mercoledì 6 luglio 2011

Il debito sovrano si vince con la competitività

Pietro Reichlin
 Coloro che attribuiscono la crisi del debito sovrano alla mancanza di iniziativa delle istituzioni e dei governi hanno certamente ragione, ma sarebbe sbagliato pensare che il problema può essere risolto con un qualche trucco finanziario: gli eurobond, l'acquisto di titoli sovrani da parte della Bce o una generale garanzia sui debiti (come proposto da Jeffrey Sacks sul Financial Times del 30 giugno scorso). La crisi di debito dei Paesi periferici è in primo luogo dovuta a mancanza di competitività che si manifesta con squilibri crescenti nelle bilance commerciali.


Ma il vero problema è il deficit commerciale
di Emiliano Brancaccio
La stabilità dei conti nazionali e più in generale il profilo di rischio finanziario dell'Italia e di tutta l'Eurozona non dipendono solo dall'andamento dei disavanzi pubblici. Un ruolo almeno altrettanto importante, e forse decisivo, è giocato dall'andamento dei disavanzi verso l'estero, sia pubblici che privati.


 Una semplice crisi di liquidità potrebbe giustificare l'assunzione di garanzie da parte delle istituzioni europee a copertura dei rischi connessi al debito dei Paesi periferici, perché queste politiche hanno il vantaggio di allentare il panico, abbassare i tassi d'interesse e guadagnare tempo in attesa della soluzione dei problemi reali, con perdite contenute per i creditori. Ma la crisi di Grecia, Portogallo, Spagna (e, in misura minore, dell'Italia) non è dovuta a una momentanea e mal riposta mancanza di fiducia degli investitori.
 I dati parlano chiaro. Dalla creazione dell'Unione economica e monetaria, i Paesi periferici hanno perduto competitività nei confronti del resto dell'Eurozona in termini di tassi di cambio reali, a causa di un aumento eccessivo del costo dei servizi e del lavoro (in gran parte dovuto alla stagnazione della produttività). Nello stesso lasso di tempo, gli squilibri commerciali sono aumentati e i Paesi periferici hanno accumulato disavanzi crescenti nei confronti dei partner europei. L'accumulo di tali disavanzi è principalmente causato dal processo di integrazione monetaria e commerciale dell'Eurozona. Un recente lavoro dell'Fmi stima che il volume delle esportazioni dei Paesi europei nei confronti degli altri Paesi dell'Eurozona sono oggi molto più sensibili rispetto alle variazioni dei tassi di cambio reali di quanto non lo siano nei confronti dei Paesi extra-europei. In altre parole, non potremo neanche sperare che una (improbabile) svalutazione dell'euro possa far tornare Grecia, Portogallo, Spagna e, in minor misura, Italia sulla strada giusta.
 La scommessa alla base dell'Uem è la determinazione di un equilibrio in cui un insieme di Paesi con culture, redditi e istituzioni diverse, possono crescere insieme senza ricorrere a trasferimenti unilaterali eccessivi nei confronti delle aree svantaggiate. Sappiamo, tuttavia, che i regimi di cambio fissi tendono a produrre maggiori squilibri commerciali. Dunque, una scommessa rischiosa che può avere successo a determinate condizioni.
 Le caratteristiche del mercato interno di ogni Paese dell'Eurozona deve adattarsi alle condizioni economiche sovranazionali. Ciò significa una maggiore liberalizzazione nella circolazione di lavoro e capitale, politiche che favoriscano l'afflusso di investimenti diretti verso i Paesi periferici, liberalizzazioni per ridurre il peso dei settori protetti, una riqualificazione della spesa pubblica che favorisca la crescita del capitale umano e dell'innovazione, un sistema più efficiente di relazioni industriali e un alleggerimento della tassazione su lavoro e imprese.
 A conferma di ciò, molti studi empirici concludono che, tra i Paesi che aderiscono a regimi di cambio fisso, quelli che hanno una maggiore capacità di contenere i disavanzi commerciali sono caratterizzati da mercati più flessibili, del lavoro e dei prodotti.
 I commenti sulla manovra del Governo di questi giorni si sono concentrati molto sulla dimensione dei tagli e delle entrate. Ma se la manovra non affronta i problemi che sono alla base della mancanza di competitività del nostro Paese, l'obiettivo di portare il disavanzo primario in territorio negativo nei tempi previsti potrebbe non essere sufficiente. Non sarà certo un punto in più di Iva, una piccola rimodulazione delle aliquote Irpef o una tassa sul trading bancario a fare dell'Italia un Paese più competitivo.
http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2011-07-06/debito-sovrano-vince-competitivita-064226.shtml?uuid=AaB9idlD


I differenziali tra i tassi d'interesse sui titoli tedeschi e quelli dell'Italia e degli altri Paesi "periferici" dell'Unione monetaria europea continuano ad aumentare. È questo il sintomo più evidente di una crisi dell'unità europea che le politiche finora poste in essere non sembrano in grado di risolvere. Ma quali sono le cause delle attuali difficoltà dell'Eurozona? L'opinione prevalente individua negli eccessi di indebitamento pubblico l'origine di tutti i mali. Paesi come la Grecia, caratterizzati da una elevata spesa pubblica rispetto alle entrate fiscali e quindi da ingenti disavanzi statali, starebbero mettendo in pericolo la tenuta dell'euro. È noto che nel dibattito politico tale opinione non viene quasi mai criticata.

Nel campo dell'analisi economica, invece, crescono i dubbi intorno alla sua validità. Già ai primordi della moneta unica alcuni economisti eterodossi avevano avanzato il sospetto che il vero tallone d'Achille dell'euro potesse risiedere non tanto nella crescita dei debiti pubblici quanto piuttosto nell'accumulo di debiti verso l'estero, sia pubblici che privati, da parte di alcuni Paesi membri, e di corrispondenti crediti verso l'estero da parte di altri. E i dati sembrano in effetti avere più volte confermato questa tesi alternativa. Per giunta, dopo la grande recessione mondiale, la sensibilità degli spread all'andamento dei disavanzi esteri pare essersi addirittura accentuata. L'attenzione verso gli squilibri nei conti con l'estero è dunque cresciuta, anche tra gli esponenti della cosiddetta ortodossia economica. L'economista tedesco Daniel Gros, per esempio, ha fatto notare che tra l'andamento dei conti esteri dei Paesi membri dell'Unione nel periodo 2007-2009 e gli spread del febbraio 2011 esiste una correlazione elevata.

In effetti sono numerose le ragioni per cui il rischio di insolvenza può essere associato più facilmente all'accumulo di debiti verso l'estero che alla crescita del solo debito pubblico. Gros, per esempio, fa notare che se il debito pubblico è in prevalenza nelle mani dei residenti di un Paese, il Governo potrebbe costringerli a pagare una imposta per coprire il pagamento delle cedole che essi si attendono dal possesso dei titoli. Applicata anche solo parzialmente, questa ricetta può in effetti tutelare uno Stato dal rischio di insolvenza. Essa tuttavia non è praticabile qualora il debito sia nelle mani di possessori stranieri, i quali non ricadono sotto la giurisdizione fiscale dello Stato di cui sono creditori. Uno Stato indebitato verso l'estero dispone dunque di una possibilità in meno per coprire i pagamenti dovuti, e risulta quindi maggiormente esposto all'eventualità del fallimento.

Ma vi sono spiegazioni anche più profonde della maggiore rischiosità dell'indebitamento estero. Ad esempio, è importante notare che un Paese tende al deficit commerciale verso l'estero quando vende poco agli altri Paesi e compra molto da essi. Il disavanzo con l'estero può quindi esser visto come una spia della scarsa competitività del sistema produttivo nazionale. Oltre un certo limite, allora, la crescita dei debiti esteri potrebbe indurre le autorità del Paese in questione ad abbandonare la moneta unica e a effettuare una svalutazione per recuperare margini di competitività. Per quanto improbabile, questa eventualità induce i creditori esteri a chiedere tassi d'interesse più alti per cautelarsi contro il rischio che in futuro si verifichi un deprezzamento della valuta nazionale, e che questo sia accompagnato da una riduzione del valore dei titoli di cui sono in possesso. Ancora una volta, al debito estero, pubblico e privato, si attribuisce la maggiore rischiosità.

Il dibattito sembra dunque essersi soffermato troppo sui pericoli derivanti dall'indebitamento pubblico mentre pare aver trascurato le minacce provenienti dagli squilibri nei conti esteri, e in particolare nei rapporti di debito e credito tra i Paesi dell'Eurozona. Ciò è tanto più grave se si considera che nel corso dell'ultimo decennio gli squilibri commerciali tra i Paesi dell'Eurozona hanno raggiunto dimensioni senza precedenti, e non si sono quasi per nulla attenuati dopo la grande recessione. In particolare, nonostante una crescita del reddito modestissima, nel 2010 l'Italia ha fatto registrare un deficit verso l'estero in rapporto al Pil del 4,2%; la Spagna del 4,5%, il Portogallo del 9,8%, la Grecia dell'11,8 per cento. Di contro, la Germania ha conseguito un surplus verso l'estero del 5,1 per cento. Le politiche economiche, nazionali ed europee, dovrebbero iniziare ad affrontare questo problema, più grave e logicamente prioritario rispetto al tema della stabilità dei soli conti pubblici.
 6 luglio 2011

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