mercoledì 6 luglio 2011

Federali.Sera_6.7.11. Quiz: chi tra costoro non vive nell’iperuranio platonico?

Quel che il Pil non racconta
Verrebbe da chiedersi chi ha fottuto gli inglesi ma è meglio chiuderla qui
Si può fare promozione senza cultura?
Marcegaglia: "Spesa, tagli o finiremo come Grecia"
Sviluppo economico ed occupazione
Bozen. Famiglie povere, aumentano del 30%


Quel che il Pil non racconta
di Marco Fortis
I dati Istat sulla spesa media mensile delle famiglie dimostrano che i consumi privati nel nostro Paese non crescono, ma vanno meglio del Pil. L'osservazione dell'andamento del Pil è alla base di molte delle frustrazioni, per vari aspetti fondate, circa la bassa crescita dell'Italia.

Questo ha influito anche sui recenti giudizi di alcune agenzie di rating a proposito della sostenibilità del nostro debito sovrano. Tuttavia, la lettura del solo dato del Pil – senza un'analisi disaggregata delle sue componenti, tra cui la più importante sta proprio nei consumi privati – rischia di non permettere una piena interpretazione dei fenomeni, specie in un periodo di profonda crisi come l'attuale, caratterizzato da molte asimmetrie nei gradi di libertà delle politiche economiche dei vari Paesi.
La sola dinamica del Pil può dare l'errata impressione che un'economia non stia andando male, anche se le condizioni di vita dei suoi abitanti peggiorano sensibilmente. Se, per esempio, in un Paese i consumi privati crollano (e ciò si traduce in un forte calo dell'import a parità di export), il Pil può risultare più "resistente" di quello di un altro Paese dove i consumi interni invece non sono crollati ma l'export è fortemente diminuito per fattori esterni. È il caso della Spagna e dell'Italia.

 I cittadini spagnoli stanno vivendo momenti peggiori degli italiani; i consumi privati sono diminuiti assai più dei nostri, eppure il Pil italiano è arretrato più di quello spagnolo. Ciò perché il nostro saldo netto con l'estero è fortemente peggiorato per il calo dell'export, mentre quello della Spagna, che non è un importante Paese esportatore, è migliorato esclusivamente per un forte aggiustamento forzato dal lato dell'import. Un altro aspetto è che a patire maggiormente la crisi economica in Italia sono state sinora le imprese, più che le famiglie. Le aziende esportatrici hanno dovuto subire l'eccezionale caduta simultanea della domanda interna di tanti Paesi collassati per i troppi debiti. Ciò ha penalizzato, in particolare, l'export di beni di investimento per l'edilizia e le macchine industriali in cui siamo più specializzati rispetto ad altri.

Ma la dinamica dell'economia italiana è davvero così scoraggiante come indica il dato aggregato del Pil? O l'analisi delle sue componenti lascia intravedere qualche segnale positivo in rapporto agli altri maggiori Paesi avanzati? Sono utili, per capire, i dati trimestrali del Pil da poco pubblicati da Eurostat. Se ci confrontiamo con gli Usa e sei economie europee, tre delle quali equamente scelte tra quelle ritenute "virtuose" (Francia, Germania, Olanda) e altre tre scelte invece tra quelle più pesantemente coinvolte nella "bolla" immobiliare e finanziaria (Spagna, Irlanda, Gran Bretagna), possiamo tentare di fissare alcuni punti.

Il primo è che l'Italia è tra i Paesi che più faticano a recuperare i livelli reali del Pil pre-crisi. In base ai dati destagionalizzati, nel primo trimestre 2011 ci troviamo ancora del 5,1% sotto i valori massimi del 1° trimestre 2008. Decisamente peggio di noi è l'Irlanda; solo un po' meglio stanno Gran Bretagna e Spagna. Mentre Usa e Germania hanno già riacciuffato i livelli pre-crisi e Francia e Olanda li stanno avvicinando. Il secondo punto riguarda la domanda interna, prescindendo cioè dagli aggiustamenti (spesso dettati dai sacrifici) avvenuti dal lato della domanda estera netta. In questo caso la situazione appare piuttosto diversa da quella del Pil (come indica la tabella in pagina, ndr). Infatti, rispetto al 1° trimestre 2008, il livello della domanda interna nel 1° trimestre 2011 risultava assai peggiore, oltre che in Irlanda (-23,8%), anche in Spagna (-8,9%) e Gran Bretagna (-5,5%) in raffronto all'Italia (-2,7%). Inoltre, poiché molti Paesi, a differenza dell'Italia, hanno accelerato la spesa pubblica nel tentativo di lenire gli effetti della crisi (peggiorando però notevolmente i bilanci pubblici), la situazione della domanda interna a spesa pubblica invariata risulta migliore in Italia anche rispetto all'Olanda.

Questo perché i consumi delle nostre famiglie hanno tenuto assai meglio rispetto a quelli di Irlanda, Spagna, Gran Bretagna e Olanda che restano ancora molto distanti dai livelli pre-crisi. Anche gli investimenti risultano caduti meno in Italia rispetto ad altre economie.
I consumi delle famiglie appaiono particolarmente dinamici e già superiori ai livelli pre-crisi in Francia. Probabilmente anche per il basso stock di indebitamento delle famiglie transalpine (seconde solo a quelle italiane per pochi debiti) e per le importanti politiche di stimolo governative (che tuttavia hanno fatto impennare il deficit/Pil francese al 7%). Anche negli Usa e in Germania i consumi privati sono già tornati sopra i livelli del 1° trimestre 2008. Ma non va dimenticato il costo. Nel 2009 gli incentivi ai consumi di auto hanno dato un impulso considerevole e irripetibile in Germania (e senza il quale il suo Pil sarebbe caduto all'incirca come in Italia), mentre è l'Economist a ricordarci che le politiche di stimolo dell'amministrazione Obama hanno iniettato nell'economia americana 1.200 miliardi di dollari e che la Fed in due tornate di quantitative easing ha acquistato la bellezza di 2.300 miliardi di dollari di titoli di stato e obbligazioni legate ai mutui immobiliari.

Con simili leve anche il Pil italiano sarebbe certamente cresciuto un po' di più. L'impressione – in tempi di vacche magre come quelli attuali e senza che siano ancora seriamente cominciate le politiche di riduzione dei deficit pubblici – è che ben pochi Paesi riusciranno a compiere miracoli veri dal lato della crescita.
Il terzo punto riguarda lo specifico confronto tra Italia e Germania. L'analisi dei dati Eurostat permette anche di evidenziare che, nonostante la grande competitività della macchina industriale tedesca rilanciata dalle precedenti riforme e ristrutturazioni, il Pil della Germania è tornato ai livelli pre-crisi soprattutto per banale merito della spesa pubblica e dei consumi delle famiglie, mentre la domanda estera netta è ancora molto al di sotto dei livelli di tre anni fa, esattamente come quella italiana. Ma negli ultimi tempi la Germania ha avuto una marcia in più rispetto all'Italia anche grazie al poderoso impulso venuto dagli investimenti, finanziati a piene mani da un sistema bancario che ha smesso di prestare (male) soldi all'estero e che appare molto committed nel sostenere la ripresa. Berlino, quindi, ci dà dei punti, anche se i consumi delle famiglie tedesche, sia pure in ripresa, fatto 100 l'anno 2000, restano tuttora un pelo sotto quelli italiani, a dimostrazione che nemmeno alla Germania bastano un paio di trimestri di rimbalzo del Pil per recuperare un ritardo di crescita decennale.
 6 luglio 2011

Verrebbe da chiedersi chi ha fottuto gli inglesi ma è meglio chiuderla qui
di Carlo Serrani
6 Luglio 2011
La linea generalmente denigratoria e insultante della stampa inglese verso l’Italia, e in particolare dell'Economist, si colloca da tempo notoriamente in relazione inversa rispetto alle sorti del nostro Paese: meglio l’Italia va, più viene attaccata. E ciò in quanto le ragioni primarie della costante denigrazione inglese si radicano, in primis, in due vizi: invidia e rabbia (mal repressa). Cominciamo dall’invidia. Tutti sanno che non è possibile alcun reale paragone tra vivere in Italia e in Gran Bretagna: per geografia, paesaggio, clima, bellezza delle città, cultura e tradizioni gastronomiche e vinicole. Gli inglesi lo sanno, e non sono per nulla contenti di vivere nelle loro isole fredde, grigie e piovose; e infatti, sono emigrati a milioni per diversi secoli. L’Italia, poi, è uno dei Paesi che più hanno contribuito alla storia dell’Europa e dell’Occidente, quanto e più delle isole britanniche che iniziarono a uscire da uno stato assolutamente primitivo grazie all’Impero Romano.

Passiamo alla rabbia. Dalla seconda guerra mondiale la Gran Bretagna, vittoriosa, ha subito danni infinitamente più profondi ed estesi di quelli sofferti dall’Italia sconfitta. La Gran Bretagna perse il ruolo dominante a livello mondiale e l’Impero Britannico, e ciò anche a causa dell’entrata in guerra dell’Italia che allargò il teatro bellico a Mediterraneo, Medio Oriente e Africa. Non accade spesso che un Paese vittorioso sia, alla lunga, molto più danneggiato di un Paese sconfitto. Per nostra fortuna, nel luglio del 1943 comprendemmo (a differenza dei Tedeschi) che la guerra per l’Asse era ormai persa e successivamente gli Stati Uniti provvidero saggiamente a impedire sanguinose e distruttive vendette, anche da parte della Gran Bretagna, secondo il modello del Trattato di Versailles" (nella Grande Guerra, per inciso, i morti italiani superarono di molto quelli inglesi, con i noti risultati).

L’enorme differenziale tra Gran Bretagna e Italia nei danni di medio-lungo termine inferti dalla seconda guerra mondiale non fu immediatamente visibile. Nel 1950 l’Italia aveva un Pil pari a solo un terzo di quello della Gran Bretagna. Quando, nel 1987, l’Italia raggiunse e superò la Gran Bretagna, gli Inglesi soffrirono molto. E soffrono ancora oggi, dato che tra i due Pil, anche pro capite e/o ai prezzi interni, la differenza è da tempo irrisoria e, probabilmente, grazie allo sfacelo della loro economia, li ri-superemo nel giro di qualche anno – per quello che conta (poco per noi, ma moltissimo per loro). La Gran Bretagna, sotto il profilo economico, è infatti in una situazione peggiore dell’Italia. Sommando debito pubblico (120%) e privato (65%) dell’economia italiana, si arriva a circa il 185% del Pil. Sommando debito pubblico (60%) e privato (225%) dell’economia britannica, si arriva invece a circa il 285% del Pil. La stampa inglese continua a cercare di darci lezioni ed a diramare tabelline sul debito pubblico, come se il privato non contasse. Eppure l’economia dell’Irlanda, membro di prima fila del club "PIGS" (secondo l’offensivo acronimo che doveva includere l’Italia e coniato, tanto per cambiare, dagli Inglesi) è implosa per il debito privato, non per quello pubblico.

Ma come sono arrivati, i nostri Inglesi, a questa situazione di quasi bancarotta? E’ molto semplice: a suon di costi bellici (il solito vizio) e di speculazioni finanziarie. E chi ha deciso sia la guerra in Iraq che la liberalizzazione finanziaria? Il signor Tony Blair. Per cercare di rimettere i conti a posto l’attuale Governo sta adottando misure che qui in Italia non ci sogniamo nemmeno. La riforma delle pensioni in corso avrà un impatto superiore al cumulo di tutte le misure adottate in Italia dai Governi di Amato, Dini, Prodi e Berlusconi. I recenti tagli della spesa pubblica e sociale approvati dal Governo Cameron superano i tagli italiani dell’intero ultimo decennio. La riforma dei costi universitari ha elevato le tasse d'iscrizione da 3.300 pounds a somme ricomprese tra i 6.000 ed i 9.000 pounds annuali, spostando brutalmente il peso del risanamento sulle giovani generazioni. Per decenni gli inglesi – come la maggior parte degli Europei – hanno frequentato le università praticamente gratis (la tassa d’iscrizione era stata elevata da 1000 a 3300 pounds da Tony Blair, tanto per cambiare). L’attuale generazione dovrà invece pagare cifre ricomprese tra i 24.000 ed i 36.000 pounds per corso universitario quadriennale, ed è molto scontenta, perché ritiene – non a torto – ingiusto dover pagare il conto delle avventure belliche e delle follie finanziarie innescate da Blair.

E noi dovremo sentirci dire che Berlusconi avrebbe "rovinato" un intero Paese? Per favore: se c’è qualcuno che ha rovinato il Regno Unito, quell'uomo è Tony Blair. Visto che ci siamo, tocchiamo anche un terzo difetto nazionale degli inglesi: la loro cronica, sistematica e incorreggibile tendenza a costruire una storia che gli faccia comodo. Basta leggere i loro libri che fino a qualche decennio fa liquidavano oltre quattrocento anni di dominazione romana in qualche pagina, asserendo, in modo assolutamente ridicolo, che "non aveva lasciato traccia rilevante". O pensate alla continua, perdurante esaltazione – oggi in chiave neofemminista – della regina Budicca che, nel corso della sua campagna contro i Romani, non solo sterminò l’intera popolazione di Londra perché "contaminata" dal collaborazionismo, ma sottopose migliaia di altri prigionieri a mortali torture druidiche di un'atrocità impensabile, e probabilmente insuperata, per efferatezza e lunghezza. 

Ancora oggi, i loro libri di storia continuano a fare allegramente finta che la Gran Bretagna abbia inventato il capitalismo – e non solo la sua sistematica applicazione industriale, con l’impiego forzato di donne e bambini per 16 ore al giorno – quando tutti gli storici onesti riconoscono  che il capitalismo è nato in Italia nel 1400-1500, come dimostrato dall’invenzione della banca, della contabilità a partita doppia, dei contratti commerciali, etc. Ancora, pensate allo storico Denis Mack Smith e alle sue opere, tutte costellate di negativismo e disprezzo verso il nostro Paese. Che tipo di persona può essere uno storico che sceglie di dedicare la sua vita ad un Paese che disprezza?

Nell’ultimo velenoso servizio dedicato all’Italia – che ho deciso di non leggere –  mi dicono che l'Economist avrebbe esteso le sue velenose e rabbiose considerazioni anche alla storia del nostro Paese e particolarmente al Risorgimento. Qualche nostro connazionale ha scritto lettere di protesta alla redazione del settimanale inglese, restando comunque in un'ottica difensiva e antinazionale, peraltro tipica della nostra minoranza di anglofili, più o meno complessati. Si tratta, a mio parere, di un errore. Non abbiamo veramente proprio nulla di cui difenderci con gli inglesi, neanche in termini storici. Chiunque conosca la loro storia, in particolare degli ultimi due secoli, sa che essa è letteralmente costellata da aggressioni, occupazioni e massacri di inermi e innocenti civili.

Dai milioni di irlandesi oppressi e decimati per tre secoli e lasciati morire di fame mentre gli inglesi si appropriavano dei loro miseri raccolti, alle decine di migliaia di indù bruciati vivi nella rivolta anticoloniale di metà Ottocento, dall’invenzione dei campi di concentramento in cui, agli inizi del Novecento, morirono di fame e di stenti circa 150.000 donne, vecchi e bambini boeri, fino ai bombardamenti che uccisero 800.000 civili tedeschi (dei quali 150.000 bambini) nella seconda guerra mondiale e agli oltre 600.000 civili morti nella recente guerra in Iraq. Ma di cosa dovremmo scusarci, con loro? Del nostro tardivo tentativo – attraverso le occupazioni di Libia ed Etiopia – di assumere la dimensione imperiale che la maggior parte dei Paesi dell’ Europa Occidentale – Gran Bretagna e Francia in testa – aveva già raggiunto? Ma per favore! O per la seconda guerra mondiale? Ci siamo già scusati con tutti, e comunque l’abbiamo persa. Ma visto che ci siamo, una domandina provocatoria: come mai, a fronte della fermissima resistenza greca contro l’ingiusta aggressione italiana, nessuno nell’Italia fascista pensò mai di bombardare a tappeto le città greche e sterminarne gli innocenti civili? Chiudiamola qui, e rapidamente, che è veramente meglio per tutti.

Gli inglesi oggi soffrono perché il loro Pil sta ri-scivolando dietro quello italiano e, soprattutto, perché l’Italia non è stata e non sarà coinvolta nella crisi che ha travolto Grecia, Irlanda e Portogallo e che mette a rischio, oltre che la Spagna, la stessa Gran Bretagna. In altri termini, gli Inglesi – che ricordano quando nell’autunno del 1992 lira e sterlina dovettero insieme uscire dal Sistema Monetario Europeo – oggi soffrono perché l’Italia, per la prima volta in oltre 40 anni, non è al centro di una crisi finanziaria o monetaria europea. Si tratta di una svolta storica per il nostro Paese, ma a loro, ovviamente, dà fastidio. Alcuni affermano che dovremmo essere più pazienti, anche perché gli inglesi spesso hanno grosse difficoltà ad adeguarsi al presente e restano un po' indietro. Basterebbe pensare alla storica riforma con la quale Papa Gregorio XIII nel 1582 introdusse l’odierno calendario gregoriano, riconosciuto dalla Gran Bretagna solo nel 1752, dopo ben 170 anni di ritardo (e calendario sbagliato). Oggi, quindi, non ci resterebbe che sperare, più o meno pazientemente, che gli inglesi ci mettano un po' di meno ad adeguarsi alla realtà. Personalmente non sono d’accordo con tale visione, in quanto vedo, in primis, tantissima mala fede. In ogni caso, nel frattempo, direi di lasciarli letteralmente ragliare al vento, o abbaiare alla luna. Ignoriamoli e basta.

Si può fare promozione senza cultura?
06/07/2011
di SAVERIO MUSOLINO
Come calabrese che vive da tempo a parecchi chilometri di distanza, non posso negare che mi abbia fatto piacere vedere in tv gli spot che, sin dalla scorsa settimana, preannunciavano la trasmissione dell'evento “Miss Italia nel mondo” dal lungomare di Reggio Calabria, con immagini suggestive dei paesaggi della Regione. Assistendo all'evento televisivo ho tuttavia avuto, pian piano, la sensazione che i ripetuti apprezzamenti nei confronti di Reggio e della stessa Regione da parte dei conduttori fossero “pelosi”, cioè non spontanei ma dettati da esigenze di copione (e di contratto). Appariva sempre più evidente che la scelta della Calabria era stata dettata, più che dalle bellezze naturali, da una miglior proposta commerciale contenuta nella sponsorizzazione da parte della Regione medesima. Questa situazione, in pieno 2011, non ci scandalizza, anche se alimenta una sorta di delusione per la scelta dei contenuti degli spot turistici, di cui la trasmissione era impregnata, affidati alla uscente miss dominicana. Viene da chiedersi come mai si sia inteso promuovere le bellezze calabresi limitandosi a mostrare delle “fredde” immagini dei luoghi, come delle cartoline “mute”, nella convinzione che l'evocazione del mare, dei monti, dei panorami (accompagnati in verità dai commenti della miss e del suo partner, sui quali è meglio tacere.) fossero di per sé sufficienti a trasmettere un'immagine positiva della Regione, sottacendo che quei luoghi sono in realtà ancora “caldi” degli eventi accaduti 150 anni fa, un tempo non lontanissimo. Spieghiamoci meglio. Perché non ricordare, di fronte al suggestivo scenario dello Stretto visto da S. Trada, che proprio lì, nei pressi del Forte di Altafiumara, i primi 200 garibaldini, al comando del calabrese Benedetto Musolino, erano sbarcati la notte dell'8 agosto 1860, precedendo il Generale di 10 giorni e, unendosi ai “prodi calabresi” guidati dal reggino Plutino, spianarono la strada all'arrivo dei Mille sul continente italiano? Eppure una stele, apposta nei pressi sin dal 1961, rievoca l'impresa. Ancora: perché limitarsi a mostrare la peculiare conformazione della montagna di Pentedattilo, sottacendo che, a pochi chilometri da lì, si erge San Lorenzo, il primo Comune del continente a distaccarsi dal regno borbonico in nome dell'adesione all'Italia, sin dal 18 agosto 1860, quando ancora Garibaldi non era giunto: arriverà l'indomani sulla spiaggia di Melito Porto Salvo, a breve distanza da lì. Per finire (ma gli esempi potrebbero moltiplicarsi), vi è da chiedersi che cosa abbia impedito di corredare le immagini di Piazza XV Marzo a Cosenza con una breve didascalia, dove spiegare che, nel 1848 in quei luoghi si combatteva e si moriva in nome dell'Italia unita (si pensi che l'organo di stampa del governo rivoluzionario recava il titolo profetico “L'Italiano delle Calabrie”). Stiamo forse parlando di “anticaglie” da far marcire in fondo alla soffitta in nome di un imperante modernismo? Il dubbio sorge spontaneo. Certo è che si è persa un'occasione forse unica per promuovere la Calabria e la sua storia, almeno quella recente (prescindendo dai Campanella e dai Telesio), in questo 150° dell'Unità, e per dimostrare all'Italia, e forse al mondo intero, che questa vituperata Regione ha dato al Paese molto più di quanto non abbia poi ricevuto: un credito risalente nel tempo ma ancora esigibile, da riscuotere (almeno moralmente) al cospetto di quei politici - del Nord in particolare - che la rappresentano continuamente come una palla al piede per il Paese. E' una virtuosa coincidenza, da sottolineare, che luoghi meravigliosi siano stati al contempo lo scenario di gesta eroiche, anche se poco o affatto conosciute, o no? O forse, per esigenze di marketing, la storia -e quindi la cultura - deve essere nemica del turismo? La Regione Calabria, fino ad ora, ha rievocato poco e male, in questo 150°, il contributo dei propri figli alla causa dell'unità nazionale, compreso l'apporto all'impresa dei Mille che, vinte le resistenze borboniche a Reggio (dove anche il castello aragonese assistette a sanguinosi eventi) e nei dintorni, intrapresero una “trionfale passeggiata” fino a Napoli, consentendo a Garibaldi di consegnare, dopo l'ultimo ostacolo sul Volturno, l'Italia al re Savoia. Fortunatamente, alcune di tali lacune saranno colmate con l'esposizione, nella mostra sui patrioti meridionali che verrà inaugurata a Napoli il prossimo 1º ottobre dal presidente della Repubblica, della corrispondenza, tra le due sponde dello Stretto, tra Giuseppe Garibaldi e il calabrese Benedetto Musolino, tra il 9 e il 19 agosto 1860. Fino ad ora, la Regione non ha inteso dare alcuna rilevanza a questa documentazione, custodita nell'archivio del patriota di Pizzo e che è a disposizione del Presidente della Regione, ove ritenesse significativo consegnarla simbolicamente per l'esposizione allo stesso Presidente della Repubblica, quale testimonianza indelebile dell'apporto della comunità calabrese alla causa unitaria. Ove il presidente decidesse di venire a Pizzo per il prossimo 30 luglio avrebbe modo, oltre che di visionare l'archivio del patriota, di presenziare ad uno degli eventi culturali più longevi dell'arte calabrese, il Premio di Pittura Città di Pizzo, che, nel lontano 1954, una delle prime donne-sindaco d'Italia e della Calabria, Diana Musolino (discendente del patriota), ideò, nella convinzione che l'arte avrebbe consentito di far conoscere ed apprezzare, in un'epoca in cui non c'erano le comunicazioni di massa, le bellezze dei paesaggi del Sud (che costituivano oggetto delle rappresentazioni pittoriche) e al contempo di elevare culturalmente la comunità. Per lunghi anni, questa donna di antica tempra, pur dismessa la carica di sindaco, ha portato avanti questo evento culturale in proprio, senza l'ausilio - se non occasionale - delle istituzioni, fino allo stremo delle sue forze: solo la morte l'ha allontanata dalla sua creatura. Per evitare che un così rilevante patrimonio culturale andasse definitivamente perduto, un manipolo di volonterosi ha curato l'edizione del 2010 e sta organizzando, con gli scarsi mezzi a disposizione, quella che si terrà a Pizzo il 30 luglio 2011 (la 57ª!), nell'indifferenza degli enti locali, che “non hanno soldi per la cultura”. Neppure la Regione, che pur ha distribuito 500.000 euro per la cultura (e per sostenere l'evento sarebbe stata sufficiente una quota infinitesimale del Fondo), sosterrà la manifestazione, ostandovi insuperabili vincoli formali (pare che sulla busta contenente la partecipazione al bando non sia stata indicata la formula “avviso pubblico”: quando si dice il peso delle parole!). E' possibile far morire la cultura per un mero formalismo, per un bizantinismo? Presidente Scopelliti, venga a Pizzo e si renderà conto che la bellezza del paesaggio e la bontà di un inimitabile gelato possono andare a braccetto con la cultura, si tratti di storia o di manifestazioni artistiche.

Manovra, Sacconi: "Pensioni? Pronti a modifiche" Marcegaglia: "Spesa, tagli o finiremo come Grecia"
"Anche se non siamo come la Grecia", precisa la numero uno di Confindustria parlando a margine del forum del comitato Leonardo. Il ministro per il welfare: "Aperti a discutere, ma l'opposizione eviti polemiche ideologiche"
Roma, 6 luglio 2011 - Sulla norma della manovra economica relativa alla rivalutazione delle pensioni “siamo pronti a modifiche”. Lo ha annunciato il ministro del Welfare, Maurizio Sacconi, che però ha sollecitato le forze di opposizione “ad evitare di fare polemiche ideologiche a questo proposito”.

Sulla norma della manovra economica relativa alla rivalutazione delle pensioni “siamo pronti a modifiche”. Lo ha annunciato il ministro del Welfare, Maurizio Sacconi, che però ha sollecitato le forze di opposizione “ad evitare di fare polemiche ideologiche a questo proposito”.

A margine della presentazione di un rapporto del Censis, Sacconi ha affermato che il Governo “verificherà i modi di produrre un effetto finanziario, ma diversamente da come oggi è disposto.  Siamo apertissimi a discutere, come abbiamo detto subito”.

Il responsabile del Welfare ha aggiunto: “Non dimentichiamo che le fasce più basse sono indicizzate al 100%. Si tratta di guardare alle fasce medie e alte. E non dimentichiamo che norme di questo tipo sono state fatte da tutti i governi di centrosinistra”.

MARCEGAGLIA - Il “Paese ha bisogno di tagliare la spesa pubblica e riequilibrare i conti pubblici, perché altrimenti diventiamo come la Grecia, anche se non siamo la Grecia”. Lo ha affermato il presidente di Confindustria Emma Marcagaglia, a margine del forum del Comitato Leonardo.

Parlando della riforma del sistema di promozione delle imprese all’estero e della questione Ice, la Marcegaglia ha aggiunto: "Non è l’Italia che vogliamo quella che ogni volta che c’è un cambiamento alza le barricate”.

La posizione di Confindustria rispetto alla norma in finanziaria che prevede la chiusura dell’Ice (Istituto nazionale per il commercio estero) e il suo spostamento in parte al ministero degli Esteri è condivisibile in parte. “Oggi l’Ice così comè non può funzionare ci sono problemi, sono stati tagliati i fondi e adesso a luglio sono terminati”.

“La situazione è complessa - spiega Marcegaglia - e bisognerebbe fare una riforma per la rete di promozione all’estero. La nostra idea è, come in altri paesi importanti spesso accade è che l’ambasciata ha un grande valore, per noi quindi l’Ice sotto il ministero degli Esteri andrebbe bene ma siamo pronti a ragionare. La nostra posizione è questa: non sta a noi dire come ma si faccia la riforma per la promozione unica”.

Marcegaglia ha infatti aggiunto che “noi non vogliamo tagliare nesusn posto di lavoro, non vogliamo fare una cosa strana, ma ci vuole una riforma” ricordando che è scaduta anche la delega al governo su questa materia. Il presidente degli industriali ha infatti osservato che “oggi abbiamo un sistema in cui il ruolo di sostegno alle imprese all’estero e’ fatto da vari soggetti in modi distinto e non coordinato, Camere di commercio, Ice, Regioni, ognuno per conto proprio”.

Secondo il presidente degli industriali infatti “non è più accettabile che, ad esempio, su un pullman che va a Shangai ci sia la scritta ‘Venite a visitare la Basilicata’. Dobbiamo trovare un meccanismo per un sistema unico efficace e non dove i vari enti non si parlano tra loro. Questo non va bene per un sistema imprenditoriale che ha bisogno di esportare di più”.

Marcegaglia infatti ha sottolineato l’importanza delle esportazioni per il sistema produttivo, e in particolare manifatturiero italiano che contribuisce al 30% del Pil, al 30% dei posti di lavoro e al 78% dell’export in una situazione in cui “la crescita dell’Italia è un po’ asfittica, all’1%. Il nostro obiettivo, cioè di Confindustria e del Comitato Leonardo è quello di aumentare ulteriormente la capacità dell’export in quanto sono circa 1.500 le aziende oggi che hanno questa capacità e che sono ancora poche, bisogna arrivare a una quota maggiore”.

Marcegaglia ha poi ricordato comunque, alcune punte di eccellenza, in fatto di export, come ad esempio “la provincia di Milano che da sola ha una capacità di esportazione pari allo Stato di Israele o a Torino quanto la Grecia o ancora Modena quanto la Croazia.  Abbiamo una buona capacità -ha concluso Marcegaglia- ma dobbiamo aumentarla”.

CRESCE SPREAD BTP-BUND - Intanto, torna a salire lo spread (differenza in termini di rendimento) tra BTp italiani e Bund tedeschi. Complice il taglio del rating del Portogallo da parte di Moody’s, oggi il differenziale di rendimento tra l’Italia e la Germania sulla scadenza a 10 anni si è allargato tornado su livelli prossimi ai record dei giorni scorsi.

Al momento lo scarto di rendimento tra BTp e Bund oscilla sui 213 centesimi dopo aver aperto la giornata a quota 207 p.b. e aver toccato un picco di 215 centesimi.

Sviluppo economico ed occupazione
Postato il luglio 2, 2011 da lanaturalevoluzione
di Francesco Ferlito
I dati dell’ultimo Rapporto SVIMEZ documentano il processo di deterioramento in atto nel Mezzogiorno, a livello di capitale fisso, sociale e produttivo. Il rallentamento e poi il calo degli investimenti produttivi privati è accompagnato da un parallelo indebolimento degli investimenti effettuati  dall’Amministrazione pubblica e dalle imprese pubbliche, nazionali e locali, cui si aggiungono in questa fase i consistenti tagli ai Fondi per il Sud. Conseguenti e drammatici i risvolti sociali: calo demografico, migrazione dei giovani laureati, aumento della quota di anziani e di inoccupati, allargamento dei divari sul piano delle tutele del lavoro e forte contrazione nella dotazione dei servizi socio-assistenziali.

Per rilanciare lo sviluppo economico del Sud è necessario innanzi tutto rivitalizzare il tessuto imprenditoriale del Meridione, sia della grande che della medio-piccola impresa, attraendo investimenti e capitali dal Nord Italia e dall’estero (Unione Europea, paesi del Mediterraneo, Asia, ecc..).


 Realizzare una adeguata politica fiscale, attuando una c.d. fiscalità di vantaggio di tutte le imprese che localizzeranno un loro stabilimento o una loro sede nel nostro Mezzogiorno. Una fiscalità di vantaggio meridionale non infrangerebbe le norme europee perché non sarebbe classificabile come aiuto di stato (anche perché sarebbe a costi zero). L’ammissibilità della fiscalità di vanatggio è stata suffragata anche dalla Corte di Giustizia Europea, “in quanto decisa dal governo locale, dotato di autonomia istituzionale, procedurale ed economica sufficiente affinché una norma da questi adottata nei limiti delle competenze conferitegli sia considerata di applicazione generale nell’ambito di tale ente infrastatale e non abbia carattere selettivo” (Corte Giustizia Europea 06/09/2006 e 11/09/2008, in merito alla fiscalità attuata dai Paesi Baschi, in Spagna). Ciò varrebbe a maggior ragione per quelle regioni che rientrano tra le aree c.d. economicamente più svantaggiate. Già diversi paesi europei si sono avvantaggiati di tale strumento. In Italia, l’ultima manovra governativa (decreto legge 78/2010) prevede una forma di fiscalità di vantaggio per le Regioni del Mezzogiorno, che con propria  legge possono, in relazione all’imposta regionale sulle attività produttive (IRAP) modificare le aliquote, fino ad azzerarle, e disporre esenzioni, detrazioni  e deduzioni nei riguardi delle nuove iniziative produttive. In realtà, é difficile pensare che le Regioni del Mezzogiorno, tanto più dopo i tagli previsti dalla manovra stessa (e, per alcune di esse, con l’obbligo di far ricorso alla leva fiscale per coprire i disavanzi sanitari) abbiano risorse per avviare una concorrenza fiscale nei confronti delle altre aree per attirare nuove iniziative.

Attrarre investimenti e rendere operativi e funzionanti altri strumenti fiscali incentivanti (ad es., misure agevolative, credito d’imposta, riduzione della tassazione del costo del lavoro, ecc.) per le imprese che intraprendono una nuova attività e/o che creino lavoro per i giovani disoccupati. Incentivare l’imprenditoria giovanile e la creazione di impresa attraverso un adeguamento della normativa (ex legge 488/1992). In quest’ambito gli interventi di incentivazione divranno assumere un ruolo centrale, accompagnati da una facilità maggiore di accesso al credito. Interventi per i quali – al di là della forma tecnica di erogazione – sarebbe però il momento di aprirsi ad un approccio più “selettivo” rispetto a quello seguito con la legge 488 e ancor più con i crediti di imposta; un approccio, cioè, mirato al perseguimento di obiettivi specifici, che consenta di evitare la dispersione delle risorse tra un novero troppo ampio di finalità e su una platea troppo vasta di imprese. Nell’attuale fase di crisi economica, i crediti di imposta possono sicuramente assumere un’importanza anche maggiore rispetto al passato, agendo in funzione anticiclica e contribuendo a mitigare i vincoli finanziari che ostacolano la crescita delle imprese, soprattutto di quelle con bassi livelli di produttività

Combattere il precariato attraverso una riforma delle professioni e dei tirocini formativi; quest’ultimi devono essere retribuiti e prevedere dei criteri in basa ai quali devono trasformarsi in assunzioni. Ridurre le competenze esclusive dei Notai attraverso una graduale liberalizzazione, soprattutto per atti pubblici di modico importo.

La contrazione dell’occupazione è stata nel 2009 nelle regioni meridionali di intensità tripla (-3%) rispetto al -1,1% del Centro-Nord. In termini assoluti ciò vuol dire 194 mila occupati in meno nel Mezzogiorno, che si aggiungono ai 35 mila posti persi nel precedente anno. Dalla distribuzione delle famiglie per classi di reddito monetario emerge che le famiglie con entrate mensili superiori ai 3 mila euro sono circa il 42% nel Centro-Nord e meno di un quarto (24,5%) nel Mezzogiorno. In base alla nozione di povertà relativa dell’Unione europea, quasi un terzo (32,7%) degli individui residenti nel Mezzogiorno contro l’11,1% di quelli del Centro-Nord sono a rischio di povertà a causa di un reddito troppo basso. Su un totale di 11 milioni e 152 mila persone a rischio di povertà in Italia (18,7% degli individui), 6 milioni e 838 mila risiedono nel Mezzogiorno.

Al drastico impoverimento, a partire dal 2007, degli interventi di incentivazione della politica regionale per lo sviluppo dell’industria del Mezzogiorno, è seguito, nel corso del 2009, il loro sostanziale azzeramento. Dopo la scomparsa di importanti strumenti, tra i quali, in primo luogo, la legge 488/1992, ma anche altri ad essa collegati, finalizzati in particolare al sostegno delle R&S e all’innovazione, nel 2009, sono infatti rimasti non operativi tutti gli interventi di incentivazione, anche quelli per i quali era prevista nell’anno l’attivazione (come le Zone franche urbane, i nuovi contratti di programma e i contratti di sviluppo, ancora in attesa di una regolamentazione). In assenza di rifinanziamenti, le risorse disponibili per i crediti di imposta per l’occupazione si sono esaurite già nell’ottobre 2008, mentre le agevolazioni concesse per i crediti di imposta a favore degli investimenti hanno assorbito l’intero stanziamento complessivo del 2007-2013.

È paradossale che il divario crescente registrato tra enunciazioni programmatiche e realtà attuative, invece di determinare un impegno più forte a rispettare gli obiettivi, abbia portato alla cancellazione, nel silenzio diffuso della politica e degli osservatori economici, di tali obiettivi quantitativi negli ultimi due DPEF.

Opporsi alla introduzione di eventuali ulteriori accise. Trasferire le c.d. accise sui carburanti dall’erario statale a quello della regione di riferimento, anche solo come forma di indennizzo per l’inquinamento e i danni ambientali e alla salute sopportati dalle medesime regioni meridionali. Porre al centro il tema della sostenibilità anche come strumento per la realizzazione di una maggiore equità intergenerazionale, e perfino “storica”: il Sud è stata l’area in cui si sono avuti i minori vantaggi del processo di industrializzazione del secolo scorso e al tempo stesso è stata l’area in cui si sono scaricati i costi ambientali più elevati dell’inquinamento dell’industria pesante e, per effetto di una peggiore gestione del territorio, le scorie di una industrializzazione a volte senza regole.

Rinnovare tutta le rete delle infrastrutture e dei trasporti (Ponte sullo Stretto, Alta Velocità, Ferrovie, Autostrade, ecc…). Per assumere un ruolo di cerniera negli scambi commerciali tra Europa e Mediterraneo (utile dunque all’intero Paese), il Sud deve diventare un punto di giunzione fondamentale che investa l’intero sistema infrastrutturale nazionale. Di fronte ad una posizione così favorevole nei rapporti tra Europa e Mediterraneo, infatti, un serio limite allo sviluppo dell’area è costituito dalla carenza e dalla scarsa integrazione sistemica delle infrastrutture per la mobilità delle merci e delle persone. Ed è in buona misura anche a causa di tale carenza che nello scorso decennio il Mezzogiorno ha potuto sfruttare meno del resto del Paese, e di altre aree europee, i vantaggi competitivi offerti dal processo di globalizzazione dei mercati, con una conseguente perdita di competitività del proprio sistema economico.

Forme di finanza di progetto e di partenariato pubblico-privato sono gli strumenti più idonei a impostare un programma di priorità infrastrutturali, da completare o da attuare ex novo, capaci di generare rientri accettabili per pianificare in modo equilibrato la loro realizzazione. Una prima selezione di opere prioritarie per il completamento del sistema dei trasporti nel Mezzogiorno dovrebbe comportare un costo di circa 46 miliardi di euro (Rapp. Svimez 2010), con una copertura attuale di poco più di 11 miliardi e un fabbisogno finanziario da reperire di quasi 35 miliardi di euro. Si tratta di opere cruciali, tra cui il potenziamento della capacità di servizio dell’Autostrada Salerno-Reggio Calabria e della Statale “Jonica”; la realizzazione di nuove tratte interne alla Sicilia; l’estensione dell’Alta Capacità (se non dell’Alta Velocità) nel tratto ferroviario Salerno-ReggioCalabria-Palermo-Catania (a completamento del Corridoio I Berlino-Palermo); il nuovo asse ferroviario Napoli-Bari; infine, il Ponte sullo Stretto. Alcune di queste opere sono già in corso di esecuzione e dotate di parziale copertura finanziaria o da finanziare in misura totale, altre non ancora esaminate dal CIPE. Si tratta di importi consistenti ma tuttavia contenuti se confrontati con gli impegni finanziari rilevabili per il resto del Paese (si ricorda che, nel caso delle sole opere della Legge Obiettivo già approvate dal CIPE nel 2009, oltre il 70% interessa il Nord). La realizzazione di tali opere, peraltro, potrebbe avvalersi di un non trascurabile contributo della componente privata; infatti, per tutte le opere esaminate l’ampiezza della domanda dei propri bacini d’utenza potrebbe generare, per i servizi resi, flussi di rientri di una certa consistenza. Per invertire con decisione la tendenza al progressivo de finanziamento degli investimenti infrastrutturali nel Mezzogiorno, che ha caratterizzato gli ultimi tre decenni, occorre avviare al più presto un percorso di analisi e approfondimento per verificare la fattibilità finanziaria e tecnica per una realizzazione basata anche su rientri da tariffa. È evidente, infine, che la realizzabilità di un programma di tale portata richiede una forte condivisione istituzionale e politica tra tutti i livelli di governo. Potrebbe rappresentare, infatti, un primo campo su cui procedere con il più volte richiamato sforzo di concentrazione e riorientamento dei Fondi per lo sviluppo e su cui sperimentare quel necessario mutamento istituzionale che prevede la condivisione di obiettivi strategici tra Governo e Conferenza delle Regioni meridionali; obiettivi a cui vincolare quote significative delle risorse del Fondo infrastrutture strategiche e dei Fondi strutturali nazionali e regionali.

Sfruttare al meglio i beni c.d. paesaggistici e artistico-archeologico del nostro Mezzogiorno incrementando così l’imprenditoria alberghero-turistiche e la connessione di questa ai beni naturali e archeologici del territorio, valorizzando l’artigianato locale.

Nel breve medio periodo, inoltre, rilanciare la filiera edilizia del recupero trova rispondenza nella necessità di salvaguardare dai rischi geologici e dall’incuria il patrimonio edilizio storico e di frenare il disordinato e insostenibile consumo di suolo. Il consumo di questa preziosa risorsa e l’aumento della dispersione insediativa cui esso si accompagna, producono gravi danni al patrimonio paesaggistico e all’attrattività turistica. Incentivare il settore delle energie rinnovabili (come il fotovoltaico, il mini-eolico) favorendo l’efficienza energetica, oggi in espansione planetaria e presenta grazie alle agevolazioni nazionali e alle felici condizioni ambientali del Mezzogiorno una potenzialità locale notevole. In pochi anni di convinte politiche regionali la Puglia è divenuta la prima regione italiana per produzione energetica da fonti rinnovabili, superando le più industrializzate Lombardia e Veneto.

Vietare l’applicazione di qualsiasi pedaggio o c.d. tassa sul turismo (o di soggiorno) su tutto il territorio meridionale.

Combattere la criminalità organizzata che ancora rappresenta un grosso ostacolo allo sviluppo del Mezzogiorno, operando secondo i principi della trasparenza e della legalità.

Snellire e semplificare la macchina burocratico-amministrativa e riformare i principali settori della pubblica amministrazione migliorando il rapporto costi/efficienza alla stregua di come è stato fatto in Sicilia dal governo regionale nel campo della sanità (attraverso un piano di rientro che ha evitato il Commissariamento) e in quello dei rifiuti (attraverso una riforma e un’accorpamento degli ATO- Ambiti Territoriali Ottimali).

Ripensare il concetto di Mezzogiorno come “frontiera” del Paese, verso il Mediterraneo. Creazione di un’area Euro-Meditteranea che veda al centro la Sicilia e il Mezzogiorno d’Italia, basandosi sui principi della Conferenza di Barcellona del 1995 che mirano a stabilire una situazione di pace e collaborazione tra i paesi del mediterraneo. Ciò si tradurrebbe in maggiori vantaggi e benefici per tutti i paesi che si affacciano nell’area interessata. Per lungo tempo, del resto, l’Europa ha preferito volgere lo sguardo verso Est con l’allargamento, avvertendo il Sud come frontiera “ostile”, foriera di immigrazione clandestina e fondamentalismo religioso – relegando il nostro Mezzogiorno ad una condizione di marginalità. La centralità del Mediterraneo nello scenario globale dell’economia e degli scambi internazionali, com’è noto, è essenzialmente dovuta al ruolo crescente dei paesi dell’Estremo Oriente che con impressionante velocità (che finora ha suscitato soprattutto la preoccupazione delle nostre piccole imprese e dei distretti) irrompono nei traffici, negli investimenti e nelle strategie di sviluppo del mercato globale. Un fenomeno che, vista la scala di due protagonisti come India e Cina, è destinato a consolidarsi e crescere (specie se intanto si realizza il raddoppio del Canale di Suez), e a rappresentare l’aspetto più dinamico e progressivo della globalizzazione da cui il sistema Italia e la stessa Europa, non solo il Mezzogiorno, possono trarre maggiore vantaggio. Tuttavia, l’occasione può essere colta solo da un’imponente azione politica da parte dell’Europa.

Prevedere quindi un’adeguata politica dei flussi migratori caratterizzata dalla solidarietà contro ogni forma di xenofobia, Regolamentando modalità di ingresso, soggiorno, dislocazione dei migrantes nel nostro territorio nonché dei diritti-doveri degli stessi (diritto di cittadinanza), attraverso una concertazione delle politiche regionali con quelle nazionale, europea e internazionale.

Frenare la fuoriuscita di risorse umane eccellenti investendo maggiormente nella Ricerca in settori all’avanguardia legati all’innovazione, alle competenze specialistiche, all’economia verde. Incentivare la collaborazione tra ricerca scientifica e imprenditoria. Ricerca, sviluppo ed innovazione tecnologica rappresentano le principali leve strategiche da attivare per accrescere i livelli di competitività dei territori. Com’è noto, l’Italia, e il Mezzogiorno in particolare, presentano carenze significative in termini di partecipazione delle imprese alle attività di R&S, di disponibilità di risorse umane ad alta qualificazione, di sviluppo di strumenti finanziari adeguati, di integrazione e valorizzazione delle attività di ricerca, di iniziative volte a favorire il trasferimento tecnologico nel tessuto socio-economico e produttivo. Si tratta di debolezze strutturali che nel Mezzogiorno si vanno ad innestare in un contesto di maggiore arretratezza e polverizzazione del tessuto imprenditoriale, di insufficiente attrattività dell’offerta universitaria e delle strutture di ricerca, acuendone le criticità.

Il FAS e le politiche c.d. di coesione.

Agli scarsi risultati delle politiche c.d. di coesione ed a neutralizzare l’efficacia della complessiva politica regionale, nazionale e comunitaria, ha concorso anche la scarsa qualità degli interventi. Le carenze di fondo sono state: la dispersione delle risorse aggiuntive da finalizzare all’accelerazione dello sviluppo sul territorio in una eccessiva molteplicità di interventi, rispondenti troppo spesso a domande localistiche; le lentezze e gli scoordinamenti nella concezione, progettazione e realizzazione degli interventi stessi, tradottisi spesso nella formazione di residui.

La riflessione sulle criticità identificate con riferimento al ciclo di programmazione 2000-2006 rappresenta, purtroppo, ancora oggi un tema di attualità; l’impostazione del nuovo “Quadro Strategico Nazionale” 2007 -2013 si è mossa, infatti, all’interno di una sostanziale continuità con il precedente periodo di programmazione. Basso è l’avanzamento dei Programmi  Regionali, che si ferma, in relazione al contributo, al 10%, per gli impegni, e al 3,8%, per i pagamenti. Performances leggermente migliori riguardano i Programmi Nazionali, che in relazione al contributo assegnato, fanno registrare il 20% per gli impegni, e il 7,7% per i pagamenti. Ma i maggiori ritardi si sperimentano per i due Programmi Operativi Interregionali: il POI “Energie rinnovabili e risparmio energetico”, ed il POI “Attrattori culturali, naturali e turismo”, che non registra né impegni, né spesa.

Il Quadro Strategico Nazionale (QSN) 2007-2013, delineato con la Finanziaria 2007, voleva rappresentare una sede privilegiata della programmazione unitaria, in grado di ridurre l’eccessiva articolazione tra diversi strumenti finanziari (a livello comunitario, nazionale e regionale), che si riteneva avesse limitato la piena attuazione degli obiettivi strategici nella programmazione 2000-2006.

Il Fondo per le aree sottoutilizzate (FAS) inserito nel “quadro unitario” doveva avere un ruolo “chiave” di strumento generale della politica regionale nazionale. È stato infatti istituito nell’intento di assicurare “finanza di lungo termine” alla programmazione unitaria e continuità agli interventi mediante risorse aggiuntive nazionali con un profilo pluriennale di spesa in grado di coprire l’intero ciclo di programmazione delle risorse. Con la costruzione del Quadro Strategico Nazionale si puntava ad un impiego efficiente delle risorse secondo un metodo unitario, coordinato e coerente, in base a parametri di qualità propri delle politiche di coesione in ambito comunitario, in un contesto di piena cooperazione istituzionale tra Stato e Regioni. Il FAS, secondo quanto stabilito dalla legge istitutiva, avrebbe dovuto essere ripartito esclusivamente con apposite delibere CIPE per investimenti pubblici e per incentivi con finalità di riequilibrio economico e sociale, sulla base del criterio generale di destinazione territoriale delle risorse.

Nel corso del 2008, del 2009, e della prima parte del 2010, invece, il legislatore, anticipando l’opera di ripartizione del CIPE, è intervenuto con rilevanti utilizzi della dotazione FAS per impieghi sovente senza rapporti con le finalità proprie del Fondo, che erano e che avrebbero dovuto restare finalità – meridionaliste – di “sviluppo” territoriale, verso la “coesione” nazionale. Il volume delle risorse FAS che è stato così mobilitato, prima per il finanziamento di interventi di carattere emergenziale e successivamente per misure anticrisi, è stato oggettivamente ingente. I tagli e le preallocazioni operate sono stati pari a circa 19 miliardi di euro (risultanti per 13,7 miliardi dai tagli indicati nella delibera CIPE n. 112/2008, e per i restanti 5,3 miliardi da preallocazioni previste da leggi successive). A ciò si sono però aggiunti numerosi interventi che hanno finito per dirottare risorse del FAS verso indirizzi dispersivi rispetto alla sua missione originaria. La legge n.2/2009 ha previsto la riprogrammazione e la concentrazione delle risorse nazionali disponibili destinate allo sviluppo delle aree sottoutilizzate su obiettivi prioritari per il rilancio dell’economia italiana. L’intera quota nazionale del FAS 2007-2013 è stata collocata in tre fondi, il primo destinato a opere infrastrutturali (e quindi coerente con la mission originaria), e gli altri due a politiche prevalentemente anticongiunturali: uno è stato utilizzato per il finanziamento degli ammortizzatori, e l’altro – accentrato presso la Presidenza del Consiglio – per far fronte in primo luogo all’emergenza in Abruzzo. L’illusione che la crisi potesse colpire meno l’economia meridionale, poi smentita dai fatti, ha alimentato la colpevole illusione di un Mezzogiorno “protetto”, e quindi ha finito per giustificare arretramenti sul terreno delle politiche di sviluppo. Il luogo di una rinnovata programmazione degli interventi strategici per il Mezzogiorno non può che essere una “Conferenza delle Regioni meridionali”, in costante rapporto con la Presidenza del Consiglio. A questo luogo di coordinamento strategico è necessario affiancare una struttura tecnica, un’Agenzia indipendente con elevato grado di competenze tecniche e di indipendenza.

Attuare un federalismo fiscale solidale.

L’assunto fondamentale da noi proposto è che il federalismo, se correttamente inteso, significhi non separatezza, ma complementarità nelle competenze dei diversi livelli di governo; significhi non il disimpegno dello Stato nella regolamentazione e nel finanziamento dei servizi, che trova il suo risvolto nel ricorso abnorme a logiche e strumenti “emergenziali” di fronte a prevedibili fallimenti; significhi interpretare il concetto di sussidiarietà non solo come attribuzione dei poteri al livello più decentrato di governo, bensì tentando di costituire dei meccanismi di responsabilità tali da produrre l’intervento del livello di governo “superiore” – e in definitiva dello Stato, come «assicuratore di ultima istanza» – allorché un maggiore decentramento comprometta le ragioni dell’efficacia, o dell’efficienza (come peraltro previsto dalla Costituzione, che all’art. 118, comma 1, individua nell’adeguatezza e nella sussidiarietà limiti al principio di differenziazione, e all’art. 120, comma 2, prevede interventi sostitutivi ove siano compromessi i livelli essenziali delle prestazioni).

Questa strada appare, tuttavia, difficile da percorrere nelle Regioni a più bassa capacità fiscale. A meno di compromettere ogni capacità di autogoverno del territorio che miri ad un rilancio degli investimenti nella prospettiva di innescare autonomi processi di sviluppo: l’unica strada, questa, per ridurre il grado “dipendenza” e i trasferimenti dall’esterno senza inficiare i diritti di cittadinanza che la Costituzione garantisce a tutti i cittadini. Le questioni che legano il destino del Mezzogiorno alla complessa fase di attuazione del federalismo fiscale vanno necessariamente al di là del finanziamento delle “funzioni normali” degli Enti territoriali, e trovano una “chiave di volta” nello stabilire i modi di utilizzo delle “risorse aggiuntive” e di effettuazione degli “interventi speciali” di cui al quinto comma dell’art. 119 della Costituzione. La norma costituzionale, sul punto, opera un’espressa e netta distinzione tra il finanziamento delle funzioni ordinarie, e l’aggiuntività di interventi destinati dallo Stato a determinati Enti, vincolati al perseguimento di specifiche finalità – «promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale», «rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona» – e, più in generale, per «provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni». L’attuazione del comma quinto dell’art. 119 della Costituzione, può e deve costituire l’occasione, proprio nel rispetto delle norme costituzionali che prevedono una pluralità di livelli di governo, ma affidano allo Stato la competenza in materia, per ridare “disegno” politico all’intervento per il Mezzogiorno, con la ricerca di un nuovo assetto istituzionale, finanziario e contabile del quale si avverte sempre più l’esigenza, di fronte all’indebolimento delle strutture, alla scarsa trasparenza e alla dispersione nell’utilizzo dei fondi, al venir meno di una politica per il riequilibrio territoriale. Questa funzione trova compiuta espressione nel contenuto del comma 5 dell’art. 119 che prevede l’intervento dello Stato, attraverso la destinazione di apposite risorse, per finalità generali di promozione dello sviluppo e della coesione e di rimozione degli squilibri economici sociali, anche in materie di competenza delle Regioni, come precisato dalla Corte Costituzionale nella sentenza 451/2006.

È evidente che, dopo la riforma del 2001, gli interventi aggiuntivi a favore del Mezzogiorno si collocano in questo ambito. Le decisioni che hanno prodotto il dirottamento delle fonti di finanziamento del QSN, unitamente alla tendenza culturale a considerare i servizi essenziali (tra cui, per dire, la sanità) tra i contenuti di una politica di sviluppo, a cui si è diffusamente accennato, introducono un preoccupante elemento di incertezza. Per questa via, a nostro avviso a torto, le Regioni meridionali in difficoltà finanziaria hanno sostenuto – essendo i FAS destinati allo sviluppo e la sanità tra i servizi che possono contribuire ad innalzarlo – la legittimità dell’utilizzo di tali fondi aggiuntivi per ripianare i deficit sanitari, come peraltro previsto dalla legge finanziaria per il 2010. È evidente che tale approccio stride, se non contrasta, con l’impianto costituzionale dell’art. 119, comma 5, della Costituzione, che deve orientare la fase di attuazione del federalismo fiscale.

Bozen. Famiglie povere, aumentano del 30%
La San Vincenzo ne assiste 1400, soprattutto nel quartiere Don Bosco
di Antonella Mattioli
BOLZANO. «Nell'ultimo anno le persone in situazioni di povertà che si sono rivolte a noi sono aumentate del 30%. Oggi, complessivamente, assistiamo 1400 famiglie concentrate in particolare tra don Bosco e i nuovi quartieri oltre via Resia». È preoccupato Mario Ghirardini, presidente della San Vincenzo, perché dal suo osservatorio non vede ancora la fine della crisi che ha provocato un forte incremento del numero dei nuovi poveri. Un fenomeno questo che ha costretto i responsabili dell'associazione a stilare una sorta di graduatoria di bisogno per cercare di soddisfare se non tutte almeno la maggior parte delle richieste. «Ogni mese - dice il presidente - riceviamo dal Banco alimentare di Trento un tir di prodotti alimentari di base che suddividiamo poi in sacchetti e distribuiamo nella sede di via Renon o presso le parrocchie che ci mettono a disposizione i locali. Fino ad un anno riuscivano ad accontentare tutti. Oggi, essendo aumentato il numero, abbiamo dovuto ridurre il contenuto dei sacchetti che a questo punto deve durare per un periodo più lungo». Tra chi bussa alla porta della San Vicenzo accanto ad immigrati in genere e badanti in particolare, momentaneamente senza lavoro, ci sono sempre più spesso altoatesini. In comune hanno spesso la causa che li ha portati in una situazione di povertà: la perdita del lavoro, un divorzio, la dipendenza da videogiochi. «Mi è capitato spesso - dice Roberto Santimaria, che da 30 anni collabora con la San Vincenzo e tiene la contabilità - di trovarmi di fronte ex clienti (è dipendente di una banca di Bolzano, ndr) e ci sono rimasto male: non me lo sarei mai aspettato». Santimaria guarda il fenomeno attraverso i numeri che di per sé sono asettici, ma lo vive anche in prima persona quando ogni sabato sera è di turno dei giardini davanti alla stazione con il Vinzibus. «È il bus della San Vincenzo che tutti i giorni, per 365 giorni all'anno, la sera a distribuire un piatto di minestra calda e un panino ai disperati. Il servizio viene garantito per due giorni dalla San Vincenzo italiana, poi tocca a quella tedesca (presidente il conte Ulrich Toggenburg) e alla Volontarius. In media distribuiamo una cinquantina di piatti a sera, ma alle volte la minestra è finita e c'è ancora gente in fila». Per Santimaria la distribuzione della minestra è anche un'occasione per fare due chiacchiere con i disperati. «Le storie dei nuovi poveri altoatesini sono tutte molto simili. Una vita di prima è stata in genere una vita normale fatta di lavoro e affetti familiari. Poi succede che uno o altro, se non addirittura entrambi, si siano persi ed è lì che è cominciata la discesa. A subire le conseguenze più pesanti della separazione sono gli uomini che, con uno stipendio normale, non ce la fanno a pagare gli alimenti, continuare spesso a pagare il mutuo dell'alloggio che il giudice ha assegnato all'ex moglie e contemporaneamente pagarsi un altro affitto. A questi si aggiungono i malati da videopoker. Giocano tutto quello che hanno e quando le loro risorse finiscono, fanno debiti con le finanziarie». Ma non sono solo storie di sconfitte. «C'è chi ce la fa ad uscire dal tunnel. E il caso di un giovane extracomunitario che veniva a mangiare la minestra in stazione e adesso sta facendo l'esame di assistente geriatrico. C'era anche un meranese che faceva la fame, ma studiava all'università e tutte le sere prima di tornare a casa si fermava in stazione a mangiare un piatto di minestra. Ha ottenuta una borsa di studio ed è in Germania ad imparare il tedesco. Sono sicuro che ce la farà anche lui». Oltre che economicamente, la San Vincenzo aiuta i poveri offrendo loro un sostegno morale. «I nostri poveri - dice Santimaria - andiamo a trovarli a casa. Qualcuno ha l'alloggio e nient'altro. L'arredamento ce il mettiamo noi, recuperando i mobili che altrimenti chi svuota l'appartamento butterebbe via». Cresce dunque il bisogni, ma non i volontari. «Servono giovani che mettano a disposizione degli altri un po' del loro tempo».

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