lunedì 1 agosto 2011

Federali.Mattino_1.8.11. Mimmo Sammartino: Lucani a secco. Il pieno a buon mercato può attendere. Siamo alle solite. Si concede con la mano destra e si toglie con quella sinistra. Ci si gonfia il petto da Roma in giù, si pongono i veti in quel di Padania.----Per il presidente Nichi Vendola saranno ferie meno calde del solito: la pace col governo nazionale - dopo oltre un anno di braccio di ferro e colpi di ricorsi dinanzi alla Consulta - sembra fatta. Le ripicche con l’ex governatore Fitto morte. E Tremonti, che tuonava contro la Puglia modello Grecia non è mai stato così disponibile al confronto.

Il Tar blocca il bonus benzina per la Basilicata
Intervista a Vendola. Per il Sud dal governo uno scatto di reni
Una sola Svizzera? No, molte!
Per una Svizzera operosa, dinamica e aperta


Il Tar blocca il bonus benzina per la Basilicata
di MIMMO SAMMARTINO
Lucani a secco. Il pieno a buon mercato può attendere. Siamo alle solite. Si concede con la mano destra e si toglie con quella sinistra. Ci si gonfia il petto da Roma in giù, si pongono i veti in quel di Padania. Non c'è pace per il bonus carburanti nelle regioni interessate dalle estrazioni petrolifere. Basilicata in testa. Mentre i lucani, fra sostenitori e detrattori della card idrocarburi, si stanno affannando a mettersi in fila (e che file) per racimolare gli spiccioli (novanta euro all'incirca) per il buono benzina relativo al primo micro-sconto a vantaggio dei patentati residenti in Basilicata, il Veneto ha preparato lo sgambetto. Ha presentato ricorso al Tar del Lazio ritenendo di essere ingiustamente escluso dai benefici. E il Tar, accogliendo il ricorso - come riportato dal sito web «Staffetta quotidiana», specializzata in tematiche energetiche - ha congelato tutto fino al marzo del 2012. Per ora la benzina si paga. Come prima. Anzi (visti gli aumenti in corso) più di prima.

All'orgine di questo guazzabuglio c'è la legge 99 del 2009, quella che ha previsto una maggiorazione del 3 per cento sulle royalty che le compagnie petrolifere devono versare nei confronti dello Stato. Una risorsa aggiuntiva che è stata destinata alla riduzione del prezzo dei carburanti nelle regioni interessate dalle estrazioni di petrolio e gas. Poi, in seguito a un emendamento preteso dalla Lega, a queste regioni si sono aggiunte anche quelle interessate da attività di rigassificazione «attraverso impianti fissi offshore». Una opzione che mirava a includere fra i beneficiari proprio il Veneto, dove non si estrae petrolio però, dal 2009, è sede del rigassificatore di Porto Vigo (centro in provincia di Rovigo).

Ma, quando sono state effettuate le ripartizioni, il Veneto è rimasto tagliato fuori. Così ha presentato ricorso. Il tesoretto per il bonus carburanti quest'anno ammonta a circa 38 milioni e 500 mila euro. Di questa cifra, in proporzione al contributo energetico offerto al Paese, la parte maggiore (33 milioni) è attribuita alla Basilicata che, da sola, copre la quasi totalità della produzione di greggio e gas attualmente assicurata in Italia. Il resto è andato al Piemonte (2 milioni e 450 mila euro), alla Puglia (un milione e 896 mila euro), alla Calabria (558.500 euro), al Molise (214 mila e 700 euro), alle Marche (87 mila e 250 euro), all'Emilia Romagna (365 mila e 860 euro).

E adesso che cosa potrà accadere? A parte l’ovvia ressa di polemiche e contro polemiche, bisognerà attendere. Per il momento il Tar del Lazio, considerando valide le argomentazioni della Regione Veneto, ha detto «stop» al provvedimento col quale, lo scorso novembre, il Ministero dell’Economia aveva istituito il fondo. La discussione di merito è stata fissata alla prossima primavera (21 marzo 2012). Salvo un ribaltamento da parte del Consiglio di Stato, per i lucani resta confermato il regalo delle trivelle sul territorio. Ma lo sconto per il pieno non è... scontato.

Intervista a Vendola. Per il Sud dal governo uno scatto di reni
di BEPI MARTELLOTTA
«Per la classe dirigente di destra si è trattata di una vera cartina di tornasole della propria credibilità, per il ministro Fitto di un colpo di reni che si riverbera positivamente anche sulle relazioni umane con la Regione Puglia». Per il presidente Nichi Vendola saranno ferie meno «calde» del solito: la pace col governo nazionale - dopo oltre un anno di braccio di ferro e colpi di ricorsi dinanzi alla Consulta - sembra fatta. Le ripicche con l’ex governatore Fitto morte. E Tremonti, che tuonava contro la «Puglia modello Grecia» non è mai stato così disponibile al confronto.

Presidente, il Fas è sbloccato e sui vincoli del Patto di Stabilità si può trattare. Che è successo? Siamo passati dalle scelte talvolta socialmente sadiche del ministro dell’Economia, accompagnate dal colpevole silenzio dei parlamentari pugliesi del Pdl, alla convergenza sul bene supremo dei territori e del Sud. Abbiamo lavorato mesi con Fitto per raggiungere questo obiettivo, pur avendo molte ragioni per diffidare: un governo sempre più ostaggio della Lega ha per anni occultato la crisi, passando dal film «E la nave va» al «Titanic», e ha premiato le aree più forti del Paese, rompendo i salvadanai del Sud per soddisfare persino i «capricci » delle clientele leghiste. In questo contesto il piano per il Sud promosso da Fitto appariva una beffa, ma il lavoro congiunto ha rotto gli schemi.

Complici, anche, la resa dei conti in atto tra Berlusconi e Tremonti - ovvero il Pdl e la Lega - e le inchieste della magistratura? Ci sono certamente ragioni politiche, a partire dalla verifica delle qualità delle leadership all’in - terno della maggioranza. Ma mi interessa di più trovare punti d’in - tesa con il mio avversario o riconoscerne la lealtà di fronte a situazioni difficili.

Che si aspetta, ora che il negoziato è sbloccato? Tre cose. La prima è chiudere la partita del trasferimento di risorse che ci spettano; la seconda è la loro spendibilità, quindi la modifica del Patto di stabilità: abbiamo segnali rassicuranti da Tremonti e l’impe - gno di Fitto. La terza è la deroga sulle assunzioni in sanità: perdere 300 medici significa non solo mettere a rischio il diritto alla salute, ma anche vanificare i risparmi concordati nel piano di rientro, consentendo una ripresa della mobilità passiva (le cure in altre regioni, ndr).

Nel frattempo monta la rabbia contro la casta, che non riesce a tagliare i propri costi né a Roma né a Bari. O no? Più che una casta, la politica sembra la sentinella delle caste, quelle che fanno 150 miliardi di evasione fiscale all’anno. Sul banco degli imputati ci sono i politici corrotti, non ci sono mai i corruttori. È quella borghesia che chiede l’esenzione da qualunque tipo di sacrificio, che ha goduto dei benefici del berlusconismo e che oggi molla il signore di Arcore per cercare un nuovo garante politico. I parlamentari o i consiglieri regionali sono davvero una piccola casta, tutt’al più diventano sentinelle degli ordini professionali, delle lobby economico- finanziarie, delle banche o delle aziende. Ciò detto, la politica deve dare prova di austerità e sobrietà e recuperare la propria autonomia dal ruolo di intermediario di interessi lobbistici e corporativi. Persino il Transatlantico è diventato un suq, dove si vendono e si comprano i voti: l’Italia degli Scilipoti ha prevalso sulla tutela del bene comune e l’antipolitica rischia di diventare il più forte e paradossale dei partiti.

Vabbé, ma qualche taglio significativo ci voleva o no? C’è molta retorica sui tagli: invece di abolire le Province, che costano 2,5 miliardi, Tremonti fa il pelo alle sedi dei governi regionali. È ridicolo. Invece di controllare le opacità e i flussi di spesa, si tagliano le risorse per le pubbliche amministrazioni, ovvero si tagliano i servizi ai cittadini. Non è questa la strada.

Poi c’è la questione morale, che sta batostando tutti, a destra come a sinistra. È per questo che dico da mesi al centrosinistra che è arrivato il momento di aprire un grande cantiere, in cui anche questo tema non diventi una resa dei conti tra gruppi e sottogruppi, ma un obiettivo comune e uno strumento di qualità della democrazia. C’è una differenza enorme tra noi e il centrodestra: noi facciamo pulizia, mentre quando c’è il marcio a casa loro si apre la caccia ai pm. La differenza però non basta. Dobbiamo saper andare oltre se vogliamo costruire l’alter nativa.
Costruirla come? Il suo partito, Sel, dialoga con Pd e Idv, ma sembra che stiate ancora lì a prendervi le misure. Sel è nata da meno di un anno e senza un euro in tasca: più che una leadership, spesso ho ruolo di surroga mentre governo una regione di 4 milioni di abitanti. Ciononostante, siamo la quarta forza politica nazionale e non coltiviamo un recinto: portiamo proposte. Non sto giocando la partita del mio successo personale, ma non ho nessuna intenzione di mollare il campo: voglio liberare il centrosinistra dalle inutili contese tra «riformisti» e «radicali», liberarlo dalle ipocrisie del definirsi «compagni», quando si può essere semplicemente amici in una battaglia comune. Voglio costruire una grande sinistra popolare e post-ideologica. Se ci riuscirò bene. Altrimenti, non si vive di sola politica.

Una sola Svizzera? No, molte!
di Giovanni Ruggia - 07/30/2011
Qualche anno fa aveva suscitato enorme scalpore il padiglione svizzero all’esposizione mondiale di Siviglia, che veicolava lo slogan “Suiza no existe”.
Apriti cielo! Seguì un diluvio di proteste nei media e presso le autorità, una reazione di orgoglio nazionale. Se non altro l’esposizione aveva dimostrato che esistono gli Svizzeri e che, se provocati, reagiscono fieramente. Ma se ci si riflette un attimo gli autori del padiglione svizzero non avevano torto.
Non esiste “la” Svizzera, ne esistono molte. Almeno le quattro classiche (tedesca, francese, italiana e romancia), alle quali spesso si aggiunge la quinta, gli Svizzeri all’estero.
Se chiedete a uno Svizzero di rivelarvi quali sono le cose che contano nella sua identità, comincerà a parlarvi del suo cantone o addirittura della sua valle, non della Confederazione e della sua missione nel mondo.
Questi concetti fanno parte del nostro modo di pensare, questa mitologia della Svizzera plurima ce la propinano in tutte le salse già a partire dalla scuola dell’infanzia. E allora perché queste reazioni violente allo stand che, seppure in modo provocatorio, affermava un basilare aspetto dell’identità svizzera?
Lo spezzettamento etnico e linguistico nelle regioni di montagna, per l’isolamento dovuto alle difficoltà di comunicazione da una valle all’altra, provoca un forte senso di indipendenza, di autarchia, che favorisce il tradizionalismo e lo scetticismo nei confronti del nuovo, anche perché l’ambiente e la vita di sussistenza sono duri e difficili ed è raro che una novità culturale porti dei vantaggi evidenti al primo impatto.
Molte caratteristiche regionali svizzere sono presenti anche nei vicini d’oltreconfine, i dialetti, le pratiche religiose, le tradizioni popolari, la gastronomia. Pensate agli orologi nel Giura francese e nella Foresta Nera, alla fondue in Savoia e Valle d’Aosta, alla polenta in Lombardia. I confini netti sono stati definiti dagli stati ma non esistono nella realtà culturale. L’identità di una persona è multipla, a più dimensioni, e certi aspetti sono condivisi con cittadini degli stati confinanti. Per certi aspetti molti Svizzeri sono più affini ai loro vicini d’oltreconfine che ai loro connazionali.
Casi simili si possono trovare in altre regioni dell’arco alpino, nei Pirenei, nel Caucaso e anche fuori dall’Europa, per esempio in Afghanistan.
La storia svizzera è piena di episodi di guerre, non solo per l’indipendenza da potenze esterne che desideravano il controllo sui passi alpini, ma anche lotte fratricide per la supremazia interna, guerre di religione combattute in modo cruento, non dissimili da quelle combattute altrove oggi.
Nessuna parte è mai riuscita ad avere il sopravvento e a riunire tutto il paese sotto un’unica identità nazionale come altri stati d’Europa e col tempo la prudenza politica ha portato a fare in modo da smussare le differenze, a sottolineare aspetti che potessero unire, dalla lotta per affrancarsi dall’egemonia di potenze straniere, allo sviluppo di aspetti tecnici (la famosa precisione svizzera), dove è poco probabile che possano nascere vertenze fatali. Il gioco ha funzionato così bene che poco a poco ci siamo illusi che esista una identità nazionale svizzera e ci arrabbiamo violentemente quando ci si fa notare che questa è solo un fantasma… o forse un enigma come sottolineava un’esposizione del 2008 nei musei di Lugano. Non vi sentite importanti a far parte di un enigma della storia?
La tradizione vuole che la battaglia di Kappel sia stata evitata grazie a una zuppa, la leggendaria Zuppa di Kappel.
Gli eserciti cattolico e protestante pronti per una carneficina fratricida, pare che abbiano saggiamente deciso di riunirsi attorno a una grande caldaia dove cuoceva una zuppa a base di latte e ogni soldato abbia intinto il proprio pane raffermo.
Alcuni sostengono che questo abbia dato origine alla ‘fondue’, essenzialmente una miscela di formaggi fusi e vino bianco, con aggiunta di un po’ di kirsch (distillato di ciliegie) e spezie, che cuoce piano piano su un fornello posto al centro della tavola, in cui i commensali intingono pezzetti di pane.
Di solito la si prepara per le occasioni conviviali, con familiari e amici, al ristorante o a casa. È forse l’unico piatto veramente popolare su tutto il territorio della Confederazione. Il simbolo della nostra identità? Chissà!
Oggi con le identità in fermento, con i cambiamenti in atto in tutt’Europa, dovute alle nuove migrazioni, vi propongo una modifica della ricetta tradizionale, una modifica multietnica e multiculturale, con due nuovi ingredienti, la vodka jubrovka, al posto del kirsch, e la harissa, invece del pepe. La vodka jubrovka è prodotta in Polonia: al distillato ordinario si aggiunge in infusione un’erba, la jubrovka appunto, che è molto apprezzata anche dal bisonte europeo; la harissa è un preparato tradizionale della Tunisia, a base di peperoncino piccante.
Prendetela come una ricetta ‘fusion’, che coniuga le tradizioni alpine con quelle continentali europee e quelle mediterranee, senza trasformarle in un insipido coacervo globalizzato, un’icona della Svizzera dei miei sogni.
Per terminare su una citazione amena, James Flint, nel suo romanzo “Habitus” definisce la Svizzera “un crogiolo di montagne dove il virus del rilevamento del tempo si era manifestato e trasformato fino a diventare così aggressivo da contagiare e ridurre in schiavitù il mondo intero.”… e dire che gli orologi a cucù non li abbiamo nemmeno inventati noi.

Per una Svizzera operosa, dinamica e aperta
di Matteo Caratti - 07/30/2011
Anche nel nostro Paese cresce il senso d’impotenza e con esso il disorientamento, che può diventare l’anticamera di pericolose derive. Sono questi i due sentimenti che vanno per la maggiore alla vigilia di questo Primo agosto.
In pochi anni è la seconda volta che dobbiamo fare i conti con i nefasti effetti di scelte sbagliate nelle (dorate) stanze dei bottoni della Bahnhofstrasse. Era appena successo un paio di anni fa con il salvataggio di Ubs, banca globale in crisi per i gravi errori del suo management, salvata dal fallimento dalla sola Confederazione a colpi di miliardi di franchi pubblici della Banca nazionale. Un salvataggio che non ci ha però sottratti da una ricaduta della crisi finanziaria sull’economia reale. Ricaduta che riempie ancora, in negativo, proprio le cronache di questi ultimissimi giorni per i tagli occupazionali dei due maggiori istituti, bandiere della nostra piazza finanziaria.
Mentre stavamo comunque tirando un attimo il fiato intravedendo i primi pallidi segni di ripresa, ci è invece caduta fra capo e collo una nuova tegola.
La tegola del franco sempre più forte rispetto a euro e dollaro.
Anche in questo caso noi cittadini svizzeri non potevamo, né possiamo fare nulla. Anzi! Ci siamo trovati a fare i conti con una nuova insidiosa crisi perché – e sembra paradossale – tutti vogliono investire (o speculare) sul franco, moneta sicura di un Paese che ha saputo essere particolarmente virtuoso.
Ma come? I nostri Comuni, i Cantoni e la Confederazione presentano bilanci che fanno invidia a parecchi Paesi europei e agli Stati Uniti, noi svizzeri siamo stati formiche mentre altri facevano le cicale, e adesso dobbiamo soffrire anche per i vizi altrui?
Una situazione che non fa altro che alimentare il senso di profonda impotenza di fronte a vasi talmente comunicanti da sembrare uno solo. E molto probabilmente lo sono.
Ma non è tutto. A queste gravi situazioni esterne, che hanno nuovamente effetti concreti sui bilanci familiari spinti al ribasso, c’è chi non esita ad affiancare messaggi politici deresponsabilizzanti: della serie: “Vedete? Noi siamo a posto, abbiamo le carte in regola, e dobbiamo pagare per le colpe degli altri”. E di altri, in questi mesi, ne abbiamo incrociati parecchi nel dibattito politico anche nostrano: i frontalieri (rubano il lavoro), le commissioni contro il razzismo (da sciogliere), i richiedenti l’asilo (perché non è vero che l’Africa brucia e crepa), i rom (sempre ladri), gli zingari (senza più nemmeno un metro quadrato per fare sosta)...

Insomma, si sta sempre più facendo strada la tesi che i colpevoli delle nostre disgrazie siano sempre e solo gli altri, meglio ancora se gli altri sono deboli e senza voce. E stranieri!
Sul fronte opposto tutto o quasi tace: il fatto che il motore elvetico senza chi viene da fuori non romberebbe lo ricordano in pochi. Troppo pochi di fronte ai messaggi denigratori, se non persino violenti, fatti passare per satira domenicale e anche settimanale. La caduta dell’ultimo diaframma dell’AlpTransit, con uomini provenienti da ogni dove sotto il massiccio del San Gottardo a brindare, è una realtà non solo da rammentare, ma da ammirare.
Quella è la nostra Svizzera, operosa, dinamica, aperta, che guarda con fiducia al domani da costruire assieme. Non sprezzante, menefreghista e xenofoba.
Stiamoci attenti. Idee velenose e miopi come quelle oggi in auge potrebbero un domani accendere la miccia di un miscuglio che potrebbe figliare derive dal sapore antidemocratico. O suggerire alle teste più calde (e vuote) di arrangiare le cose a modo loro. La ferita norvegese la dice lunga su come chi semina vento si ritrovi un giorno a raccogliere tempesta. Per poi dire di non c’entrarci niente.
La Storia insegna: quando non si sa più bene che pesci pigliare, quando a certe domande vengono date solo certe primitive risposte, sono i pifferai magici a fare proseliti. Sessant’anni fa a Nord avevano i baffetti, a Sud le camicie nere.
Non dimentichiamolo quando a ottobre dovremo rieleggere i timonieri della nostra beneamata Elvezia.

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