Zaia: “Roma affidi a noi una Regione
Gianfranco Viesti: “Il Sud
non vive sulle spalle di chi produce”
4 marzo 2013
Luigi Pandolfi
“Non è affatto vero che il
sud vive sulle spalle di chi produce. Tutti gli indicatori, le cifre contenute
nei documenti ufficiali del governo,
dicono il contrario, che il Sud in questi anni è stato privato di risorse
che gli erano dovute. Dobbiamo combattere il pregiudizio che dipinge il Sud
antropologicamente diverso, perciò incapace di emulare gli standard europei. Il
sud deve fare però la sua parte, responsabilizzandosi”. Parliamo di
Mezzogiorno, Europa e federalismo con il professor Gianfranco Viesti, ordinario
di Economia applicata presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università di
Bari.
Gianfranco Viesti (laurea in
economia all’Università Bocconi) ha lavorato a lungo presso il Centro Studi sui
processi di Internazionalizzazione della Bocconi e l’Istituto per la Ricerca Sociale (Milano).
Ha collaborato con l’Ocse, la Banca Mondiale e l’ILO in Asia e in America
Latina. Ha fatto anche parte del Consiglio di amministrazione della Cassa
Depositi e Prestiti. Figura di spicco nei Comitati scientifici dell’Osservatorio
sulle Piccole e Medie Imprese, di Legambiente, del Consiglio Italiano per le
Scienze Sociali, oggi è Presidente
dell’Ente Fiera del Levante. Tra i più insigni intellettuali meridionalisti,
fra i suoi ultimi lavori possiamo citare “Mezzogiorno a tradimento. Il Nord, il
Sud e la politica che non c’è” (Laterza Roma-Bari, 2009) e “Più lavoro, più
talenti. Giovani, donne, Sud. Le risposte alla crisi” (Donzelli, Roma, marzo 2010). L’ultima sua
fatica, appena uscita per i tipi di Laterza, è “Il Mezzogiorno vive sulle
spalle dell’Italia che produce: falso!”.
Professor Viesti,
recentemente ha affermato che la crisi
potrebbe essere l’occasione per ripensare al Sud e alle sue debolezze e
ricercare con creatività soluzioni ai suoi problemi. Può chiarire questa sua
posizione?
Di solito si pensa molto
poco al Sud perché si ritiene che tutto sia stato già fatto, tutto sia stato
sperimentato e non ci sia più nulla da fare. Ma questo tipo di ragionamento
adesso si può applicare allo stesso modo all’Italia. Anche l’Italia appare come
un paese travolto dalle sue difficoltà. E proprio per questo che la crisi,
economica e politica, deve obbligarci a mettere da parte questo tipo di
pregiudizi e, quindi, a tornare a ripensare all’Italia ed al Mezzogiorno partendo
dalle loro potenzialità, dalle loro possibilità. È difficile, lo so, ma è
l’unica cosa da fare.
In un saggio del 2003 lei
diceva che il Mezzogiorno è una buona
scusa per non affrontare realmente i problemi italiani. Vogliamo esplicitarlo
questo concetto?
E certo, perché si ritiene
che tantissime cose positive che accadono negli altri paesi europei, in Italia
non si possono fare perché gli italiani sono fatti in maniera diversa, perché
da noi le cose vanno in certo modo. Il Mezzogiorno, secondo questa tesi, è
l’Italia al quadrato, nel senso che si ritiene che al Sud sia impossibile fare
tutta una serie di cose perché l’atteggiamento delle persone, delle
istituzioni, della politica, è di basso livello ed impediscono al Sud di
diventare un posto normale, secondo quelli che sono gli standard europei. Se
non combattiamo questi pregiudizi le cose che si possono fare diventano
pochissime. Non dobbiamo accettare di farci vincere dal peso dei guai, del
retaggio del passato, che potrebbero gravare molto negativamente anche sul
futuro.
Si può affermare che negli
ultimi anni c’è stata una drastica redistribuzione di risorse dal Sud al Centro nord?
Certamente. Ed è stata ancora più grave perché si sono
associate due cose: la crisi economica, con un calo di reddito, di benessere,
per tutti, e, nell’ambito di questo calo, un’azione che ha penalizzato molto
più il Sud rispetto al resto del paese. Questa azione è stata più intensa,
forte, più determinata tra il 2008 ed il 2011, durante il governo guidato da
Berlusconi. I numeri di questa redistribuzione sono contenuti nei documenti
ufficiali dei governi, sono nelle cifre relative agli investimenti pubblici ed
in quelle che indicano la spesa corrente procapite. Ho provato a richiamare
queste cifre in un modo comprensibile per il grande pubblico in un libro appena
uscito per i tipi di Laterza, che si intitola: “Il Mezzogiorno vive sulle
spalle dell’Italia che produce: falso!”. In esso sono trattati, argomentati,
anche questi fenomeni che sono ignorati da gran parte dell’opinione pubblica.
Cosa può fare lo Stato per
aiutare il Mezzogiorno ad uscire dalla sua condizione?
Deve fare lo Stato. Deve
svolgere bene le sue funzioni di base, deve garantire innanzitutto la sicurezza
dei cittadini, intraprendere una guerra finale senza quartiere contro le mafie,
innalzando il livello di legalità diffusa. Deve garantire il territorio e la
sicurezza delle persone dai rischi geologici, sismici, idraulici, mettendo in
sicurezza il territorio. Deve far si che le scuole siano dei posti civili, dove
tutti i ragazzi possano andare ad imparare senza rischi per la propria
sicurezza, che le università pubbliche nel sud sopravvivano, vengano sostenute,
cosa nient’affatto garantita dopo le misure degli ultimi governi, compreso
quello guidato dal professor Monti. Deve consentire ai cittadini del Sud di
muoversi sul territorio in modi e con costi ragionevoli. La circostanza che sia
impossibile usare un qualsiasi mezzo pubblico per andare da Bari a Cosenza è
totalmente inaccettabile: non è possibile che un cittadino di Bari o di Cosenza
debba avere solo l’automobile come possibilità per recarsi da una città
all’altra. Non è più tempo di pensare a futuribili, grandi investimenti in
infrastrutture, non è un problema di binari, per intenderci, ma di treni.
E l’Europa?
L’Europa può fare
moltissimo. È assolutamente decisiva per il futuro di tutti noi e bisognerebbe
parlarne molto di più. L’Europa deve fare però due cose. La prima è modificare questa linea di politica economica
di austerità cieca e assoluta, che sta portando le società europee in una
situazione di grande difficoltà e di grande pericolo, che io vedo molto simile
a quello degli anni Trenta del Novecento. Ce lo dice quello che sta accadendo
in Grecia, in Spagna, ed oggi anche in Italia. L’austerità da sola genera
recessione e quindi altra austerità. La seconda cosa che deve fare l’Europa è
avere più coraggio, come l’ha avuto moltissime volte in passato,
nell’investimento sul suo futuro. Deve invertire questa tendenza autolesionista
a ridurre il bilancio comunitario, a bloccare le grandi infrastrutture europee,
a contenere i grandi progetti di ricerca comunitaria. Queste misure di politica
economica sono decisive per il rilancio della competitività delle nostre
economie e, quindi, del benessere nell’intera Europa.
Il dibattito sul federalismo
fiscale si è da tempo arenato. A che punto è l’applicazione dei decreti attuativi della Legge 42 del 2009?
Pessimo, perché siamo in
mezzo al guado. Il primo lavoro che fu fatto con i governi precedenti è stato a
mio avviso molto negativo, perché confuso ed, in misura rilevante, ispirato
dall’obiettivo di mantenere una parte più grande possibile di gettito fiscale
nelle regioni più ricche. Parliamo, per fare un esempio, del problema del
finanziamento delle amministrazioni comunali, soprattutto di quelle del
Mezzogiorno, lasciato dalla riforma nell’assoluta incertezza. Con il governo
Monti l’operazione si è del tutto arenata, il che è un bene perché non si è
proseguito su quelle linee, ma è un male perché ci lascia in una condizione di
assoluta incertezza. Qualsiasi sindaco del Mezzogiorno è alle prese con
un’assoluta difficoltà nel fornire ai propri cittadini più elementari, di base.
Se a ciò si aggiunge che negli ultimi anni sono stati ridotti del 90% le risorse
nazionali per le politiche sociali, cioè le politiche per i più deboli, le
famiglie più numerose, la non autosufficienza, si capisce che proprio in questo
periodo di forte emergenza, indotta dalla crisi, il peso dei servizi di
assistenza è stato scaricato tutto sulle spalle delle amministrazioni locali,
che non sono assolutamente in grado di farvi fronte.
Crede che il federalismo sia la risposta giusta ai
problemi dell’Italia?
Dunque, la parola in sé non
mi piace. Credo che un ragionevole grado di decentramento delle responsabilità
sia una buona cosa. Deve essere però ragionevole: molte cose le deve fare il
governo nazionale, alcune cose devono farle le regioni e i comuni. Ma il
decentramento deve accompagnarsi ad una responsabilità fiscale di tutti,
soprattutto nel Mezzogiorno. Voglio dire che è comunque finito il tempo delle
risorse indefinite e della possibilità, quando finiscono i soldi, di
indebitarsi con lo Stato. Per il Sud il decentramento può essere utile perché
così è chiamato ad essere responsabile di ciò che fa.
Quali responsabilità
imputerebbe alle classi dirigenti meridionali per le condizioni in cui attualmente
versano le regioni del Sud?
Molte, ma meno di quelle che
normalmente si attribuiscono loro. Nel dibattito italiano il Sud va male perché
tutte le colpe sono delle classi dirigenti locali, ignorando il quadro politico
nazionale, la situazione dei bilanci dei comuni, la dotazione di infrastrutture.
Sicuramente, il quadro è molto più vario e la cosa veramente importante non è dire che la classi dirigenti
meridionali fanno schifo, come dicono da più parti nel mondo politico e tra gli
opinionisti, ma riconoscere che nel Mezzogiorno ci sono amministrazioni buone
ed altre molto cattive. Il punto è quindi capire perché alcune amministrazioni
sono efficienti, virtuose, ed altre no.
twitter: @profgviesti
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