Fondo sociale europeo, Basilicata promossa. Ma
i risultati dove sono?
Provincia di Salerno: turismo ko. Gli arrivi
sono calati del 26,6%
In Calabria chiudono più di 7 negozi al giorno
Sotto i mari di Puglia tanto gas come in Texas
di NICOLÒ CARNIMEO
Nell’Adriatico meridionale e nello Jonio ci sono
enormi giacimenti di gas, ormai è certo, recenti prospezioni lo hanno
dimostrato con chiara evidenza, si tratta delle riserve europee attualmente più
ricche e meno sfruttate. Per fare un esempio facile, la Puglia è ricca di
idrocarburi quanto il Texas, solo che queste risorse si trovano principalmente
in mare, e devono essere estratte o meglio “coltivate”, così come si dice in
gergo tecnico, da grandi piattaforme off shore.
Non è questa
la sede prendere alcuna posizione, pro o contro, o parlare dell’ opportunità o
meno di queste iniziative che hanno un impatto molto forte sull’opinione
pubblica, ma semplicemente cercare di delineare lo scenario reale, e capire
qual’è lo stato dell’arte nella coltivazione di idrocarburi nei mari della
Puglia. E, soprattutto, se e come il gas pugliese possa divenire o meno una
opportunità. Dalla nostra indagine emerge che oggi il nodo principale (che si
dovrebbe affrontare con urgenza) è piuttosto legato alle royalties, ovvero alle
possibili compensazioni economiche sul nostro territorio, nel caso ormai assai
probabile che si dia inizio alle attività estrattive. Più che puntare l’indice
solo sulle compagnie petrolifere, bisogna comprendere che l’attività
decisionale su quanto sta accadendo si svolge altrove e parte dall’Europa. La
scelta di sfruttare le riserve di gas nel Mediterraneo, così come si fa già da
molto tempo nel mar del Nord è, infatti, prima di tutto europea e poi
nazionale. Certo, Bruxelles punta sulle rinnovabili, da quanta promozione se ne
fa sembra che l’energia da produrre da ora in poi debba essere - o sarà - tutta
verde, ma al palazzo di vetro c’è uguale consapevolezza che le sole rinnovabili
non possono bastare al nostro fabbisogno attuale e che l’Europa debba comunque
tenere in buon conto un pezzo importante e monolitico della sua industria, che
piaccia o no le imprese petrolifere europee rappresentano il 52% della
produzione mondiale di idrocarburi. Quanto al fabbisogno nazionale, l’Italia
importa combustibili fossili in tale quantità che la bilancia energetica
nazionale è in negativo per 62 miliardi di euro sino al 2012, ed è una voce che
pesa in modo determinante non solo sull’economia nazionale, ma anche sul costo
dell’energia per le imprese e le famiglie. Il gas lo importiamo quasi
totalmente.
E costa
molto caro. I magnati russi della Gazprom non sono ricchi per caso. Per questo
l’Europa già da tempo ha deciso che oltre alle riserve di idrocarburi del mar
del Nord bisogna incrementare la produzione di quelle mediterranee dove sono
già attive centinaia di piattaforme off shore. Come si diceva, recenti
prospezioni hanno dimostrato che i giacimenti di gas più ricchi di trovano
proprio al largo dell’Adriatico e dello Jonio meridionale dove esistono ampie
aree che sono state già date in concessione. Non è un fenomeno nuovo perché,
seppure la generalità ne abbia poca consapevolezza, gli idrocarburi si
coltivano già da molto tempo, specialmente nell’Adriatico del nord e centrale.
Per l’off shore italiano dove sono state localizzate apposite zone per la
prospezione, la ricerca e l’estrazione, al 31 dicembre 2012 erano presenti 722
pozzi attivi di cui 396 in produzione e 335 a gas e 61 ad olio e 312
potenzialmente produttivi ma non eroganti. Le concessioni di coltivazione
totali sono in tutto 66. Sulla base di queste considerazioni è stato redatto il
documento di Strategia Energetica Nazionale (SEN) sino al 2020 nel quale si
stima di raddoppiare l'attuale produzione annuale italiana, sia di gas che di
olio, portando dal 7% al 14% il contributo al fabbisogno energetico totale.
Come si legge nel piano “si vogliono così mobilitare investimenti per circa 15
miliardi di euro con l’obiettivo di ottenere un risparmio sulla fattura
energetica per circa 5 miliardi a beneficio di tutti i cittadini”. E per far
questo le concessioni in Adriatico e Jonio sono strategiche, tanto che è stato
realizzato un imponente impianto normativo per poter adeguatamente realizzare
l’iniziativa, individuando le zone ed eliminando i vincoli che ne impedivano
l’attuazione. Con i decreti detti “sviluppo” e “crescita” di Monti sono stati
sbloccati ben 3,5 miliardi di investimenti per le prospezioni e ricerca di
idrocarburi, ripetiamo per gran parte gas e una limitata quantità di olio nei
nostri mari. ...
Fondo sociale europeo, Basilicata promossa. Ma
i risultati dove sono?
La Commissione per
la certificazione della spesa premia la Regione e sblocca altri 30 milioni. Gli
indicatori economici dicono però che alla quantità della spesa non
corrispondono obiettivi altrettanto soddisfacenti.
di MARIATERESA
LABANCA
POTENZA - La
Basilicata ha speso bene, o più esattamente, meglio delle altre regioni. Tanto
che la Commissione europea ha sbloccato altri 30 milioni, nell'ambito della
programmazione del Fondo sociale 2007-2013, che saranno assegnati alla Regione
già nei prossimi giorni. E questo in virtù del "buon lavoro" svolto
fino a questo momento: la spesa certificata della Basilicata si attesta al 59
per cento, con risultato nettamente migliore rispetto a quello della media nazionale.
Per fronteggiare la pesante fase recessiva, al 31 dicembre 2012, sono stati
impegnati 231 milioni di euro, pari al 71 per cento della programmazione
totale, così com'è stato ribadito ieri a Matera nel corso della riunione del
Comitato di sorveglianza del Po Fse
Basilicata.
Ma i risultati dove
sono? Stando ai recenti dati relativi ai principali parametri economici,
diffusi da Unioncamere e da Bankitalia, nonostante l'alta capacità di spesa i
risultati non sono stati raggiunti. E' come alla "Prova del cuoco":
spendi tutto il budget a disposizione
per comprare i migliori ingredienti ma alla fine la ricetta non funziona
e il piatto non è buono.
Tra gli assi
finanziati attraverso il fondo sociale europeo, la Basilicata ha impegnato l'84
per cento delle risorse a disposizione
per migliorare l'accessibilità al lavoro. Solo che anche per il 2012
l'Istat fa registrare un calo dell'occupazione pari all'1,5 per cento. Colpa
della crisi e della contrazione dell'attività economica che investe quasi tutto
il paese. Ma l'occupazione in Basilicata cala più che nel resto d'Italia e
anche più della media del Sud, ovvero di quelle regioni meno bravo sul fronte
della spesa delle risorse europee.
Se si considera
l'arco temporale 2007-2012 la contrazione dell'occupazione in Basilicata si
attesta in linea con il dato del Sud. Me le ore lavorate in regione sono
diminuite più che altrove. Quindi cala la quantità ma anche la qualità del
lavoro: la percentuale di lavoro a tempo determinato è più alta, e soprattutto
cresce il ricorso alla cassa integrazione.
C'è da dire che il
numero dei disoccupati cresce, ma meno che al Sud e nel resto d'Italia. Ma a
questi vanno aggiunti i 50.000 inattivi, disponibili a lavorare, ma che il
posto non l'hanno proprio cercato perché pensavano di non trovarlo. Dunque,
l'elevata capacità di spesa della regione non corrisponde a obiettivi
raggiunti. E' questo il più grande
paradosso dello sviluppo lucano. Ed è il limite evidenziato anche dall'ex
ministro Barca nella visita di qualche mese fa in Basilicata.
Quello con in cui
sarebbe bene fare i conti in vista della nuova programmazione 2014-2020.
Più spesa che
risultati.
Una contraddizione
che sembra riproporsi anche in un altro importante settore, come emerso dal
rapporto di Bankitalia: la Basilicata si contraddistingue per la più bassa
capacità innovativa più bassa sia rispetto alle media delle regioni meridionali
sia a quella del resto del Paese. Eppure il pubblico spende in ricerca e
innovazione più di quanto accade altrove. In parte il dato è legato alla
mancanza di realtà produttive di grandi dimensioni.
Le imprese lucane -
piccole e medie - investono ancora troppo poco in innovazione, ovvero
quell'elemento determinante per venire fuori anche da periodi duri come quello
degli ultimi anni. Basti pensare che dal 2000 al 2010 la quantità di risorse
umane impiegate in questo tipo di attività è rimasta sostanzialmente invariata:
rispetto al totale degli addetti quelli specializzati in ricerca e sviluppo
rappresentano solo lo 0,8 per cento; esattamente la metà sono i ricercatori.
Un dato strettamente
correlato a quello relativo all'impiego di profili professionali qualificati.
Il tasso di laureati lucani occupati è molto basso rispetto alla media
nazionale. Mentre continua a crescere l'emigrazione verso aree più ricche del
paese.
Le immatricolazione
nell'Ateneo lucano che la Regione Basilicata sostiene con dieci milioni
all'anno si è ridotto del 2,7 per cento. Chi va fuori per studiare, dopo la
laurea, nella maggior parte dei casi non torna più in Basilicata perché quel
poco lavoro che c'è non è adeguato alla formazione professionale maturata.
Quella scarsa offerta di lavoro che c'è è per mansioni meno qualificate.
Dato
complessivamente in linea con l'esiguità degli investimenti nel settore ricerca
e innovazione che per l'anno 2009, a esempio, ha rappresentato solo lo 0,7 per
cento del Pil. I risultati sono questi: la diffusione delle imprese innovative
in Basilicata è ampiamente inferiore alla media delle regioni meridionali e al
resto del Paese. Nonostante, a esempio, la Regione si sia dotata di una
struttura ad hoc come Basilicata Innovazione che si occupa di trasferimento tecnologico e valorizzazione
dei risultati della ricerca.
Per quanto riguarda
invece i fondi europei destinati al settore il più grande importo finanziato ha
riguardato il Campus per l'innovazione e il manufactoring della Fiat di Melfi.
Ma sappiamo bene che la sua realizzazione ha subito ritardi notevoli. A
distanza di quattro anni dall'annuncio, a dicembre del 2012, la percentuale di
avanzamento dei pagamenti del progetto era circa un quinto dell'importo
stanziato.
Provincia di Salerno: turismo ko. Gli arrivi
sono calati del 26,6%
I dati dell'Istituto
Tagliacarne per la Camera di Commercio
SALERNO - Se il
trend dell’economia nazionale è negativo, in provincia di Salerno la crisi è
ancora più profonda. I livelli occupazionali calano del 2,3%, i consumi
scendono dell’1,1%, il saldo tra imprese iscritte e quelle cessate per la prima
volta è negativo (-0,5%), il fatturato delle imprese è arrivato a toccare la
quota negativa del 41,5% e i depositi bancari salgono del 2,9% ma, tuttavia,
resta una percentuale troppo bassa rispetto a quella nazionale che si attesta
sul 7%. La recessione manifesta i suoi effetti anche sul comparto turistico,
tanto che i visitatori del 2012 sono diminuiti: gli arrivi calano del 26,6% e
le presenze durante tutti i mesi dell’anno scendono del 25,3%. I dati negativi
del turismo, elaborati dall’istituto Tagliacarne per la Camera di commercio di
Salerno, dipendono anche dall’ennesimo stop che ha subito l’aeroporto di
Salerno gestito anche dall’ente camerale oltre che da vari comuni consorziati.
La stagione estiva dello scalo di Pontecagnano è persa, così come era accaduto
anche in inverno. Le uniche entrate finanziarie della società aeroportuale
provengono dai charter privati. Il prossimo 26 giugno, infatti, partiranno i
voli per Bratislava ad opera di un charter privato (Danube wings). Non si
tratta quindi di collegamenti di linea, dal momento che lo scalo è ancora privo
di una compagnia aerea interessata ad attivarsi su Salerno. Complice, dice il
presidente Guido Arzano, lo stallo giudiziario che ha messo la società contro
la Gesac, da sempre intenzionata a gestire l’intero sistema aeroportuale
campano. «Lo stallo giudiziario non ci permette di guardare ad altre soluzioni
a breve termine - ammette l’ex presidente della Confcommercio - ma ora grazie
all’interessamento del neo assessore regionale al Turismo, Pasquale Sommese, si
riaprono speranze per lo scalo». In ogni caso c’è sempre da aspettare la
decisione del Consiglio di Stato sulla questione Gesac. Prima di allora nessuna
gara per l’apertura ai privati potrà essere espletata. Allora non resta che
guardare alla situazione portuale ma anche in questo caso c’è da mettersi in
attesa che venga completata la stazione marittima. «Mi auguro che l’anno
prossimo possa attivarsi», conclude Arzano. Intanto il viceministro De Luca ha
annunciato, per la prossima settimana, un incontro a Roma sul sistema
aeroportuale della Campania.
Angela Cappetta
In Calabria chiudono più di 7 negozi al giorno
La crisi colpisce
devastando il sistema produttivo
Più di 7 negozi al
giorno hanno chiuso nel corso dei primi quattro mesi dell'anno, 892 cessazioni
di attività contro le sole 411 nuove attivazioni. Questo il bilancio che si può
trarre dai dati diffusi da Confesercenti riguardo il commercio al dettaglio in
Italia. Una situazione esplosiva che rischia di cancellare parte del sistema produttivo
nazionale e calabrese
di FRANCESCO RIDOLFI
CATANZARO – In
Calabria il 2013 rischia di passare alla storia come l’annus horribilis dei
negozi di commercio al dettaglio. Il primo quadrimestre ha, infatti, fatto
registrare quasi 7,5 chiusure al giorno di attività commerciali per un totale
di 892 cessazioni in 120 giorni. Un’ecatombe solo parzialmente compensata dalle
nuove aperture che nei primi quattro mesi dell’anno sono state 411 con un saldo
negativo del primo quadrimestre di ben 481 unità. Ciò significa che per ogni
azienda che in Calabria ha aperto nel corso del 2013 ben due hanno chiuso. A
rivelare il dato la Confesercenti che con un rapporto di tipo nazionale
analizza la situazione del commercio al dettaglio nell’anno che per diversi
economisti dovrebbe rappresentare lo spartitraffico tra la crisi e i primi
segnali di ripresa, segnali che, però, stando ai numeri dell’organizzazione di
categoria stentano seriamente a manifestarsi. Complessivamente in Calabria ci
sono circa 27 mila aziende di commercio al dettaglio che tuttavia di questo
passo rischiano di essere dimezzate in breve tempo se non si trova il modo di
rimettere in moto il sistema economico nazionale e soprattutto, per quel che ci
riguarda, regionale. Certo la punta dello stivale non appare quella con il
trend più negativo se solo consideriamo che, ad esempio, la vicina Sicilia
presenta un rapporto di quasi 1 a 4 (una nuova attività ogni 4 chiuse) ma
questo non deve certo consolare o far ridimensionare il problema. Non da
sottovalutare, inoltre, il dato, che sempre Confesercenti mette in luce nella
sua ricerca, riguardante i disagi sociali di questa moria di attività
commerciali. Non solo, infatti, in termini di occupazione e produttività
bisogna considerare l’impatto negativo della chiusura delle attività al
dettaglio ma un ulteriore disagio riguarda le fasce più deboli della società,
in particolare gli anziani, che con la chiusura del piccolo negozio sotto casa
si ritrovano sempre più spaesati, si vedo costretti a rivolgersi alla grande
distribuzione con tutte le conseguenti difficoltà che ciò comporta specie in un
territorio come la Calabria dove alla già esistenti precarietà si aggiunge
anche un sistema dei trasporti in piena crisi ed un calo dell’investimento
nell’assistenza sociale certificato anche recentemente dai dati Istat. Oggi «la
desertificazione delle attività commerciali – afferma Confesercenti - in Italia
appare essere un fenomeno in continua accelerazione, e potrebbe portare alla
scomparsa dell’intera rete dei negozi nel nostro Paese già nell’arco dei
prossimi 10 anni». Per salvare la situazione è necessario riattivare i consumi
e in questo senso, oltre all’ineludibile impegno dello Stato centrale, appare
sempre più irrinunciabile una strategia locale condivisa tra le varie forze
sociali e gli enti locali al fine di dare alla Calabria una chance di uscire
dal circolo vizioso in cui è caduta.
mercoledì 12 giugno
2013 14:35
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