mercoledì 4 maggio 2011

Le sabbie mobili dell'Eurozona

di Martin Wolf – Il Sole 24 Ore
© THE FINANCIAL TIMES LIMITED 2011
Perché la Spagna paga interessi più alti del Regno Unito sul suo debito pubblico? La risposta a questa domanda è illuminante: far parte della moneta unica rende fragili i conti pubblici di un Paese.


È un fattore implicito nel modo in cui è stato costruito l'euro: i membri dell'Eurozona non sono né Stati sovrani né membri di una federazione. La grande sfida per la zona euro è risolvere questa contraddizione.
In un importante studio, Paul de Grauwe dell'Università di Lovanio sottolinea questo contrasto fra la situazione della Spagna e quella del Regno Unito. Il rendimento sui titoli di Stato decennali spagnoli è più alto di quasi due punti percentuali del loro equivalente britannico, il 5,3% contro il 3,5%. È una differenza più significativa di quello che può sembrare. Presupponendo che sia la Banca d'Inghilterra sia la Banca centrale europea riescano a raggiungere il loro obbiettivo di inflazione del 2%, il tasso di interesse reale della Spagna è pari a più del doppio di quello del Regno Unito.

Una simile differenza può essere spiegata dalla situazione dei conti pubblici dei due Paesi? Non del tutto: fino almeno al 2016 la Spagna avrà un rapporto fra debito pubblico (sia netto che lordo) e prodotto interno lordo inferiore a quello del Regno Unito, e fino al 2014 avrà anche un deficit di bilancio più basso, e fino al 2013 un deficit di bilancio primario (al netto del pagamento degli interessi) più basso.
Certo, secondo le previsioni del Fondo monetario internazionale, il deficit britannico nel 2013 si attesterà all'1,3% del Pil, contro il 4,6% della Spagna. E 2,9 punti percentuali di questo divario sono motivati dalle differenze sul versante del deficit primario. Anche questo però non è dovuto unicamente a una differenza sul fronte dei conti pubblici, perché l'economia spagnola secondo le previsioni dovrebbe crescere in media, tra il 2011 e il 2016, dell'1,6%, mentre quella britannica del 2,4%.

Come osserva de Grauwe, la liquidità dei mercati del debito è fondamentale. Se, ad esempio, uno Stato rinnova il suo debito pubblico ogni sei anni e presenta un disavanzo di bilancio circa il 3% del Pil, ogni anno ha la necessità di emettere nuovi titoli di debito per un quinto del Pil. Supponiamo che nessuno compri più questi titoli: tutto si bloccherebbe e lo Stato diventerebbe insolvente. Supponiamo che i creditori pensino che questo rischio sia reale: si rifiuterebbero di acquistare i titoli, i tassi di interesse salirebbero alle stelle e l'economia crollerebbe. Ma non ha senso nemmeno comprare questi titoli a un tasso di interesse più alto: più è alto il tasso interesse, maggiori sono le probabilità che l'emittente sia costretto al default.

Se ci fossero dubbi sulla liquidità del Governo di Londra, i creditori venderebbero titoli di Stato in cambio di depositi in sterline, quindi potrebbero vendere questi depositi in sterline in cambio di valuta estera. La sterlina si deprezzerebbe, ma i nuovi proprietari di depositi di sterline avrebbero la necessità di comprare attività in sterline, forse anche titoli di Stato. Se le cose si mettessero male, la Banca d'Inghilterra potrebbe venire in soccorso del Governo finché il risanamento dei conti pubblici non producesse i suoi effetti. Inoltre, il deprezzamento della sterlina stimolerebbe le esportazioni, migliorando le prospettive di bilancio. Il Regno Unito, in conclusione, non rischia una crisi di liquidità sul suo debito denominato in sterline, e se dovessero sorgere dubbi sulla sua solvibilità probabilmente si tradurrebbero in utili aggiustamenti.
Per la Spagna, però, i dubbi sulla liquidità sono facilmente preventivabili e rischiano di creare aspettative che si autorealizzano, con un incremento dei tassi di interesse e una fuga dei capitali dal Paese. Il risultato sarebbe una situazione di illiquidità sia sul mercato dei titoli di Stato sia nel sistema bancario. Il Paese iberico, di fatto, è diventato come un Paese in via di sviluppo che prende in prestito soldi in valuta estera, tranne per il fatto che la Bce finanzia il sistema bancario, e questo la rende molto simile al Fondo monetario: è determinata a riavere indietro i suoi soldi.

Amleto dice che niente è buono o cattivo, è il nostro pensiero che lo rende tale. Nel caso del debito pubblico è un'esagerazione: un Paese con un debito, poniamo, quattro volte superiore al Pil avrà una crisi dei conti pubblici, mentre un Paese con un debito inesistente non l'avrà. (Anche messa così è troppo semplice, tenendo conto del sistema bancario: il debito netto dell'Irlanda nel 2007 era pari appena al 12% dei Pil.) Ma fra questi due estremi ci sono molti possibili esiti, in gergo "equilibri multipli". Ciò che pensa la gente crea la realtà: ai tassi di interesse correnti, il Regno Unito può permettersi di avere un disavanzo di bilancio primario e al contempo stabilizzare il debito pubblico, ma la Spagna per fare la stessa cosa ha bisogno di un forte surplus di bilancio primario.
Inoltre, dopo una crisi chi ne è rimasto vittima deve recuperare competitività, e questo è un processo lento se si fa parte di un'unione monetaria. Ed è anche un processo che aggrava il fardello del debito in termini reali: l'aggiustamento è intrinsecamente destabilizzante.
La fragilità di Eurolandia è innata. E considerando i legami finanziari all'interno dell'unione, la fragilità di uno è la fragilità di tutti. Che cosa può fare Eurolandia per correre ai ripari? Vedo tre alternative: accettare la fragilità, diventare più omogenea o avanzare verso un'Unione molto più stretta.

La prima opzione equivale far funzionare la zona euro come il vecchio gold standard: un mondo dove gli Stati non intervengono a protezione del sistema finanziario e la politica di bilancio è brutalmente congiunturale e senza compensazioni di politica monetaria. Sarebbe un "grande balzo all'indietro" nel XIX secolo. Trovo difficile immaginare che gli europei dei giorni nostri possano accettare una soluzione del genere.
La seconda opzione consisterebbe nel limitare la zona euro a Paesi talmente simili tra loro da rendere improbabili divergenze significative. Ma muoversi in questa direzione implicherebbe lo shock di una parziale frattura, e i Paesi in surplus strutturale subirebbero i contraccolpi di un verosimile apprezzamento di larghissime proporzioni.
La terza opzione è avanzare verso un'unione molto più stretta. È quello che Eurolandia sta lentamente facendo. Ma come osserva de Grauwe, lo fa controvoglia e in modo pasticciato: il fondo di emergenza per i Paesi in difficoltà è troppo limitato, i tassi di interesse offerti sono alti e destabilizzanti, e la proposta di "clausole d'azione collettiva" sui bond emessi dopo il 2013 è garanzia di altre crisi future. De Grauwe raccomanda, fra le altre cose, l'emissione di titoli di Stato europei fino al 60% del Pil di ciascuno Stato membro e una supervisione collettiva degli eccessi finanziari.

Ma anche tutto questo non è abbastanza. Pensate a quello che è in grado di fare il Governo federale americano in una crisi interna. Se ad esempio la California andasse in default, il suo sistema finanziario, garantito dallo Stato centrale, resterebbe in piedi, le pensioni continuerebbero a essere pagate e i servizi sanitari a essere erogati. Il default di uno Stato sarebbe drammatico ma non catastrofico. Un default di uno Stato europeo sicuramente creerebbe una crisi molto maggiore. Entrando nell'euro, gli Stati membri hanno perso i meccanismi di protezione nazionali, ma senza poterli sostituire con dei corrispettivi efficaci a livello europeo.
Eurolandia deve avanzare se non vuole arretrare. Do per scontato che sceglierà la prima opzione. Ma si tratta di una scelta politica. O popoli e politici sono convinti di avere un destino comune, o non lo sono. È una scelta che non dev'essere presa già domani. Ma dev'essere presa.
(Traduzione di Fabio Galimberti)


Nessun commento: