martedì 29 marzo 2011

Federali-Sera. 29 marzo 2011. In un Paese normale e civile (ma l’Italia non sa cosa sia né l’uno né l’altro, anche per colpa della cricca di Galan & co.) i “poli” sono ben definiti e con essi anche le “capitali” dei vari settori: industria, agricoltura, turismo e arte. L’Italia tutta (e la smettano alcune regioni di rifiutarsi di fare la loro parte), in questo frangente, è chiamata a dimostrare tutte le sue migliori caratteristiche di Paese ospitale e accogliente. Così come la nostra gente ha sempre dimostrato di essere. I nostri governanti molto meno! Una cosa è certa, però: stando così le cose quelle statue a Reggio sono una vergogna per l’umanità.

Qualunquemente memorabilmente pensieri indelebili:
Libia, parla il leader dei ribelli: “Rispetteremo gli accordi con l’Italia”.
Calabria. L’accoglienza è per il Paese un’opportunità
Schiaffo ingiustificato
Calabria. E se Galan avesse ragione pur avendo torto?
Roma. Agli investitori stranieri piace scommettere sui titoli di Stato italiani.

Bon de chauffage:
Bozen. Gli italiani alla Svp: ora cambi la scuola.
Aosta. Bon de chauffage: i nuovi parametri "non hanno equità sociale".
Aostee'. Parere favorevole della II Commissione ai nuovi criteri per i "bon de chauffage".

Calde accoglienze:
L'accoglienza non sa far di conto
Udin. Profughi in Friuli Venezia Giulia: s’infiamma il dibattito politico
Udin. Profughi africani in Fvg: tendopoli a Clauzetto e Sgonico.
Milano. Immigrati, la Moratti: Milano ha già dato
Reggio Emilia. «Se la Regione dirà sì, i profughi a Cella».
Profughi, terza tendopoli a Pisa
Strigliata ai bellunesi, tutti in coro contro Galan
San Stino. Venezia. Niente soldi per gli alluvionati rivolta nel Veneto orientale.


Libia, parla il leader dei ribelli: “Rispetteremo gli accordi con l’Italia”. ROMA – Il leader politico dei ribelli libici in avanzata verso Tripoli, in dichiarazioni alla trasmissione Porta a Porta, ha assicurato che la Libia del dopo-Gheddafi rispetterà tutti gli accordi stipulati con l’Italia dal regime del colonnello, tra cui quelli che riguardano la lotta all’emigrazione clandestina e i contratti petroliferi con l’Eni.
Le assicurazioni sono venute in un confronto a distanza con un alto esponente del governo libico il quale ha accusato la coalizione internazionale di puntare ad una situazione di ”stallo” con conseguente divisione in due della Libia. A parlare per conto dei ribelli su Rai Uno è stato il presidente de Comitato nazionale di transizione (Cnt), Mustafa Abdel Jalil, il quale ha auspicato che gli ”amichevoli rapporti” con l’Italia ”si rafforzino” e ”Parteciperemo (agli sforzi) per fermare l’immigrazione clandestina impedendo loro di entrare in Libia e combattendo le organizzazioni criminali che lo permettono”, ha detto anche.
Jalil, ex ministro della Giustizia libico, in collegamento da una località tenuta segreta per motivi di sicurezza, ha detto che verrà rispettato il trattato italo-libico firmato dal presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e dal colonnello Muammar Gheddafi: un’intesa che fra l’altro – come ha sottolineato il conduttore del programma, Bruno Vespa – prevede anche un aiuto delle pattuglie italiane per controllare le coste e impedire una pressione migratoria dal sud.
“Qualsiasi trattato o accordo” che è stato stipulato, ha detto Jalil, “noi lo rispettiamo” e “cercheremo di applicare questi trattati”. “Noi rispettiamo tutti i trattati firmati con l’Eni e con tutte le altre aziende”, ha risposto ancora il presidente del Cnt, le cui forze ormai controllano due terzi dei pozzi petroliferi della Libia, paese in cui il gruppo energetico italiano ha forti interessi. Jalil ha negato in sostanza che i rapporti con l’Italia possano allentarsi a causa di un debito di riconoscenza nei confronti della Francia, fautrice dei raid aerei anti-Gheddafi. E anzi ha detto di sperare che gli “antichi legami” di amicizia “si rafforzino” in base ai “mutui interessi”.
Il presidente del Cnt ha parlato in un inedito confronto con un suo vecchio amico e ora nemico, il viceministro degli Affari Esteri del regime di Tripoli, Khaled Kaim, il quale ha sostenuto che ”la tattica della coalizione” è quella di ”imporre una situazione di stallo per spaccare il Paese in due” (regime di Gheddafi all’ovest e ribelli all’est). Jalil gli ha risposto che è invece Tripoli a voler ”dividere il paese in due parti, ma questo – ha assicurato – non avverrà”: al conduttore che gli chiedeva se i ribelli sono disposti ad accettare il cessate il fuoco e a trattare come evocato dall’esponente del regime, il leader del Comitato di transizione ha sottolineato che i ribelli vogliono arrivare fino a Tripoli.
29 marzo 2011 | 08:06

Calabria. L’accoglienza è per il Paese un’opportunità
29/03/2011
di FRANCO LARATTA. Prendo spunto da quanto ha scritto ieri Giovanni Manoccio sul Quotidiano. Circa due mesi fa, alle prime avvisaglie della “primavera” africana, proposi al governo di avviare subito un piano per l’accoglienza dei profughi in fuga da quelle terre. Un piano che, d’accordo le regioni e gli enti locali, se realizzato avrebbe potuto favorire l’accoglienza in ogni comune di alcune decine di famiglie nordafricane, giovani, donne e bambini compresi. Nessuno ha mai risposto, anche perché il governo italiano ha un solo piano da sempre: i respingimenti, il rimpatrio forzato, la cacciata di quella povera gente in fuga, e al massimo l’ospitalità di una piccola parte in veri e propri centri di concentramento! Ci troviamo davanti a un’emergenza che possiamo tradurre in opportunità. Il nostro Paese, che è stato per molti decenni Paese di migranti che hanno raggiunto i più sperduti stati e nazioni del mondo, oggi è chiamato a gestire un evento epocale: la fuga dall’Africa di decine di migliaia di persone, giovani prima di tutto, ma anche interi nuclei familiari. Un evento che rischia di trasformarsi in un tragico esodo, e il Mediterraneo ancora di più in un mare della morte, se non sapremo programmare rapidamente una soluzione, una risposta. Lo deve fare anche l’Europa, che finora è rimasta a guardare anche per colpa dell’Italia che sul tema dell’immigrazione ha sempre sbattuto la porta in faccia ai Paesi europei con la pretesa di voler far da sé. Con un solo e chiaro programma: recuperare i barconi, identificare gli immigrati, ricacciarli nei Paesi di provenienza. Tutto qui. Infatti solo questo è stato fatto in questi ultimi anni, non immaginando che questa politica fosse del tutto miope. L’Italia tutta (e la smettano alcune regioni di rifiutarsi di fare la loro parte), in questo frangente, è chiamata a dimostrare tutte le sue migliori caratteristiche di Paese ospitale e accogliente. Così come la nostra gente ha sempre dimostrato di essere. I nostri governanti molto meno! Varare un piano di accoglienza è indispensabile. Ed è, lo dicevo prima, anche un’opportunità. Ogni comune d’Italia potrebbe ospitare, e subito bene integrare, un piccolo numero di profughi, favorendo la ricostituzione di nuclei familiari, creando piccole comunità di giovani (perché tali solo la quasi totalità di immigrati). Utilizzando, ad esempio, i nostri centri storici, sempre più abbandonati e in pieno degrado. Non creando ghetti, ma piccoli gruppi e famiglie di immigrati da integrare. Le risorse nazionali ed europee ci sono e possono essere messe a disposizione dei comuni. Saranno utili per favorire il percorso di inserimento e adattamento, per farne dei cittadini responsabili, ai quali aprire le nostre scuole, rispettando quelle che sono le loro culture e tradizioni. Ovviamente impareranno a rispettare la legge italiana, in un percorso di integrazione rispettoso e mediato. Per noi questi emigranti saranno davvero un’opportunità. Anche per la nostra economia, per la nostra cultura, per la necessità che abbiamo di condividere con loro un mondo che appartiene a tutti, che è fatto di mille colori e di mille identità. E ne scaturiranno anche forme di occupazione per gli italiani interessati a processi di sostegno linguistico, di educazione e formazione scolastica. Piccoli numeri per ogni comune, per favorire processi di integrazione più rapidi possibili, senza forzature o imposizioni. Saranno poi le nuove generazioni a crescere in un ambiente nuovo e a sentirsi cittadini veri di questo angolo di mondo. Dall’altra parte del nostro grande mare, ci sono terre che bruciano. Decenni di maltrattamenti, miserie, torture, fame, dittature hanno ora provocato la reazione delle nuove generazioni che non vogliono finire schiacciate, mortificate, cancellate. Il mondo “civile” che sta da questa parte del Mediterraneo non può pensare di essere solo spettatore. E di assistere al dramma in tv. Scacciare brutalmente quella gente, quei giovani, porterà alla rovina di tutti. Non solo di quella povera gente.

Schiaffo ingiustificato
A certe esclusioni l'Italia non è nuova, ma quella che si è consumata ieri sera risulta talmente clamorosa da autorizzare alcune domande scomode per noi e per altri. Alla vigilia dell'odierna conferenza di Londra che dovrebbe finalmente indicare una chiara strategia politica nella campagna di Libia, i massimi responsabili di Usa, Francia, Gran Bretagna e Germania si consultano in videoconferenza. Sarebbe sciocco dire che queste cose non vanno fatte. Esse avvengono regolarmente prima di vertici di ben minore importanza. Ma che il telefono dell'Italia non squilli, questo non rientra in una visione pragmatica della campagna di Libia.
Non si tratta di velleitarismi, ma di valutare fatti concreti: l'Italia ha aperto le sue basi alla coalizione e comanda l'embargo navale Nato; l'intelligence italiana dà un contributo rilevante alle azioni dei nostri alleati; l'Italia è investita dalla prima conseguenza del conflitto libico, l'arrivo sulle nostre coste di un notevole numero di migranti. Davvero, in queste condizioni, può essere considerata comprensibile o accettabile la sua esclusione da un contatto importante e altamente simbolico per il messaggio che contiene (e che è rivolto anche ai libici)? Davvero la signora Merkel, astenuta all'Onu, non partecipante alle operazioni, lontana dalla scena, va presa a bordo e noi no?

È inevitabile pensare che abbia prevalso un doppio desiderio: quello di rafforzare l'intesa franco-britannica già rinsaldata ieri con una dichiarazione a due, e l'altro di rilanciare il rapporto franco-tedesco che serve, malgrado le sconfitte elettorali, tanto a Sarkò quanto alla Merkel. Mentre Obama, tutto impegnato a fare retromarcia, da queste dispettose alchimie europee deve essersi tenuto alla larga. E se poi il tutto servirà a favorire una redistribuzione degli accordi petroliferi, nessuno dei convitati si metterà a piangere.

Ma qui, dopo la sacrosanta indignazione, viene il momento di riflettere su noi stessi. Sapevamo da prima che il peso dell'Italia odierna sulla scena internazionale non è dei più rilevanti e del resto non è mai stato, anche in passato, tale da metterci tra i Grandi. A guardar bene, però, la crisi libica ha aggiunto qualcosa. I maggiori Paesi occidentali (Germania inclusa?) concordano nell'auspicare e nel ricercare a suon di bombe la caduta di Gheddafi. Berlusconi invece prima si dice addolorato per il Raìs e annuncia che i nostri aerei non spareranno, poi rinuncia all'iniziale idea della mediazione e per bocca del ministro Frattini cerca un dialogo negoziale simile a quello che cercano gli altri, perché non considera possibile la permanenza di Gheddafi al potere.

Una situazione di stallo militare sul terreno può ancora dare ragione ai primi istinti del governo. Ma, avendoli poi modificati, oggi diamo l'impressione di stare in altalena, cosa che in guerra non ispira fiducia. La speranza è che la conferenza di Londra serva da chiarimento anche della posizione italiana. Anche se Frattini avrà motivi più che sufficienti per far presente che l'emarginazione dell'Italia dal pre-vertice, benché agevolata da errori che si potevano evitare, rimane un autentico schiaffo.
Franco Venturini

Calabria. E se Galan avesse ragione pur avendo torto?
Lunedì 28 Marzo 2011 10:42 di Giusva Branca – Si può avere torto e ragione contemporaneamente? Probabilmente si, e, probabilmente, è questa la strana posizione nella quale, ad un’analisi attenta, a sangue freddo, non di pancia, si trova il neo Ministro dei Beni Culturali, Giancarlo Galan. La tematica, ovviamente, è quella relativa ai bronzi di Riace che ha immediatamente e nuovamente risvegliato gli animi (sopiti, invece, per mille e mille porcherie ed altrettanti drammi locali) dei reggini. Partiamo da un presupposto necessario per fruire dei requisiti base di onestà intellettuale indispensabili per approcciare al problema: concettualmente il Ministro ha ragione da vendere.
In un Paese normale e civile (ma l’Italia non sa cosa sia né l’uno né l’altro, anche per colpa della cricca di Galan & co.) i “poli” sono ben definiti e con essi anche le “capitali” dei vari settori: industria, agricoltura, turismo e arte. Si distribuiscono sul territorio in maniera quanto più possibile omogenea e su di essi si investe. Così se viene ritrovato il vello d’oro tra i monti della Valtellina o nella valle del Belice, questo non resta lì, ma si convoglia verso quei poli, appunto, che sono di per sé punto di riferimento su scala mondiale.
Anche per i bronzi di Riace il concetto dovrebbe essere il medesimo e i dati offerti da Gian Antonio Stella (che, certo, proprio la Calabria in vetta alla hit parade della simpatia non ce l’ha, ma ha il vizio di gettare sul tavolo, in modo crudo, numeri che spesso conviene non vedere) parlano chiaro.
Sono passati quasi 30 anni da quando i bronzi sono ospitati presso il Museo della Magna Grecia e l’insulto più grande le statue lo hanno ricevuto proprio dall’indifferenza dei visitatori. Personalmente abbiamo visitato le statue, da quando eravamo ragazzini, circa una decina di volte e mai, nemmeno una volta, abbiamo dovuto sottoporci ad un minuto di coda.
Questo è il risultato: due patrimoni dell’umanità destinati ad un oblio solo poco differente da quello patito nei secoli in cui giacevano sui fondali di Riace.
Fin qui, dunque, onestamente ed in maniera lucida, ci sarebbe solo da dire: portateli altrove.
Fin qui Galan ha ragione.
Ma Galan rappresenta anche quel Ministero che avrebbe dovuto, in questi 30 anni, adoperarsi affinchè, trainato dai bronzi (ma non solo), il territorio - inteso come un ampia circonferenza che abbraccia anche l’area di Taormina e Siracusa – diventasse polo culturale dell’intero Sud Italia, al pari di Pompei, per intenderci.
Nulla è stato fatto, niente di niente e, per parte nostra, abbiamo dormito i sonni tipici dei calabresi e, in particolare dei reggini, pronti a saltare sulla sedia per tutelare, senza rendercene conto, il nostro provincialismo.
Ce ne freghiamo di tutto, la nostra apatia è famosa al pari di una sorta di eutanasia etico-sociale praticata nella notte dei tempi, ci sta bene ogni cosa, dal malaffare al degrado, dal sottosviluppo alla criminalità, ma saltiamo sulle sedie ogni qual volta ci toccano il pennacchio.
Si badi bene, però, solo il pennacchio, non già ciò che sta sotto.
Sui bronzi, poi, si è sfiorato più volte lo psicodramma collettivo: isterismo puro alle ipotesi di spostamento (anche temporaneo) o di clonazione, sopito immediatamente appena queste ipotesi tramontavano senza, poi, pretendere (ma nemmeno chiedere) un piano di sviluppo serio per la tutela delle statue e, alla fine, delle origini magno-greche che sono, forse, la vera condanna della nostra società.
Continuiamo a vantarci di queste, come un nobile decaduto, senza accorgerci che, appunto, il blasone di chi è decaduto rischia di diventare patetico se non si fa nulla per rispettarne le tradizioni, per farlo comunque sopravvivere a sé stesso.
Mai nessuno, in 30 anni, ha preteso che, spinto dagli Enti locali ed in sinergia con questi sul fronte turistico e dei flussi , il Ministero (competente in materia) costruisse qualcosa di stabile che assomigliasse ad un polo di attrazione culturale.
Ma proprio culturalmente noi ci crogioliamo nel nostro isolamento. Concettualmente Siracusa ci appare lontanissima, eppure è ad un tiro di schioppo da noi, figurarsi quanto vicina potrebbe essere per chi ha scelto di raggiungerla dall’altra parte del mondo.
Scopelliti ha dichiarato che spiegherà a Galan il motivo per il quale le statue devono rimanere a Reggio, ma – posta così – non basta. Scopelliti dovrà spiegare al Ministro quali sono le condizioni necessarie perché i bronzi restino a Reggio, cosa serve fare, su cosa è necessario investire perché da un lato le statue abbiano la ribalta che si meritano e, dall’altro affinchè, finalmente, il territorio possa individuare una via, una logica di vocazione.
In assenza di ciò Galan avrebbe torto per non avere garantito i requisiti minimi e, paradossalmente, ragione a sostenere il non senso della loro permanenza a Reggio.
Ma, fuori dai denti, come è pensabile portare flussi turistici al centro dei quali porre le statue se è praticamente impossibile muoversi? Ma qualcuno crede veramente che nel 2011 sia possibile spostare flussi turistici in presenza di un sistema di trasporti inesistente?
A pensar male si fa peccato ma spesso ci si indovina e allora si potrebbe anche pensare che – con la complice acquiescenza di decenni di classe politica locale – lo Stato abbia smontato pezzo a pezzo la rete di trasporti locale (mentre di pari passo al Nord la ampliava) per poi potersi “giovare” dell’isolamento creato, prodromo ad una politica sempre più ad escludendum verso la Calabria.
Sarebbe come se, comodi sul divano di casa a guardare la tv, la nostra attenzione fosse richiamata da un vetro infranto da un sasso attaccato al quale un biglietto recitasse: “Ti serve un vetraio? Chiama al numero…”.
Una cosa è certa, però: stando così le cose quelle statue a Reggio sono una vergogna per l’umanità; stando così le cose la reazione dei reggini e dei calabresi, pronta solo in occasione di ventilati spostamenti, e mai apprezzata per pretenderne una valorizzazione che passi attraverso servizi consoni è una vergogna per la storia della Magna Graecia.
Le ennesime barricate per tenere i bronzi purchessia non solo non hanno senso, ma esaltano, ancora una volta, il nostro intimo desiderio di marginalità: “Lasciateci qui da soli, con le nostre statue chiuse in cantina, che nemmeno noi vedremo, come dimostrato dagli afflussi cittadini al Museo”.
Una vera e propria presa di posizione e di coscienza che, muovendo dai bronzi, pretenda dalla politica locale e, tramite essa, da quella nazionale la creazione di un vero modello di sviluppo o, quanto meno, di uscita dal sottosviluppo costituirebbe, invece, la svolta che, ove applicata, spazzerebbe via tutti coloro che parlano della Calabria senza conoscere la genesi dei problemi, spesso creati proprio da quel sistema che ora si indigna per questi. E, improvvisamente, Galan e Stella, i cui princìpi sono  - nella fase terminale – difficilmente contrastabili, apparirebbero lontani e piccoli.

Roma. Agli investitori stranieri piace scommettere sui titoli di Stato italiani. ROMA – Agli stranieri piace investire sui titoli di Stato italiani: alla fine del 2010 i Bot in mano agli stranieri erano il 52,15%. Scrive il Sole 24 Ore: “Nell’ultimo supplemento al Bollettino statistico della Banca d’Italia pubblicato in marzo, la tabella delle consistenze dei titoli di stato rileva alla voce “resto del mondo” nel settembre 2010 un totale di 786,2 miliardi di euro contro i circa 1.512 miliardi di titoli in circolazione. Per il mese di ottobre, ultimo dato disponibile, le consistenze in mano agli stranieri salgono a 800,4 miliardi equivalenti al 52,146% sul totale dei 1.535 miliardi di titoli di stato. Nel dettaglio, i BoT – che sono sempre più strumenti di mercato monetario per gli operatori finanziari e sempre meno strumenti d’investimento per il risparmiatore – in mano agli investitori esteri sono pari ad oltre 73 miliardi (51,3% sul totale)”. Un dato in sostanziale continuità con quanto rilevato in passato.

Altri Paesi attirano più del nostro: in Portogallo, Irlanda e Grecia stando alle ultime statistiche rilevate da Intesa San Paolo, la quota in mano agli stranieri è intorno al 70% (rispettivamente 76%, 74% e 70%). La percentuale più bassa registrata dai Bot di casa nostra salva l’Italia dagli umori degli investitori internazionali e dalle loro fughe improvvise. L’Italia può inoltre contare sulla tendenza degli italiani al risparmio, un fatto che fa registrare nel nostro Paese una scarsa propensione al debito privato. Questa caratteristica del sistema Italia è sempre stata considerata fattore di stabilità e ultimamente è rientrata nei parametri dell’Eurozona per giudicare la forza delle economie nazionali.
29 marzo 2011 | 09:47

Bozen. Gli italiani alla Svp: ora cambi la scuola. Le richieste dopo l'apertura di Durnwalder: fatti concreti per la convivenza. BOLZANO. Parole ineccepibili sulla convivenza da Theiner e Durnwalder: «Ora passiamo ai fatti». E' corale e trasversale il commento della politica italiana sul congresso della Svp, celebrato sabato al Kursaal di Merano. C'è anche la lista dei «contenuti con cui riempire le dichiarazioni di Theiner e Durnwalder», per dirla con il vicepresidente provinciale Christian Tommasini (Pd). Il presidente Luis Durnwalder ha detto che dopo i tempi dell'essere gli uni «contro» gli altri, e ora gli uni «accanto» agli altri è tempo di vivere «gli uni con gli altri».
Scuola, toponomastica, monumenti, democrazia, regole generali dell'autonomia: queste le priorità raccolte tra Pd, Verdi, Pdl e Fli. Le occasioni per passare ai fatti ci sono già, negli appuntamenti di questi giorni. Oggi pomeriggio si riunirà il tavolo di lavoro Svp-Pd sulla scuola. Un aggancio perfetto tra le proposte del congresso Svp e la politica quotidiana, si augura Tommasini, assessore alla scuola italiana: «Mi aspetto che venga compreso che la società cambia e servono gli strumenti più efficaci, se vogliamo ragazzi effettivamente bilingui». Passando agli esempi, Tommasini elenca: «Sull'insegnamento veicolare abbiamo ancora un problema di formazione degli insegnanti. Ma non c'è solo la scuola: se è vero che i ragazzi devono mescolarsi, perché non superare i centri giovanili divisi per gruppo linguistico?». Più in generale, «tutti dobbiamo stare attentissimi a non innescare polemiche etniche, che poi scappano di mano».
C'era anche l'assessore Roberto Bizzo (Pd) tra gli ospiti del congresso: «Ho ascoltato le parole di un partito che capisce che è finita la stagione attuale dell'autonomia e serve una innovazione sociale». Sono arrivate risposte ai problemi? Bizzo: «E' già interessante che un partito complesso come la Svp si ponga il problema del futuro in modo esplicito. Certamente ci si aspetta che le intenzioni si traducano in concretezza. Finora l'autonomia ci ha resi più efficienti rispetto ad altre regioni, ma il federalismo livellerà in parte le differenze e servirà uno scatto. O rilanci l'economia e la società nel suo complesso, oppure sei destinato a implodere. Alla Svp questo è chiaro». Elenca Bizzo: «Il nostro modello di autonomia ha protetto i gruppi, a volte a scapito
dell'individuo. Servirà più autogoverno delle popolazioni e più uguaglianza per gli individui».
Se oggi saranno solo gli alleati Pd ed Svp a parlare di scuola e modelli di apprendimento delle lingue, una commissione speciale verrà istituita in consiglio provinciale, insieme alla commissione speciale sulla toponomastica. L'appuntamento è per la sessione che si aprirà il 5 aprile. Sottolinea Alessandro Urzì (Fli), che insieme a Maurizio Vezzali (Pdl Berlusconi per l'Alto Adige) ha concordato con la Svp le due commissioni durante le trattative sull'elezione di Julia Unterberger alla presidenza. Così Urzì: «In Durnwalder vedo una enorme contraddizione tra le dichiarazioni di rinnovata collaborazione tra i gruppi e i comportamenti di chi chiede agli italiani di rinunciare a simboli e cultura. Diano segnali concreti. Nella commissione sull'insegnamento della seconda lingua ascolteremo testimonianze e acquisiremo documentazione. Dopo mi piacerebbe che la Svp rompesse il tabù dell'immersione. Lo stesso vale per la toponomastica: si capisca che serve un approccio più sereno, consapevole dei risvolti anche emozionali di questa materia».
Secondo Michaela Biancofiore (deputata Pdl) la dimostrazione di coerenza che ci si attende dalla Svp «è l'annuncio che i monumenti vanno storicizzati ma non coperti o rimossi. Così avrebbe senso parlare finalmente di coesistenza tra i gruppi, come passo successivo alla convivenza». Anche Riccardo Dello Sbarba (Verdi) punta al concreto: «Più ancora che sul bilinguismo necessario, dove ormai la discussione non è "se" ma "come", l'Obmann Theiner sia conseguente con la sua promessa di maggiore coinvolgimento della cittadinanza. Domani mattina (oggi, ndr) ne ha l'opportunità: voti contro la delibera sull'ampliamento dell'aeroporto». Tornando al centrodestra, così Mauro Minniti (Pdl): «L'autonomia va migliorata attraverso uno sviluppo consapevole delle necessità di tutti». (fr.g.)

Aosta. Bon de chauffage: i nuovi parametri "non hanno equità sociale". AOSTA. Una famiglia valdostana su quattro sarà esclusa dall'attribuzione del "Bon de chauffage", il contributo regionale alle spese per il riscaldamento domestico. Lo ha calcolato Alpe.
Secondo il gruppo consiliare regionale di minoranza, i parametri che la Giunta regionale dovrebbe adottare ufficialmente questa settimana per erogare i contributi nel 2011 non hanno "alcuna logica di equità sociale" ed escluderanno "circa 14.000 famiglie valdostane sui 58.000 nuclei familiari presenti".
In particolare, le critiche sono rivolte all'introduzione della soglia reddituale di 60.000 euro lordi, limite oltre il quale il bonus di 400/450 euro non sarà concesso: "una famiglia di cinque componenti che vive con due modesti stipendi (e magari ha sulle spalle un mutuo per la casa e dei figli all'università) non potrà accedervi, mentre lo percepirà un single che vive agiatamente con un elevato stipendio" rileva Alpe.
Il gruppo sottolinea inoltre che "dalla soppressione dell'esenzione sulle accise dei carburanti la Regione ha ricavato introiti aggiuntivi per circa 35 milioni di Euro, pari al doppio di quello che è effettivamente impegnato (17,7 milioni di Euro) per l'erogazione del Bon de chauffage".

Aostee'. Parere favorevole della II Commissione ai nuovi criteri per i "bon de chauffage". 29/03/2011    AOSTA. I nuovi criteri per l'erogazione dei "Bon de chauffage" hanno ottenuto il parere favorevole della II Commissione "Affari generali" del Consiglio regionale.
Il via libera è giunto a maggioranza e dopo le audizioni dei rappresentanti delle Organizzazioni sindacali e del Codacons.

L'accoglienza non sa far di conto
di Giorgio Barba Navaretti. I governatori e i sindaci fanno a gara nel dichiararsi pronti ad accogliere o respingere i migranti di Lampedusa. A tener distanti gli estremi del veneto Zaia («prendiamo solo profughi, assoluta indisponibilità ai clandestini») e del pugliese Vendola («luogo deputato per l'accoglienza») ci sono calcoli politici e ammicchi populisti a elettori molto diversi. Ma se fosse invece l'economia a guidarne le dichiarazioni, entrambi sarebbero più cauti e forse convergerebbero su un giusto mezzo.

L'esito probabile di quanto sta accadendo in questi giorni sulle coste del Mediterraneo è un aumento permanente di nuovi immigrati in cerca di lavoro. Le immagini in presa diretta televisiva di giovani uomini con un sacchetto sulle spalle, che saltano le esili reti di cinta dei campi d'accoglienza per disperdersi nelle campagne non lasciano molti dubbi in merito. Le rigorose misure di rimpatrio non andranno molto oltre il raschiare la pentola. E anche la distinzione tra rifugiati politici e clandestini nel lungo periodo, dal punto di vista del mercato del lavoro, non è di grande rilievo. I primi presto o tardi dovranno lavorare e i secondi in questi frangenti sono quasi impossibili da identificare.
Il conto economico di Zaia e Vendola deve dunque conciliare il costo dell'accoglienza nel breve periodo con le possibilità d'inserire gli immigrati nel mercato del lavoro.

I dati sulla distribuzione geografica della popolazione straniera in Italia ci dicono che le condizioni dei due governatori sono molto diverse. Mentre in Veneto, come in tutte le regioni del Nord e del Centro, la proporzione degli stranieri rispetto alla popolazione residente è di circa il 10%, in Puglia è circa il 2 per cento. Dato che gli immigrati vanno soprattutto dove c'è maggiore possibilità di lavorare, è molto probabile che domani i nuovi arrivati sciameranno verso il Nord del Paese e oltre-frontiera.
Il futuro economico dei rifugiati politici deve dunque essere governato dalla politica migratoria nazionale, con l'obiettivo d'inserire i profughi più rapidamente possibile nel mercato del lavoro, possibilmente in modo equilibrato sul territorio.
Ma la politica migratoria italiana non è adeguata da questo punto di vista. La combinazione tra la restrizione dei flussi in arrivo e amnistie periodiche rende difficile il match tra domanda e offerta di lavoro e fa lievitare il numero dei clandestini, che in Italia sono oltre il 17% della popolazione residente straniera, ben più che in altri Paesi europei. La clandestinità aumenta le tensioni sociali, alimenta l'economia sommersa e favorisce la criminalità. È soprattutto per questa ragione che la forte concentrazione degli immigrati al Nord determina problemi di congestione difficili da risolvere e che a loro volta rafforzano l'appeal politico di misure restrittive.

Gestire i flussi migratori vuol dire in sostanza introdurre strumenti selettivi sui permessi di soggiorno volti a rafforzare l'incontro tra le competenze dei lavoratori stranieri e le richieste del mercato del lavoro e minimizzare i tempi e i numeri dei clandestini.
Che senso ha parlare di selettività di fronte a un'emergenza umanitaria, di fronte a migliaia di persone che chiedono asilo politico e che non possono essere rispedite nel loro paese? Ne ha comunque molto. Se in Italia avessimo in passato riflettuto sugli strumenti necessari a conciliare domanda e offerta di lavoro immigrato, avremmo oggi delle basi informative che ci permetterebbero di trovare più rapidamente e con maggiore efficacia lavoro anche per gli asylum seekers.

Zaia ha tanti immigrati perché sul suo territorio ci sono più imprese che li richiedono di quanto non ce ne siano in Puglia. Ma una politica migratoria più attenta alle esigenze del mercato del lavoro potrebbe favorire una maggiore permanenza dei nuovi migranti in regioni come la Puglia, dove c'è comunque una maggiore possibilità d'inserire lavoratori stranieri di quanto non indichino i dati aggregati dell'Istat.
Il ministro Maroni, giustamente, invoca l'aiuto europeo nella gestione dei rifugiati. Dovrebbe però spingersi oltre a favore di un'armonizzazione delle politiche migratorie nella Unione Europea. Il problema dei rifugiati del Nordafrica non sarà più solo nostro, di Lampedusa, di Vendola o di Zaia, nel momento in cui sarà possibile trasferirli nell'Unione, dove c'è bisogno del loro lavoro, evitando drammatici fenomeni di congestione.
Il ragionamento economico, insomma, ci ricorda che l'emergenza umanitaria si tradurrà presto in un problema di mercato del lavoro che va oltre i confini delle nostre regioni. Ma che allo stesso tempo tutte le regioni, sia al Nord che al Sud, anche nell'emergenza, beneficerebbero moltissimo di una politica europea coordinata che concili domanda e offerta di lavoratori stranieri.
29 marzo 2011

Udin. Profughi in Friuli Venezia Giulia: s’infiamma il dibattito politico
di Paolo Mosanghini
Tondo: nessuna comunicazione. Il Pd: sugli arrivi dall'Africa la Regione faccia la propria parte
UDINE. «L'apporto umanitario lo prenderemo senz'altro in considerazione, il resto lo vedremo. È tutto ancora da costruire. Nei prossimi giorni sarà tutto più chiaro». Il presidente della Regione Friuli Venezia Giulia, Renzo Tondo, commenta così le indiscrezioni secondo le quali alcune centinaia di profughi dell'Africa - Libia e altri paesi in fermento - potrebbero essere ospitati in regione, in particolare in strutture a Travesio, in provincia di Pordenone, e a Sgonico (Trieste). I primi giorni della prossima settimana il ministro dell'Interno Roberto Maroni renderà noto il piano delle emergenze per dare accoglienza ai profughi.

«Nella nostra regione facciamo già fronte a emergenze ogni giorno, abbiamo il Cie e il Cara. Ne abbiamo già abbastanza. Inoltre diamo anche ospitalità alla base Nato, anche questo è un servizio», chiarisce l'assessore regionale alla sicurezza Federica Seganti. «Se c'è un'emergenza ognuno farà la sua parte, a cominciare dalle regioni che non hanno avuto ancora il peso che abbiamo sostenuto noi», aggiunge.

«E' ovvio - dice ancora l'assessore - che se si fa riferimento alle caserme noi ne abbiamo tante, ma tutto sarà valutato tenendo conto dei criteri in base alla popolazione». E cioè le regioni potrebbero accogliere mille profughi ogni milione di abitanti.

Il coordinatore regionale di Fli, Paolo Ciani, esprime «perplessità» su voci non confermate di ospitare i profughi in strutture militari dismesse. «Il precedente di Paluzza con centinaia di profughi provenienti dall'Albania alcuni anni fa - prosegue Ciani - deve far riflettere affinché si evitino episodi di violenza e tensione con la popolazione locale». Ciani propone che gli eventuali mille rifugiati previsti per il Friuli Venezia Giulia «siano spalmati in 20 caserme esistenti, con 50 persone per caserma. I costi sarebbero sopportabili, in strutture presidiate, e vi sarebbe un controllo diretto del Ministero della Difesa e degli Interni, e soprattutto non graverebbe alcun costo - conclude - sulle comunità locali».

Alessia Rosolen, consigliere del gruppo misto, ha presentato un'interrogazione sul tema: «Va scongiurata l'ipotesi che gli immigrati trovino posto nelle caserme dismesse. Non possiamo distogliere risorse finanziarie e umane per gestire una situazione che rischia di protrasri nel tempo».

Per l'europarlamnetare del Fli Giovanni Collino «la Ue deve farsi carico della questione degli sbarchi in maniera concreta ed efficace. Per questo è opportuno pensare allo status di "rifugiato europeo"». L'europarlamentare ha interrogato la Commissione sulla questione, suggerendo un nuovo approccio di identificazione del rifugiato. Quello appunto che propone, pur nel rispetto della regolazione dei flussi migratori in mano agli Stati membri, uno status di rifugiato europeo, che consenta all'Europa di «fare un passo decisivo nella gestione del problema dell'immigrazione, inserendolo nelle politiche sociali e di solidarietà generazionale necessarie a stimolare la crescita comunitaria».

Forte è la denuncia è del consigliere regionale del Pd Franco Codega: «È inaccettabile è che si faccia sempre di ogni situazione un'occasione per acquisire consenso elettorale a buon mercato. La nostra regione è chiamata a fare la propria parte per venire incontro all'emergenza dei profughi che vengono dal Nordafrica, tutti hanno inneggiato alla “primavera” araba e alla fine di alcune dittature dei paesi dell'altra sponda del Mediterraneo, però nessuno vuol farsi carico di parte delle conseguenze».

Codega poi sottolinea come la situazione sia complessa e vada trattata con equilibrio tenendo presenti tutti i valori in campo: la solidarietà, il rispetto delle norme internazionali, la sicurezza dei nostri cittadini. «Il presidente Tondo non dovrebbe in alcun ascoltare la Lega: le proposte leghiste infatti, si veda tutto lo sconquasso che sta succedendo con il sistema dei servizi sociali, non tengono minimamente conto dei delicati fattori in campo».

Udin. Profughi africani in Fvg: tendopoli a Clauzetto e Sgonico. Il Viminale ha scelto i 13 siti: due nella nostra in regione per ospitare mille profughi. Lega Nord pronta alle barricate
UDINE. In Friuli Venezia Giulia saranno inviati circa mille degli extracomunitari - probabilmente tutti tunisini - che in questi giorni hanno invaso Lampedusa: 500 a Clauzetto di Pordenone e altrettanti a Sgonico.

I numeri non sono stati ancora ufficializzati, ma è già polemica: la Lega Nord di Pordenone è pronta ad alzare le barricate per evitare «l'ingresso in regione dei clandestini» anche perchè, secondo indiscrezioni, a questi due siti se ne potrebbe aggiungere un altro: la caserma Monti di Pordenone.

L'ufficializzazione dei siti era attesa per oggi, ma ieri sera il ministro Maroni ha anticipato il piano di evacuazione dell'isola siciliana, allo stremo e invasa da oltre cinquemila tunisini. Un'accelerazione dovuta alla situazione ormai fuori controllo. Il piano, su cui stanno lavorando i tecnici dell'unità di crisi del Viminale, sarà domani sul tavolo del Consiglio dei ministri. Per svuotare Lampedusa, dunque, il ministero ha deciso che domani arriveranno nell'isola cinque navi passeggeri e la San Marco della Marina Militare, per un totale di diecimila posti. L'obiettivo è quello di portare via tutti i migranti, sperando che non ne arrivino altri.

Per ospitare gli oltre cinquemila tunisini, il Viminale ha deciso di individuare una serie di aree dove allestire le tendopoli e utilizzare alcuni dei 13 siti messi a disposizione dalla Difesa che, nelle intenzioni del governo, avrebbero dovuto accogliere soltanto i profughi provenienti dalla Libia: tra caserme e aree dismesse ci sono, in Friuli Venezia Giulia, Clauzetto e Sgonico, quindi Trapani, Marsala e Torretta (Palermo) in Sicilia; Manduria (Taranto), Carapelle (Foggia) e San Pancrazio Salentino (Brindisi) in Puglia, Boceda (Massa Carrara) in Toscana, Monghidoro (Bologna) in Emilia Romagna, Cirè e Front (Torino) in Piemonte, Castano Primo (Milano) in Lombardia.

Due campi sono di fatto già in funzione: la tendopoli di Manduria, dove ci sono circa 600 migranti e, oggi, arriveranno con nave Grimaldi altri 827, e quella nell'ex aeroporto di Chinisia a Trapani, dove si sta predisponendo l'accoglienza per 500 persone.

Il sottosegretario all'Interno Alfredo Mantovano ha assicurato che a Manduria andranno al massimo 1.500 migranti» e che è «intenzione del governo - ha confermato Mantovano - far sì che il carico di questa situazione sia distribuito su tutto il territorio nazionale».

Subito dopo il Consiglio dei ministri è in programma l'incontro al Viminale con Regioni, Province e Comuni: sarà quella l'occasione per ribadire che per superare l'emergenza serve il contributo di tutti, nessuno escluso.

Ma il Carroccio pordenonese è già sul piede di guerra: ieri sera si è tenuto il direttivo provinciale con al centro, appunto, l'emergenza profughi. Dalle informazioni giunte ai dirigenti del Carroccio, al sito di Clauzetto (il poligono militare dove sarebbe allestita una tendopoli) si aggiungerebbe quello della caserma Monti, nella zona della Comina a Pordenone. Una struttura militare non utilizzata, nell'elenco dei beni dismissibili, che sarebbe della partita. Il Carroccio è pronto ad alzare le barricate.

La Prefettura, invece, ieri sera era completamente al buio, visto che non aveva ricevuto comunicazioni ufficiali dal ministero, né circa la tendopoli di Clauzetto, né sul possibile coinvolgimento della Monti.

Milano. Immigrati, la Moratti: Milano ha già dato
«Non c'è posto per altri profughi. Qui metà dei rifugiati di tutta Italia». Boni: clandestini a casa
MILANO - «Milano è una città che ha già dato e sta già dando molto e quindi credo che si debba inserire questo criterio nella ripartizione che il ministro Maroni sta chiedendo alle diverse regioni». Lo ha detto il sindaco di Milano, Letizia Moratti, commentando la decisione del ministero dell'Interno di ripartire i profughi in arrivo dal nord Africa tra le diverse regioni italiane. «Penso sia corretta la ripartizione che il ministro intende fare tra le diverse regioni, escluso l'Abruzzo, che ha già sostenuto il carico del terremoto - ha detto Moratti - ma penso sia giusto anche inserire un altro criterio che è quello di vedere quali sono le città e le regioni che hanno già dato in maniera molto significativa riguardo il tema dei profughi e degli immigrati». «A Milano c'è il 50% dei rifugiati politici di tutta Italia e quindi è una città che si dimostra ancora una volta aperta e accogliente ma ha già dato e sta già dando molto» ha concluso Moratti. In perfetta sintonia il presidente della Provincia di Milano, Guido Podestà: «Ribadisco che la Grande Milano non può offrire accoglienza agli immigrati che stanno fuggendo dai sommovimenti in atto nel Nordafrica - ha detto -. Confermo, ancora una volta, che non abbiamo le risorse sufficienti per poter fronteggiare, a tempo indeterminato, un’emergenza di queste proporzioni».

LA REPLICA A LOMBARDO - Le questioni legate all'immigrazione nel Mediterraneo e all'accoglienza nelle varie regioni, hanno prevedibilmente tenuto banco anche nella politica locale. Dove l'arrivo di profughi e immigrati suscita preoccupazione e qualche malumore. «È del tutto evidente che ogni immigrato clandestino dovrà essere rispedito al proprio Paese d'origine, ma bisognerà anche fare in modo che l'Europa si assuma le proprie responsabilità anche nella gestione dei profughi», sostiene Davide Boni (Lega Nord), presidente del Consiglio della Lombardia, commentando i continui sbarchi di migranti a Lampedusa. Il politico lombardo non ha mancato di lanciare una stoccata al governatore della Sicilia, Raffaele Lombardo, che ieri aveva proposto di allestire tendopoli anche «in Valpadana». «Nonostante Lombardo voglia mistificare la realtà, la Sicilia e l'isola di Lampedusa saranno anche le porte dell'Europa, ma la Lombardia e il Nord - conclude Boni - hanno sempre rappresentato il salotto e la cassaforte dove si è sempre attinto per mantenere gli immigrati».

Anche per il vicesindaco Riccardo De Corato, in tema di accoglienza di immigrati, «Milano ha già dato». «La città ospita 212 mila regolari, il 16,1% della popolazione residente, e 31 mila clandestini, il 64% della provincia e il 27% della Lombardia. E, secondo gli ultimi dati della Caritas, è la prima provincia per numero di immigrati, 407 mila, più di Roma che ha un territorio ben più esteso», ha detto De Corato, replicando al governatore Lombardo. «Semmai Milano è pronta a "restituire" - ha concluso -. Visto che ospita il 10% di stranieri regolari in più rispetto alla media nazionale, che è del 6,5%. E per gli irregolari nessuna città in Italia ha questi numeri. Quando ci sarà un riequilibrio di queste cifre, Milano potrà tornare a ricevere. Per ora ha già dato».

Formigoni invita a «fare ciascuno la propria parte, in un concerto europeo». «Laddove c'è già una concentrazione alta di stranieri - ha detto il governatore - se ne dovrà tenere conto, comunque sia dovremo fare la nostra parte, non in una logica di cortile, ma in quella di un paese moderno che sa farsi carico di un'emergenza internazionale».

Reggio Emilia. «Se la Regione dirà sì, i profughi a Cella». Nonostante i tentativi di smentita, Delrio conferma i trasferimenti da Lampedusa.
di Marco Martignoni
REGGIO. «Se Errani accetterà le proposte di Maroni, Reggio sarà coinvolta nel piano d'emergenza per ospitare i profughi trasferiti da Lampedusa». Il sindaco Graziano Delrio, l'indomani dell'aut aut nei confronti del governo, è esplicito. Le sue parole sono chiarissime, anche perché dopo che la notizia di un possibile arrivo di profughi è trapelata dalle pagine della Gazzetta, il sindaco non si è trovato impreparato. Non solo perché da almeno tre settimane - su un argomento così delicato - i contatti tra Comune e prefettura si sono fatti sempre più «intensi», ma anche perché, con la medesima energia, si sono avviati rapporti ancora più stretti con la Regione, in vista degli appuntamenti della prossima settimana. In agenda, infatti, c'è l'incontro tra il governatore Vasco Errani e il ministro Maroni per dettare tempi, modi e risorse finanziarie per dare il là all'arrivo dei profughi nella nostra regione.

C'è anche un altro sindaco che non si è trovato impreparato. E' Marzio Iotti, sindaco di Correggio, che, probabilmente, sarà coinvolto nel piano d'emergenza, proprio come avvenne all'inizio di agosto del 2008. A Correggio, nell'ex caserma dei carabinieri, potrebbero arrivare gli stranieri destinati alla nostra provincia, ma in esubero nella struttura della protezione civile di via Cella all'Oldo, alle porte della città. L'unica in grado di ospitare gli stranieri in arrivo da Lampedusa. E anche l'unica messa a disposizione dal sindaco Delrio.

E vista la delicatezza della situazione - nonostante il sindaco Delrio fosse comunque stato avvisato per tempo con una telefonata della prefettura - in fretta sono arrivate smentite in merito alle anticipazione della Gazzetta. In primis dalla presidente della Provincia Sonia Masini, che in una nota - condita anche da un pizzico di ironia - ha subito precisato. «E' assolutamente prematuro parlare di profughi libici in arrivo nella nostra provincia ed in particolare nel polo logistico della protezione provinciale all'ex cantiere Tav di Villa Cella. Il piano non è stato ancora realizzato e alla nostra Provincia non è stata avanzata alcuna richiesta di collaborazione. Se e quando ci verrà chiesto di partecipare a questa operazione umanitaria, non ci sottrarremo purchè siano garantiti la temporaneità dell'intervento, il controllo assoluto delle persone che dovranno eventualmente essere ospitate sul nostro territorio. Ma, al momento, non è allo studio alcun piano che preveda l'assegnazione alla provincia di Reggio di 5, 50 o 500 profughi». Ma chi invece doveva sapere, era stato allertato venti giorni fa, direttamente dal prefetto. Anche perché la legge è molto chiara e precisa: in ogni comune il responsabile della Protezione civile non è il presidente della Provincia, ma il sindaco. Del resto accadde così anche due anni e mezzo fa, quando l'allora prefetto Bruno Pezzuto telefonò al sindaco anticipandogli i progetti di Maroni. Fu poi lo stesso Delrio ha dire «no», perché non gli furono date le necessarie garanzie. E proprio grazie a quel rifiuto, Sonia Masini potè dormire sonni tranquilli. Vigilanza e soldi E a proposito di garanzie, anche ieri il sindaco ha ribadito che se Errani accetterà le condizioni di Maroni, dovrà farlo mettendo paletti ben precisi. A partire dalla verifica ad un tavolo comune con la Regione del piano nazionale in cui debbono essere precisati i tempi, passando per le strutture necessarie e per finire con la sicurezza e l'organizzazione dell'accoglienza. Oltre che il coinvolgimento di tutte le città e le amministrazioni, senza distinzione di colore politico, «quindi anche le città leghiste e del centrodestra che si smarcano vergognosamente continuando a cavalcare l'odio».

A conferma che la prossima settimana sarà cruciale, l'intervento dell'assessore regionale, Paola Gazzolo. «Solo all'arrivo del piano nazionale di emergenza si potranno individuare i luoghi in cui verranno accolti i profughi dalla Libia». L'assessore alla Protezione civile dell'Emilia-Romagna poi ribadisce così che la Regione «è in attesa che il Governo trasmetta il piano nazionale di emergenza umanitaria per i profughi libici. Dopodichè lavorerà insieme ad Anci e Upi per dare la collaborazione richiesta alle prefetture e costruire la mappa dell'ospitalità anche sulla base dei criteri proposti dal ministro. La mappa sarà il frutto della leale e solidale cooperazione fra gli enti». E nella nostra regione, secondo le stime fatte dal Viminale, dovrebbero essere circa 5mila gli stranieri trasferiti dalla Sicilia.

Profughi, terza tendopoli a Pisa
Dopo Manduria e Trapani, l’area individuata - che non appartiene alla Difesa - sarebbe nel comune di Coltano
PISA - Sarà in Toscana, in provincia di Pisa, la terza tendopoli che verrà allestita per ospitare i migranti sbarcati a Lampedusa. Dopo Manduria e Trapani, secondo quanto si apprende, l’area individuata - che non appartiene alla Difesa - sarebbe nel comune di Coltano, una frazione di Pisa.
«Noi con questa scelta non c’entriamo nulla». È questa la reazione del presidente della Toscana Enrico Rossi dopo la notizia dell’allestimento di una tendopoli a Coltano. «È una scelta d’imperio del Governo». «Avevamo dato la disponibilità all’accoglienza - prosegue Rossi - ed eravamo pronti. Per martedì era già stata convocata una riunione con sindaci e presidenti di provincia, associazioni del volontariato insieme al prefetto di Firenze, proprio per esaminare un primo elenco di possibili luoghi dove organizzare l’ospitalita per i profughi». «Il governo invece agisce d’imperio e decide per conto suo, senza consultare nessuno. In questo modo - conclude Rossi - non ci può essere alcuna collaborazione».

«È molto negativo che su vicende come questa venga data una notizia senza alcun confronto preventivo con il Comune. È un metodo barbaro». Lo ha detto il sindaco di Pisa, Marco Filippeschi, commentando l’ipotesi che a Coltano, frazione del comune pisano, possa essere realizzata la terza tendopoli destinata a ospitare i migranti sbarcati a Lampedusa. «Si dice solo che sorgerà su un’area che non appartiene alla Difesa - ha aggiunto Filippeschi - ma non si sa quale perchè nessuno ci ha mai detto niente di ufficiale e nessun confronto è stato avviato prima con il territorio, nonostante noi avessimo già messo in guardia le autorità dalle criticità che abbiamo. Senza contare che Coltano è un’area che appartiene per intero al parco naturale di San Rossore».

«Abbiamo dato un’okay di massima al piano presentatoci dal ministro Maroni. Come Toscana siamo pronti e abbiamo individuato spazi in cui accogliere migranti, profughi. Puntiamo soprattutto a spazi piccoli, piccole strutture per un massimo di 200 persone, meglio ancora se meno, che saranno assistite dal volontariato. La dinamica del lager non funziona perchè alimenta tensioni, scontri con la polizia. Farò una riunione importante con i Comuni». Martedì mattina si terrà il summit in prefettura a Firenze tra Rossi, il presidente delle province e i sindaci che dovrebbero ospitare i profughi.

Lo ha detto il presidente della Toscana, Enrico Rossi, durante la trasmissione Life su La7 dedicata all’emergenza di Lampedusa. Secondo il presidente della Toscana «questa vicenda dell’immigrazione verso l’Italia dal Maghreb è stata molto gonfiata. Ho letto che siamo al 5, massimo 10% di tutta l’immigrazione che viene nel nostro Paese, quindi molto ridotta. L’errore più grave è aver trasformato Lampedusa in una sorta di imbuto. Un caso che rischia di creare nel Paese paura e ansia». «Si è parlato di invasione, si sono dipinti scenari apocalittici - ha proseguito Rossi - Bisogna stare molto attenti alle parole perchè si crea una tensione che rende impossibile accogliere anche alle Regioni e anche ai Comuni che hanno dato disponibilità». «Chi - ha chiosato Rossi - può andare dopo questo terrorismo linguistico a parlare con una comunità locale o con un sindaco?». Rossi ha anche detto di voler proporre al Consiglio regionale della Toscana l’istituzione di un ufficio specifico che si occupi dei rapporti con i Paesi da cui provengono i flussi migratori.

«Si tratta di una zona in degrado assoluto, un edificio pericolante e inadatto per accogliere profughi». Così, Sandro Donati (Pd), sindaco di Mulazzo (Massa Carrara) esprime tutta la sua contrarietà sulla scelta del Governo che ha individuato nell’ex polveriera in Lunigiana uno dei 13 siti per ospitare una parte dei migranti sbarcati a Lampedusa. «Oggi mi sono recato in prefettura a Massa Carrara per manifestare il mio dissenso e quello degli abitanti di Mulazzo che oltre ad allarmarsi per questioni di carattere sanitario, sono anche impauriti. Poi ho fatto anche un sopralluogo a Boceda assieme ai dirigenti della Croce Rossa e i vigili del fuoco. Purtroppo temo che verrà fatta una tendopoli - prosegue il sindaco -: del resto sarà durissima fermare l’ Esercito se intende realizzare una struttura in un’area di sua proprietà». «Siamo di fronte a un fatto compiuto, però mercoledì voteremo in consiglio comunale un documento di disapprovazione. A Boceda - ha aggiunto Donati - non c’è nulla, non c’è acqua, servizi igienici, luce. Sono anni che anche i paracadutisti della Folgore hanno abbandonato questa enorme area, un’ex polveriera della Seconda guerra mondiale».

Strigliata ai bellunesi, tutti in coro contro Galan
Bottacin: «È un po' confuso. Attendo i suoi contributi». BELLUNO. «Ritengo gravissime le affermazioni di Galan: lui, veneto, non conosce la nostra situazione economica, che è invece nota ai suoi colleghi». Il presidente della Provincia di Belluno, Gianpaolo Bottacin, non ci sta. Le parole contro i bellunesi (definiti ingrati e lagnosi) del neo-ministro alla Cultura ed ex-presidente della Regione Veneto, Giancarlo Galan, fanno scattare la replica del presidente di Palazzo Piloni. Con lui si schiera anche il consigliere regionale Sergio Reolon, "nemico storico" dell'esponente del Pdl. «Quanto detto da Giancarlo Galan mi ha sorpreso e amareggiato. Con le sue dichiarazioni, ha dimostrato di non conoscere la situazione della nostra provincia: proprio lui, rappresentante veneto nel Governo ed ex-presidente della nostra Regione». «Da quanto riportato sulla stampa locale», spiega Bottacin, «mi è parso di capire che il ministro abbia un po' di confusione in testa: il Fondo Brancher non è il Dellai-Galan e gli otto milioni che mancano a Palazzo Piloni non sono un buco né tantomeno uno sforamento del bilancio, bensì un pesante taglio ai trasferimenti statali che ci è piombato sulla testa. Senza quei soldi, non è possibile erogare ai cittadini quei servizi che sono obbligatori per legge». «Visto che per lui gli otto milioni "non sono nulla", mi aspetto che faccia arrivare quella cifra per iniziative culturali di cui abbiamo bisogno, senza finanziare sempre le grandi città», prosegue Bottacin. «Noi i progetti li abbiamo, lui prepari i soldi. Anche se prima vorremmo avere quelli per tenere acceso il riscaldamento nelle scuole dei nostri ragazzi». «Sul problema dei profughi libici, poi, credo sia bene ricordare al ministro che il Veneto è la terra con i maggior numero di volontari, dove la beneficienza è di casa. Mi chiedo quindi se Galan sia disposto ad ospitarli nella sua dimora, facendo pagare al Veneto l'ennesimo tributo, come vorrebbe proprio la sua parte politica che si è pure detta favorevole a ospitare da noi le centrali nucleari. Non capisco l'atteggiamento del rappresentante veneto: agli altri i soldi e a noi i sacrifici?». Duro anche il consigliere regionale Sergio
Reolon, autore di veri e propri scontri con Galan, ai tempi della sua presidenza provinciale: «Non capisco proprio perché i bellunesi dovrebbero ringraziarlo. Forse per aver firmato con Oscar De Bona nel 2001 il patto per l'autonomia bellunese? Forse per aver rifirmato con il sottoscritto, nel 2005, in piena campagna elettorale, un documento analogo? Il suo era un impegno messo nero su bianco, che non ha mai provato a onorare. Quel poco che la provincia di Belluno ha ottenuto in 15 anni di governo Galan, lo ha conquistato grazie all'iniziativa di alcuni consiglieri regionali e non certo per la volontà e la disponibilità dell'ex governatore. Credo che la sua sia un'esternazione fuori luogo». Reolon rincara la dose: «Galan insulta chi si batte con grande dignità e determinazione per veder riconosciuti i propri diritti». E sulle parole contro i comitati referendari: «Non sono commentabili, la spocchiosa arroganza di Galan non conosce limiti».

San Stino. Venezia. Niente soldi per gli alluvionati rivolta nel Veneto orientale. L'assessore Stival annuncia che i 50 milioni stanziati per questi scopi sono stati usati per altre spese, e così esplode il malcontento dopo le inondazioni di dieci giorni fa. A Cinto Caomaggiore il sindaco pensa alla class action contro il Genio civile.
di Marta Camerotto
SAN STINO. Il rischio idraulico è uguale al 1966 ma nelle casse della Regione non c'è nulla. Intanto la Provincia aspetta e fa programmi. I comuni sono nella miseria nera e il consorzio di Bonifica ha pronti i suoi progetti che attendono stratosferici finanziamenti. E' questa la tragica realtà che è emersa ieri mattina durante il convegno organizzato dal circolo di Legambiente «Pascutto-Geretto» sul consumo del suolo e il rischio idraulico nel Veneto Orientale. «Siamo di fronte ad un fabbisogno di quasi 4 miliardi di euro nel Veneto - ha detto chiaramente ieri l'onorevole del Pd, Rodolfo Viola - in questa situazione non serve pensare alle previsioni e ai progetti, quelli ci sono già, i tecnici, il consorzio di bonifica ci hanno già detto cosa dobbiamo fare, mancano invece i soldi. E' evidente - ha precisato l'esponente del Pd - che c'è una sproporzione grandissima tra le necessità e le risposte che sono state date. C'è bisogno di un nuovo passo della politica, dobbiamo renderci conto che finora la Regione ha risposto con un 0,37% delle risorse rispetto al fabbisogno. Inutile chiedere gli aiuti al Governo - ha spiegato Viola - perché in questo momento i soldi non li mette e c'è una responsabilità politica ben precisa». La situazione sul fronte idraulico è molto grave. Gli interventi di emergenza della protezione civile sono sempre più frequenti e il conto dei danni subìti si allunga di zeri. «Sui bilanci della Regione vengono previsti sempre tra i 30 e i 50 milioni di euro per fronteggiare il rischio idrogeologico - ha spiegato ieri amareggiato l'assessore regionale alla protezione civile Daniele Stival - Il problema è che quando poi c'è un'urgenza i soldi vengono quasi sempre prelevati da questo capitolo che non viene mai rimpinguato ed ora ci troviamo a trovare soluzioni ad una serie di criticità derivanti soprattutto dalla cementificazione e dalla costruzioni di zone industriali senza ascoltare il parere negativo espresso a sua volta dal consorzio di bonifica». Intanto il comune di San Stino, che è uno tra i più a rischio alluvioni, cerca di limitare le nuove costruzioni, visto che non ha soldi da investire per la difesa del suolo. «Nel Pat - ha detto ieri il sindaco Luigino Moro - non abbiamo previsto l'ampliamento di zone industriali e le norme tecniche obbligano a costruire in un certo modo, per il resto abbiamo già chiesto alla Regione lo stato di crisi e di calamità per gli allagamenti del 17 marzo scorso sperando che i soldi arrivino». Nonostante ciò la Regione fa sapere che è quasi pronto il Piano strategico di interventi per la mitigazione del rischio idraulico i cui contenuti di massima erano stati presentati ai Comuni all'inizio dell'anno, che hanno inviato le loro osservazioni.

Nessun commento: