giovedì 7 luglio 2011

La Cina crea ogni anno 800 mld di riserve per fare politica estera

di Edoardo Narduzzi  
La macchina dell'attivo commerciale cinese continua a viaggiare a pieno ritmo. Le statistiche più recenti indicano in circa 200 miliardi di dollari trimestrali l'ammontare di nuove riserve prodotte dalle esportazioni di Pechino al resto del mondo. Valori importanti perché certificano che ogni tre mesi le autorità cinesi accumulano nuova ricchezza disponibile per fare investimenti in giro per il globo al servizio della propria strategia.


E che offrono una fotografia nitida di quanto si siano divaricati gli equilibri nella globalizzazione: l'attivo commerciale cinese significa tanti disavanzi di altrettanti Paesi che accumulano nuovi debiti al netto dell'opzione di aumentare le tasse oppure di vendere proprietà per restare in equilibrio. I numeri delle riserve valutarie in continua accumulazione a Pechino certificano anche la nuova forza cinese nello scacchiere delle relazioni internazionali. La Cina non dispone ancora di una capacità militare comparabile a quella statunitense e quindi non è in grado di utilizzare questa leva per indirizzare il corso degli eventi internazionali. Pechino non può, ad esempio, decidere di poter fare delle guerre preventive in Iraq, non disponendo di una macchina bellica altrettanto avanzata ed organizzata quanto quella degli Usa. Ma il governo cinese vanta ora una capacità economico-finanziaria unica al mondo. Rispetto a quanto per decenni hanno fatto la seconda, il Giappone, e la terza, la Germania, economia al mondo anch'esse con cospicui e costanti attivi commerciali, la neo seconda economia più grande del pianeta è interessata a gestire politicamente le riserve accumulate. Quelle giapponesi e tedesche sono state soprattutto delle riserve private, cioè gestite dalle imprese esportatrici che le maturavano, che nel tempo sono state utilizzate per finanziare l'espansione internazionale delle rispettive multinazionali o per finanziare la ricerca. L'attivo commerciale cinese, invece, è molto più gestito dalle organizzazioni direttamente riconducibili al governo di Pechino: fondi sovrani, banche o società finanziarie a capitale pubblico, investimenti diretti della banca centrale nei mercati valutari ed obbligazionari. La presenza della domanda o meno di una società cinese oggi determina il successo di un collocamento finanziario ed anche il livello di spread tra titoli. Un potere enorme che peraltro continuerà a crescere nei prossimi anni e che fa di Pechino un soggetto del tutto eccezionale nella politica estera contemporanea: un neocolonialismo finanziario difficile da monitorare ma con elevate potenzialità di impatto sugli equilibri globali.
 

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