto che le supply chain globali sono un fenomeno in larga parte irreversibile».

Nessun commento: