sabato 26 marzo 2011

Federali-Sera. 26 marzo 2011. Obama ha sottolineato che gli americani devono essere orgogliosi delle vite salvate in Libia con un intervento che è stato nel nostro interesse nazionale. I ribelli ringraziano Sarkozy, ma ora lasciate il Paese.

Mu'ammar all'alba del tramonto:
Tv e web hanno inoculato la democrazia nei paesi islamici
Obama: la missione in Libia ha evitato una catastrofe umanitaria.
Libia, tensione Italia-Francia.
Libia: i ribelli ringraziano Sarkozy, “ma ora lasciate il Paese”.

Profughi e clandestini di vecchia data:
Bressanone. Il sindaco: «Festa comunicata in ritardo».
Rovereto. Profughi a Marco? Non si sa.
Voghera. «Profughi libici, li ospitiamo».
Genova. Da Lampedusa all’assalto del centro storico di Genova
Firenze. "La caserma Gonzaga ai profughi? Ora non è pronta".

Vacche padane Vs. mucche francesi:
Sarkozy: “Scalata alla Parmalat? Non so che dire, chiedete a mia moglie Carla”.
La vicenda della scalata francese a Parmalat arriva alla Procura di Milano.


Tv e web hanno inoculato la democrazia nei paesi islamici
La rivoluzione è avvenuta nelle generazioni più giovani che sono numerossime in questi paesi.  di Diego Gabutti.
Professore emerito a Princeton, autore di testi fondamentali e ormai classici sulla storia dell'Islam e del medio oriente, da L'Europa e l'Islam, Laterza 2005, alla Costruzione del medio oriente, Laterza 2006, da Gli arabi nella storia, Laterza 2006, a I musulmani alla scoperta dell'Europa, Rizzoli 2005, Bernard Lewis ha deciso di scommettere un caffè sulla rivoluzione nordafricana e si dichiara infatti assai meno pessimista dei commentatori che in questi giorni, con grandi occhiaie dubitose da scettici blu, scuotono la testa quando sentono qualcuno associare le parole «democrazia» e «libertà» alla parola «Islam». Se «in passato», dice Lewis in un'intervista apparsa qualche giorno fa sul Foglio di Giuliano Ferrara, «nel mondo islamico la parola libertà non aveva un significato politico ma era un concetto esclusivamente giuridico», nel senso che «un individuo era libero quando non era schiavo», oggi il termine «libertà» viene usato in senso proprio, cioè anche politico. Libertà, sui blog nordafricani e negli slogan che giovani e meno giovani scandiscono nelle manifestazioni di piazza, ha lo stesso significato che nei nostri libri di storia e di filosofia. Quanto poi alla democrazia, anche se finora «non ha mai trovato alcun posto in tutta la storia del mondo arabo e musulmano», secondo Lewis è una carta tutta da giocare. Non fosse che perché «l'Islam non è contro la democrazia in quanto tale. Se si osserva la storia del medio oriente nel periodo islamico, e si esamina in particolare la sua letteratura politica, si nota che l'una e l'altra risultano contrarie a regimi autoritari e assoluti. I musulmani, fin dall'inizio della loro storia, hanno dato grande importanza a ciò che essi stessi definiscono “consultazione”. Lo stesso profeta Maometto, come attesta il Corano, diceva che, prima d'intraprendere un'azione, bisogna discuterne con tutta la gente interessata, ascoltarne il parere e cercare di raggiungere qualche tipo d'accordo». In realtà i moderni regimi autoritari che tengono in scacco la regione sono la traduzione in arabo dei totalitarismi fascisti e socialisti nati in Europa. Anche le teocrazie khomeiniste e talebane sembrano ispirarsi più al lato oscuro della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino che al Corano. Non è vero, infine, dice ancora Lewis, che «l'esportazione della democrazia» voluta da Bush jr all'inizio del millennio sia stata un fallimento. Al contrario, spiega, l'esportazione della democrazia ha prodotto e «sta ancora producendo ottimi risultati», soprattutto in Iraq, dove «milioni di persone votano sapendo di rischiare la vita per questo» (mentre da noi, in Europa e negli Stati Uniti, difficilmente qualcuno si recherebbe tranquillamente alle urne se sapesse di rischiare un incontro ravvicinato con cecchini, accoltellatori e kamikaze a metà strada tra il proprio numero civico e la cabina elettorale). Grazie ai «media moderni», che hanno globalizzato il vocabolario della modernità e che «sono stati una delle principali ragioni del rovesciamento dei dittatori della Tunisia e dell'Egitto», non c'è più l'ambiguità d'un tempo riguardo al significato di parole come «libertà» e «democrazia». Così come la libertà, secondo gli studenti di Teheran, «is funny», è divertente, allo stesso modo la democrazia è comoda. Non c'è popolo che, dopo averla collaudata, torni a preferirle il colpo alla nuca dei tiranni. Vero che la situazione può sempre volgere al peggio (e che anzi, se può volgere al peggio, allora volgerà senz'altro al peggio, come recita la Legge di Murphy). Forse i Fratelli musulmani (che anche secondo Lewis, e non soltanto secondo la leadership leghista, è «un movimento islamico radicale estremamente pericoloso») riusciranno a impadronirsi dell'Egitto liberato. Forse Gheddafi, alla fine, la scapolerà; e forse l'opposizione libica medita davvero una nuova e peggiore tirannia. Ma non per questo l'Occidente può «addolorarsi» per la sorte dei tiranni. Simili astuzie (e smancerie) ci siano risparmiate.

Obama: la missione in Libia ha evitato una catastrofe umanitaria. New York, 26-03-2011. L'intervento militare in Libia "sta avendo successo" e ha salvato molte vite di innocenti dal "bagno di sangue" minacciato da Muammar Gheddafi. Lo ha affermato il presidente Usa, Barack Obama, nel suo intervento settimanale.

Obama ha sottolineato che gli americani "devono essere orgogliosi delle vite salvate in Libia" con un intervento "che è stato nel nostro interesse nazionale".

Ruolo Usa limitato, responsabilità condivisa
"Il ruolo delle forze americane" in Libia "è limitato". Con gli alleati si è deciso che "la responsabilità della missione passasse dagli Stati Uniti ai nostri alleati e partner della Nato". Lo ha detto il presidente americano Barack Obama nel suo discorso settimanale. "E' così che la comunità internazionale funziona, più Paesi, non solo gli Stati Uniti, a condividere la responsabilità e il costo della pace e della sicurezza".

Libia, tensione Italia-Francia. Altre bombe cadute su Tripoli
26 marzo 2011 Tripoli - Roma e Parigi proprio non riescono a intendersi sulla Libia: la strategia francese, a detta di fonti diplomatiche, rischia di infrangersi contro un muro: nessuno conosce Muammar Gheddafi come lo conosce l’Italia, si sarebbe argomentato nel corso di alcune conversazioni, sostenendo che il leader libico non lascerà sotto il ricatto dei raid aerei.
Roma è persuasa, come chiede a gran voce l’Europa tutta, che il Colonnello debba fare un passo indietro. A Parigi, appena una settimana fa, il primo ministro italiano, Silvio Berlusconi, si era limitato a dire: «Tutta la comunità internazionale pensa che sia difficile che un regime possa continuare dopo quello che è accaduto». Ma sempre in ambienti diplomatici si ritiene che l’addio del rais sia la “conditio sine qua non” per avviare una “mediazione”. E ciò potrà avvenire solo dopo un cessate il fuoco.
La speranza è che il tentativo dell’Unione Africana, con il sostegno dell’Onu, riesca. Del resto, Tripoli ha detto di volere prendere in considerazione la “road map” stabilita ad Addis Abeba. L’auspicio è che non sia l’ennesimo bluff. Per Berlusconi, comunque, l’unica strada e quella che passa per un cessate il fuoco, per l’addio di Gheddafi e infine per una mediazione che coinvolga tutte le tribù libiche, unico modo per mantenere la Libia unita, altro obiettivo fondamentale per l’Italia.
Dal punto di vista militare, intanto, ieri sera la coalizione internazionale ha effettuato raid aerei sulla città di Zliten, 160 chilometri a est di Tripoli, secondo quanto riferito dalla tv di Stato libica: «Siti civili e militari sono stati presi di mira dai bombardamenti dell’aggressore crociato colonialista». Zliten si trova sulla costa, una cinquantina di chilometri a ovest di Misurata. Nel cuore della notte, invece, tre forti esplosioni hanno scosso la periferia orientale di Tripoli: «Il quartiere è stato scosso da tre esplosioni consecutive. I vetri delle finestre sono andati in frantumi. Il raid ha colpito una postazione radar, che ha preso fuoco», ha raccontato intorno alle 6 italiane un testimone che abita a circa 300 metri dal bersaglio colpito.
Diversi siti militari sono situati alla periferia est della Capitale libica, bersagliata quotidianamente dai raid della coalizione dall’inizio delle operazioni militari in Libia, il 19 marzo scorso.

Libia: i ribelli ringraziano Sarkozy, “ma ora lasciate il Paese”
di Markez  26 marzo 2011 -
Gli insorti ringraziano il presidente francese, Nicolas Sarkozy, per il suo intervento armato in Libia ma aggiungono che ora “le forze straniere” dovrebbero lasciare il Paese.
E’ quanto si legge in una lettera del capo del Consiglio nazionale di transizione di Bengasi, Mahmoud Jibril, indirizzata a Sarkozy e pubblicata da Le Figaro.
“Nel mezzo della notte – ha scritto Jibril – i vostri aerei hanno distrutto i blindati che avrebbero massacrato Bengasi. I libici vi vedono come dei liberatori e la loro
riconoscenza sarà eterna”.
Tuttavia, ha aggiunto Jabril, “non vogliamo forze straniere. Non ne abbiamo bisogno. Abbiamo vinto la prima battaglia grazie alle vostre forze ma vinceremo la
prossima con i nostri mezzi”.
La Francia è stato il primo paese che ha riconosciuto a governo di Bengasi un ruolo “legittimo” di interlocutore del Paese.


Bressanone. Il sindaco: «Festa comunicata in ritardo». Unità d'Italia, per Pürgstaller niente manifestazioni per colpa del governo italiano. BRESSANONE. Manifestazioni ridotte per colpa del governo italiano, che ha deciso tardi di dichiarare festa il 17 marzo. Così il sindaco Albert Pürgstaller interviene (senza mai citare il suo vice, Gianlorenzo Pedron) sulle polemiche esplose sull'Unità d'Italia. Ma la vicenda rischia di arricchirsi di un nuovo capitolo. Il consigliere dei Freiheitlichen Walter Blaas, infatti, minaccia di denunciare la giunta se non verrà revocata la delibera che finanzia con 250 euro il convegno sul Risorgimento.  «C'è una palese violazione del regolamento comunale - commenta Blaas - tra la richiesta di finanziamento e l'evento devono passare 15 giorni, non 3 com'è accaduto. Se passa questa volta, tutte le associazioni si sentiranno in diritto di fare la stessa cosa. È inaccettabile: o revocano la delibera, o li denuncio».  In effetti, l'associazione Pro Cultura ha presentato domanda di finanziamento (250 euro) la mattina del 18 marzo e il convegno sul Risorgimento al Pluricomprensivo si è tenuto il 21. Pro Cultura, però, in questa vicenda non ha alcuna responsabilità. Il suo intervento è stato richiesto dal vicesindaco Pedron, che il 16 marzo ha «scoperto» di non poter finanziare direttamente la scuola per il convegno: aveva bisogno di un'associazione che facesse da ponte e ha chiesto aiuto a Pro Cultura.  Ieri il sindaco Albert Pürgstaller ha replicato con una nota alle ultime polemiche: «Il fatto che i festeggiamenti del giorno 17 siano stati per forza di cose limitati - afferma il sindaco - è dovuto in parte alla tardiva decisione del governo di dichiarare il 17 marzo festa nazionale. I rappresentanti del Comune - prosegue l'intervento - hanno comunque tenuto a partecipare alle manifestazioni svoltesi su iniziativa di associazioni brissinesi, come quelle dell'associazione Heimat e dell'Upad».  «Posso comprendere la delusione di una parte dei cittadini e delle autorità - afferma Pürgstaller - auspico che ora le polemiche vengano messe da parte, ponendo l'attenzione sulle iniziative concrete che l'amministrazione sta sostenendo per dare visibilità al prezioso patrimonio ed alla ricca storia culturale dello Stato italiano».  Pürgstaller cita il concerto di capodanno dedicato ai grandi maestri della musica italiana, «mentre per i mesi estivi sono in fase di programmazione due importanti eventi in collaborazione con l'Assessorato alla cultura italiana: il concerto dei Solisti veneti, il cui finanziamento va ancora definito, e la mostra presso il Palazzo Vescovile dal titolo "Il Capolavoro non esiste" con una raccolta di 60 opere tra scultura e pittura scelte e raccontate da Federico Zeri, uno dei maggiori storici dell'arte italiani». «La mostra prevede un ampio coinvolgimento del mondo associativo locale. Si tratta di appuntamenti importanti dall'alto valore culturale e capaci di completare i festeggiamenti con piena soddisfazione per l'intera comunità», conclude il Sindaco.

Rovereto. Profughi a Marco? Non si sa. 26/03/2011 09:51
ROVERETO - «La città di Rovereto verrà coinvolta nell'offrire supporto logistico ai profughi dell'Africa, la città della Pace sarà quindi parte attiva nel fornire una risposta concreta al bisogno che arriva dalla vicina Africa». Il sindaco di Rovereto Andrea Miorandi conferma quanto deciso dalla Provincia: il Centro per la formazione e l'addestramento della Protezione Civile, all'ex polveriera di Marco, ospiterà un certo numero di profughi africani. Chi, quanti e quando non si sa ancora.

«Non siamo arrivati ancora a questo punto, siamo in una fase preparatoria - conferma il sindaco -, non c'è nulla di stabilito, né tempi né numeri, in queste ore stiamo ragionando in concreto con la Provincia di Trento, in particolare con il responsabile della Protezione civile De Col, e le Forze dell'ordine su come organizzare questa ospitalità.
La mia preoccupazione primaria è di dare solidarietà ed aiuto, tutto il resto è secondario. Non dimentico né sottovaluto le legittime richieste di informazioni che arrivano dai cittadini, in particolare dai residenti di Marco, però allo stato attuale non siamo arrivati a parlare di questo. Teniamo presente che l'impegno del Trentino è per circa 600 persone, a fronte di un numero massimo di profughi che l'Italia si è impegnata ad accogliere pari a 60 mila, ma questo è il massimo; credo che il numero possa essere inferiore e comunque per quanto riguarda il sito dell'ex polveriera si parla solo di sistemazione temporanea, in quanto non è un luogo attrezzato per un soggiorno più lungo e duraturo».

Il primo cittadino conferma, quindi, la volontà di offrire aiuto nello spirito di solidarietà che deve animare una città come Rovereto, che si fregia del titolo di città della Pace. Ma nello stesso tempo Miorandi promette che «non appena avrò dati precisi in merito a tempistica, soluzioni e modalità dell'accoglienza convocherò un'assemblea pubblica con i cittadini di Marco, chiedendo l'intervento anche di un rappresentante della Provincia, per illustrare nei dettagli, nella maniera più esauriente possibile, come si svolgerà l'intera operazione di ospitalità».

Voghera. «Profughi libici, li ospitiamo». Il titolare dell'hotel Domus pronto ad accoglierne trenta. VOGHERA. «Perchè siamo disposti ad ospitarli? Perchè sappiamo cosa succede nei Paesi da cui provengono». I titolari dell'hotel Domus, in via Matteotti, hanno dato la disponibilità ad accogliere alcuni dei profughi provenienti da Lampedusa.

L'hotel si trova proprio di fronte alla stazione ferroviaria. A gestirlo c'è Vito Cirillo insieme alla moglie, originaria del Senegal. Il tema dei profughi maghrebini è stato loro prospettato dai carabinieri di Voghera. Probabilmente su mandato del Ministero della Difesa, i militari dell'Arma starebbero "sondando" la disponibilità di varie strutture. Non solo vecchi impianti abbandonati, quindi, ma anche attività ancora in funzione. «Ci hanno chiesto - spiega Cirillo - se, nell'eventualità, fossimo disponibili ad accogliere alcune delle persone che potrebbero arrivare da Lampedusa. Ho risposto di sì, anche se c'è un'incognita: il mio contratto di affitto della licenza scade a fine marzo. Se il proprietario deciderà di prolungarmelo, non avrò problemi ad offrire alcune camere a quella gente». Il titolare dell'albergo spiega anche la ragione per cui, di fronte a un sentimento diffuso di diffidenza, sia disponibile ad aiutare persone che provengono dal nord Africa, sia che si tratti di libici o tunisini. «Siamo una coppia mista - dice - in quanto mia moglie proviene dal Senegal. Sappiamo cosa succede in questi Paesi, quale è la situazione in cui la gente si trova a vivere. Quindi cerchiamo, semplicemente, di aiutare chi ha bisogno. Tutto qui».

L'hotel, secondo un primo calcolo, potrebbe ospitare al massimo una trentina di persone. Una goccia nell'oceano, se si considera che, secondo le prospettazioni del Ministero dell'Interno, in Lombardia potrebbero arrivare 9.000 rifugiati. Ma la volontà di aiutare chi si trova in difficoltà c'è. Nulla si sa, invece, riguardo alla
possibilità che strutture pubbliche dismesse possano essere impiegate per fronteggiare l'ondata migratoria.

Nei primi anni '90, ad esempio, in occasione della prima, grande migrazione dall'Albania, venne utilizzato il vecchio deposito militare di carburante che si trova a Godiasco. Tra l'altro, anche a Pavia si prospetta l'utilizzo di aree di pertinenza del Ministero della Difesa. E' di questi giorni, infatti, la notizia che circa 300 profughi potrebbero essere alloggiati all'ex Arsenale di via Riviera. Una grande struttura che offre una mensa da 250 posti e circa 200 docce.

Ma l'intenzione potrebbe essere quella di disperdere il più possibile gli stranieri sul territorio provinciale. Creare grosse concentrazioni di immigrati, infatti, potrebbe provocare proteste e reazioni da parte della popolazione. Di qui la decisione di verificare le piccole realtà, hotel inclusi, nella prospettiva di doversi fare carico, come tutte le altre regioni, di una quota degli immigrati che stanno sbarcando in Sicilia.

Genova. Da Lampedusa all’assalto del centro storico di Genova
26 marzo 2011 Bruno Viani
Si “scala” per entrare in casa. Genova - «Eccoli, guarda». Compaiono dal nulla, volti con la pelle color del deserto, dalle finestre senza vetri né infissi del palazzo di vico del Campo dove già nel maggio scorso si era sfiorata la tragedia: un rogo che aveva costretto all’evacuazione di 17 appartamenti trasformati in dormitorio da 130 clandestini. Volti nuovi. Appena arrivati, l’altra notte. Pagano per sistemarsi nei palazzi abbandonati del centro storico. In ogni spazio disponibile.
Corsi e ricorsi della città vecchia, dove ogni spazio vuoto richiama inevitabilmente qualcuno disposto ad occuparlo. E quei nordafricani che parlano solo francese e arabo e urlano zemel (“frocio”) a chi parla con le trans del ghetto, senza alcun dubbio, sono gli ultimi immigrati a Genova. La gente di qui assicura che sono anche i primi arrivati da Lampedusa dopo l’esplosione della crisi nel Maghreb e in Libia, nessuno può dire se è la verità: certo le segnalazioni di volti nuovi nella città vecchia si stanno moltiplicando e non è azzardato dire che sono tanti, forse già centinaia. Nordafricani che parlano solo francese e ancora non hanno una sistemazione, per questo sono disposti ad adattarsi a tutto.
Sono disposti anche a pagare cinque o dieci euro a notte (piccole cifre da moltiplicare per cento e più ospiti solo nel dormitorio di vico del Campo) per un posto nell’hotel dei disperati, dove qualcuno, in preparazione all’ultimo business, ha fatto arrivare anche i materassi: niente a che vedere con le brande offerte dalla protezione civile ai profughi nel momento del bisogno insieme a un pasto caldo. Nei vicoli tutto ha un prezzo. E, in quel prezzo, c’è chi mette in conto di poter perdere anche la vita.
«Sì, adesso abbiamo paura», racconta Rosy, che alla nascita aveva un nome da uomo e da dieci anni si vende in vico del Campo. Paura di ciò che rompe equilibri fragilissimi, una nuova immigrazione che sta sbarcando silenziosamente in città. E, nel racconto delle graziose del ghetto, c’è chi sta facendo affari d’oro sulla pelle dei disperati, rischiando però di innescare una bomba pericolosissima.

Sono persone senza volto e senza nome. Anche loro (nella testimonianza delle trans che sono diventate le sentinelle del ghetto ) nordafricani, probabilmente tunisini. «Li abbiamo visti tirare su i materassi con le funi, l’altra sera - raccontano Alma, Rosy e le altre graziose - non è gente di qui. E, la sera, alcuni di loro erano di nuova qui in via del Campo a accogliere altri connazionali, prendevano soldi e poi facevano salire quei poveretti sulle impalcature che sono lì da un’eternità, indicando dove andare». Da dove arrivano? Qui, Rosy non ha dubbi. «Da Lampedusa, sicuramente. Si vede che sono appena arrivati, glielo leggi in faccia. Sono tutti nuovi: quelli che tirano le fila del giro. Così come quelli che pagano». Certezze non dimostrabili, frutto di sensazioni a fil di pelle.

Certo, nel palazzo in vico del Campo, la ri-occupazione è andata avanti (inizialmente) in modo lentissimo, dopo lo sgombero della scorsa primavera. Adesso ha avuto un’accelerazione improvvisa, seguendo le logiche dell’economia: se aumenta la richiesta, chi controlla l’offerta fa il prezzo che vuole. E chi non ha né un’identità né un tetto, non ha nemmeno alternative: paga e tace.

E gli ospiti, che si arrampicano lungo i tubi delle impalcature per raggiungere un materasso sporco, non mettono in gioco solo (quotidianamente) la propria vita. Le graziose raccontano: «In quel palazzo non ci sono né elettricità né acqua, la sera lanciano giù bottiglie di plastica piene di piscio: dove dovrebbero metterlo? Stamattina ne abbiamo tolto quattro dalla strada, la quinta è lì, spaccata, ci faceva schifo ma per quello basta turarsi il naso. Il fatto è che abbiamo visto tirare su parecchie bombole di gas, quelle sì fanno paura...».

In vico del Campo, dove l’unica residente italiana è Piera, già nota ai mass media (ormai donna-simbolo di una nuova resistenza) ogni filo di fumo che si vede uscire dalle finestre è un brivido. Può essere un segnale di normalità, qualcosa di simile al tentativo di ricreare un focolare domestico. Oppure la spia di una tragedia dietro l’angolo. Un’altra notte di fiamme e paura come a maggio, però questa volta (eccolo, l’incubo) senza risveglio.

Firenze. "La caserma Gonzaga ai profughi? Ora non è pronta". La struttura è vuota da tre anni, con locali fatiscenti. E Palazzo Vecchio la vuole per farci case per giovani coppie. CASE a prezzo accessibile per le giovani famiglie. E’ questo il disegno di Firenze sulla ex Caserma Gonzaga, che per il momento resta però di proprietà dello Stato. Ed è stata infilata nella lista dei siti destinati a ospitare i profughi del nord Africa. Le possibilità di utilizzo però appaiono abbastanza remote: l’elenco del ministero si divide in 13 edifici immediatamente disponibili e in 31 siti (la caserma fiorentina rientra tra questi) non immediatamente disponibili se non dopo adeguata risistemazione. E la struttura, vuota dal 2008, ha comunque locali fatiscenti e altri da sistemare. Gli unici spazi che potrebbero ospitare i profughi (a patto di transennare quelli pericolanti) sono le camerate rimesse in sesto per l’addestramento dei volontari in ferma annuale (quindi dotate di impianti e bagni all’altezza della situazione). E’ chiaro però che anche quelli più recenti, dopo tre anni di abbandono, avranno bisogno di un intervento per essere nuovamente abitabili. Ma la notizia di un possibile utilizzo da parte del ministero per l’emergenza profughi non ha fatto preoccupare più di tanto gli amministratori che si sono detti pronti a fare la loro parte. In particolare anche il sindaco di Scandicci, che avrebbe la maggiore ricaduta sul suo territorio dalla presenza dei migranti. La caserma infatti è sempre stata formalmente sul territorio fiorentino, ma ha ‘vissuto’ su Scandicci che è il centro abitato più vicino logisticamente. I militari in libera uscita facevano vivere l’economia scandiccese più che quella fiorentina, visto che di Firenze tutto intorno ci sono campi o giù di lì. «Credo sia giusto che ognuno faccia la sua parte — ha detto il sindaco di Scandicci, Simone Gheri — certo però si pone un problema di metodo sull’utilizzo di una struttura che si trova in un punto nodale per lo sviluppo futuro di un’area cerniera come quella di cui si parla. Vicino alla tramvia, in un punto di pregio. Per la stretta emergenza va bene, ognuno in questo frangente deve fare la sua parte, ma sul metodo occorre una concertazione perché queste aree che sono strategiche per il nostro territorio, vanno recuperate con un progetto condiviso tra chi le ha sul territorio e chi ne deve poi subire le ricadute». Tempo addietro, alla Gonzaga c’era stato un sopralluogo anche della Polizia di Stato, che cercava una exit strategy per uscire dal Magnifico, nel quale paga una somma astronomica d’affitto; una delle attrattive della caserma Gonzaga, è quella di avere anche al proprio interno un piccolo poligono di tiro per armi da guerra. E c’è anche chi si rammarica per la fine ‘ingloriosa’ di una struttura che da sempre a Firenze è stata sinonimo di vita militare.
«La nostra povera caserma — ha detto il colonnello Giacomo Silvestri dell’Associazione Lupi di Toscana — è destinata a non essere più la stessa utilizzata come ricovero per i migranti, e poi usata chissà come». Sulla caserma che si trova a cavallo tra Firenze e Scandicci c’è più di un appetito. Tra Scandicci che chiede da sempre una urbanistica concertata per il recupero dell’area, e Firenze che invece pare avere le idee già abbastanza chiare su cosa realizzarci una volta demolita la struttura. La decisione di portare i migranti del resto non è nuova.
Recentemente, in pieno dibattito sulla localizzazione di un Cie nell’area fiorentina, si era fatto anche il nome della Gonzaga. In quel caso i sindaci si opposero fermamente, ma l’idea rimase solo sulla carta visto che l’attenzione del ministero ha finito per andare su l’ex area dirigibili di Campi Bisenzio. di FABRIZIO MORVIDUCCI

Sarkozy: “Scalata alla Parmalat? Non so che dire, chiedete a mia moglie Carla”. BRUXELLES –  ”Non ne so abbastanza, direi sciocchezze, telefoni a mia moglie”. Così il presidente francese, Nicolas Sarkozy, durante la conferenza stampa finale del Consiglio europeo di Bruxelles, ha replicato a una domanda dell’inviato de La 7 sulla scalata a Parmalat da parte di Lactalis, e sul decreto che il governo italiano ha adottato mercoledì scorso per evitare che gli “asset” strategici dell’economia nazionale cadano in mani straniere.
“Bravo, uno a zero. Mi aspettavo di tutto tranne che una domanda su questo” ha risposto Sarkozy, che fino ad allora aveva parlato della Libia e di sicurezza nucleare.
Poi ha aggiunto: “Non ho una posizione, è un argomento che conosco molto male, temo che direi una sciocchezza. Torni una seconda volta, magari ci avrò lavorato sopra…”. Sarko poi aggiunge rivolgendosi al cronista: “Cosa? vuole telefonarmi? Perché no? Telefoni piuttosto a mia moglie, in italiano, perché io…”.
Sarkozy ha poi concluso: “Meglio che chiudo questa conferenza stampa, sta diventando pericolosa”.

La vicenda della scalata francese a Parmalat arriva alla Procura di Milano. Il pm Eugenio Fusco ha aperto un fascicolo a carico di ignoti per far luce sull'operazione che nei giorni scorsi ha portato Lactalis a detenere un pacchetto complessivo pari al 29% nell'azienda di Collecchio. Il gruppo ha raggiunto questa posizione dominante dopo aver acquistato il 15,3% dai tre fondi di investimento esteri Zenit, Skagen e MacKenzie. Il pm vuole quindi far luce sui presunti movimenti anomali dei titolo in Borsa che si sono registrati quando è cominciata la battaglia sulle liste dei nomi per il rinnovo degli organi sociali. L'ipotesi di reato è aggiotaggio. La procura milanese cerca di far luce sulla situazione del titolo di Collecchio nel periodo precedente all'aumento di capitale del gruppo francese. In mattinata è stato sentito come persona informata sui fatti il numero uno dell'azienda Enrico Bondi. I francesi di Lactalis hanno precisato di «aver sempre correttamente operato» e di attendere, «serenamente gli sviluppi della vicenda». Intanto i giochi per il controllo di Parmalat restano aperti. Il decreto anti-scalate si è arricchito di un'altra norma: se il consiglio di Parmalat deciderà di far slittare l'assemblea degli azionisti si potranno presentare nuove liste per il rinnovo del board, oltre a quelle già depositate. Significa che nuovi investitori potranno presentare una propria lista o di unirsi a quelle già esistenti. Le banche sono al lavoro per tentare di mettere in piedi una soluzione italiana ma tutto è ancora aperto. Giovanni Tamburi, numero uno di tip e azionista forte di Prysmian, si è detto disponibile a partecipare «se c'è un progetto serio». Si fa sentire anche Granarolo che, afferma il vicepresidente Danio Federici, vuole essere «il braccio industriale» di una cordata italiana con Ferrero e le banche. Poi chiarisce che non sembra percorribile l'ipotesi di una alleanza con Lactalis: «o loro o noi».

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