L’estate italiana di Erminio
Ferrari
L'UNIONE SARDA - Economia:
La vacanza in Sardegna: scortesie per gli ospiti
11.07.2013 TURISMO.
La disavventura di un sardo
che voleva mostrare la “sua Isola” agli amici stranieri
Quasi li sento, dire a voce
alta mentre leggono questo resoconto di una vacanza tragicomica: «Eccolo, lui,
l'emigrato con la puzza sotto al naso, che sputa nel piatto in cui ha mangiato
e che rinnega le proprie origini e le proprie radici». Eppure questa volta non
è così, statene certi. Questa volta qualcosa non ha funzionato. E la sensazione
è che le cose vadano sempre peggio. Una vacanza a cavallo fra giugno e luglio
doveva infatti essere un modo per ricaricare le batterie, per dimenticare,
almeno per due settimane, il grigiore londinese. Ma anche un modo per stare con
la famiglia, con il sole, con il mare, con il vento e con il buon cibo. Tutte
cose che, come noto, al di qua della Manica scarseggiano. Eppure, il bilancio è
stato pesante, pesantissimo. Non me ne vogliano compaesani, compatrioti e
amanti della Sardegna sparsi per il globo. E non me ne voglia quel tabaccaio
cagliaritano che non ha staccato l'orecchio dal cellulare, mentre compravo due
cartoline, non mi ha detto buongiorno, buonasera, grazie o prego. Non mi ha
manco guardato in faccia ma ha teso la mano verso di me, a pretendere il denaro
contante. E non me ne voglia se sono uscito dal suo negozio con l'amaro in
bocca. Non me la sono presa con lui, me la sono presa con un popolo che, va
detto, con il turista proprio non ci sa fare. Volevo solo mostrare a una
persona a me cara, in vacanza con me, quanto fosse bella e ospitale la mia
isola. E invece ogni giorno ci ha riservato delle cosiddette “mazzate sui
denti”. Una vergogna. Come la sera che siamo andati in pizzeria, un noto locale
del centro di Cagliari. Eravamo in cinque ma avevamo prenotato solo per
quattro. «Ma sì, che problemi ci sono». E invece arriviamo, comunichiamo la
nostra “colpa” e la cameriera ci guarda stralunata, come se avesse visto un
alieno atterrare sui Sette Fratelli. «Noooo, non fa. Non è possibile. Voi avete
prenotato per quattro». Una doccia gelata, non sappiamo che cosa rispondere ma
pretendiamo di restare. Così, l'ordine viene preso dopo 25 minuti, la pizza ci
arriva dopo 70 minuti, più altri 20 minuti per avere il conto. Per il quale
costringiamo la cassiera a smettere di lavare le tazzine da caffè e a prestare
attenzione a noi, poveri turisti, che vogliamo soltanto pagare. Ma le comiche
continuano. Così la gita a Carloforte diventa una piccola odissea. Tutto bello,
per carità, anzi bellissimo, ma il traghetto ci costa il doppio del preventivo
su Internet, mentre l'ufficio informazioni del paese, in un sabato di luglio, è
aperto dalle 11 alle 13 (!). E noi arriviamo alle 13:05. Per non parlare di
quel cameriere, in un ristorante, che alla domanda su che cosa sia il “lattume
di tonno”, il primo piatto del loro menù, ci risponde: «Eh, boh, e che ne so
io!». Tralascio tutte le volte che al Poetto, negli stabilimenti, non avevano
il cambio di 20 euro, neanche all'ora di pranzo. E tralascio tutte le volte che
ho dovuto aiutare un turista straniero che non riusciva a comunicare in inglese
con bigliettai di corriere, autisti di autobus, edicolanti, camerieri e
ristoratori. Tralascio la questione dei prezzi, spesso ballerini e fatti “a simpatia”.
Tralascio tutto questo ma vi voglio proprio dire che l'anno prossimo le vacanze
al mare le farò in un Paese che ci sa fare con il turista. Farà un freddo cane,
non troverò gli spaghetti ai ricci, il sole non sarà altrettanto forte. Ma,
ecco, volevo dirvelo: l'anno prossimo andrò su qualche bella spiaggia della
Danimarca.
L’estate italiana
di Erminio Ferrari -
07/11/2013
Le
primavere arabe sono finite come sono finite, ma anche l’estate italiana
promette bene. Se gli avvenimenti di ieri sono indicativi del futuro immediato,
il meno che si possa dire è che pensare al peggio è già segno d’ottimismo.
Il
bislacco tentativo dei sottoposti di Silvio Berlusconi di far saltare i lavori
(lavori…) parlamentari quale rappresaglia alla supposta “fretta” con cui la
Cassazione ha fissato il terzo grado del processo Mediaset, si è rivelato una
farsa, poco più di un annuncio: questa non è gente che le rivoluzioni le fa
davvero; al massimo (ed è il vero obiettivo) tiene un governo sulla corda, per
negoziare un salvacondotto per il proprio capo.
Una
manfrina che è bastata però a stanare un Pd confuso e incapace; che scambia
responsabilità con pavidità, i giubbotti del sindaco di Firenze con una
piattaforma politica. Tanto che fino a sera i parlamentari democratici stessi
non avevano ancora capito se avevano o no votato per la sospensione del lavori,
richiesta dal Pdl (“No, non l’abbiamo votata”, “Sì, ma solo per un paio
d’ore”). Quasi contemporaneamente, Grillo e Casaleggio, detentori del marchio 5
Stelle, incontravano il presidente della Repubblica per dettargli l’agenda.
Dica la verità al Paese, sciolga le Camere, sappia che «la gente vuole prendere
i fucili, i bastoni e sono io a dire proviamo ancora con la democrazia. Noi
vogliamo buttare fuori i partiti con metodi democratici, però poi ci
stuferemo». Eccone un altro (quello dei due che parla, l’altro “elabora”) che
prende un Paese intero per un palcoscenico. O per un balcone di Palazzo
Venezia: non c’è infatti solo un’eco del Bossi dei famosi arsenali bergamaschi
in queste parole; c’è anche quella del passo cadenzato delle estreme destre
europee. Molto più Alba Dorata che Syriza, se vogliamo pensare a quella Grecia
della quale tutti volevano evitare la fine.
Certo,
bisognerebbe distinguere tra ciò che va in scena a Roma e nei multiformi,
cinici e onnivori canali dell’informazione, e quanto avviene lontano dalla
ribalta, in una Italia davvero allo stremo (di senso, di fiducia, piuttosto che
di isterica aspirazione al benessere).
Ma non
bisogna illudersi: se questo avviene a Roma è perché all’intorno vi sono le
condizioni che lo rendono possibile. Decenni di pedagogia televisiva
berlusconiana hanno portato milioni di italiani a credere che davvero il
Proprietario sia un perseguitato, a dar credito a giornali e politici che
dipingono la sua lotta sleale contro il diritto come una battaglia di libertà.
A credere che i fiori alle finestre (tragica la differenza tra l’ultimo comizio
di Berlusconi a Lampedusa e le parole di un papa sulla stessa isola) facciano
giustizia delle colossali iniquità del nostro tempo. Mentre una irrisolta
elaborazione del lutto comunista ha ridotto una sinistra disorientata alla
mercé di grottesche strategie di sopravvivenza. Fallimentari, oltretutto, se
non nel bell’argomentare della stampa amica.
E
Grillo, allora? Grillo è a sua volta sintomo e alimento del peggio. Che ormai,
a voler essere ottimisti, è la sola cosa che ci si possa attendere.
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