domenica 21 agosto 2011

Federali.Sera_21.8.11. Svizzera. Matteo Caratti: È giunto il momento di puntare su un capitalismo capace indubbiamente di premiare chi ha voglia di lavorare, di creare ricchezza (quella vera e duratura), ma che nel contempo sappia promuovere un’equità nella redistribuzione della ricchezza (dei redditi). Un capitalismo che sappia pure far crescere un Paese grazie alla ricchezza effettivamente prodotta. E dietro a quell’effettivamente deve esserci imperativamente una scelta di fondo: chi specula in Borsa come (in altri tempi) nell’acquistare e vendere immobili, facendo semplicemente lievitare artificialmente i prezzi e quindi generando instabilità che poi ricade sui più deboli, va tassato di più, rispetto a chi genera ricchezza effettiva faticando, sudando le classiche sette camicie!----Padova, padania. Aldo Comello: Bandiere sporche, stanche, tristi, spiegazzate, appese ad un filo come biancheria stesa ad asciugare. Bandiere attorcigliate, polverose, dimenticate fuori dalla finestra di un appartamento spopolato dalle ferie. Bandiere che cadono come un cespo di verdura vizza.


Padova, padania. Finiti i festeggiamenti restano i tricolori scoloriti, tristi e polverosi.
Salvataggio di lusso per l’Italia
Svizzera. Capitalismo: se mancano le regole...



Padova, padania. Finiti i festeggiamenti restano i tricolori scoloriti, tristi e polverosi.
di Aldo Comello
PADOVA. Bandiere sporche, stanche, tristi, spiegazzate, appese ad un filo come biancheria stesa ad asciugare. Bandiere attorcigliate, polverose, dimenticate fuori dalla finestra di un appartamento spopolato dalle ferie. Bandiere che cadono come un cespo di verdura vizza.
 Lo smalto brillante della grande festa tricolore per i 150 anni dell’Unità d’Italia culminata il 17 marzo si è appannato in questi giorni di canicola: l’entusiasmo che la ricorrenza e gli eventi culturali erano riusciti ad accendere si è spento. Eppure fino a qualche mese fa la canzone «Viva l’Italia» di Francesco De Gregori si incrociava con le note malinconiche ma fervide di amor patrio di «Addio, mia bella, addio l’armata se ne va».

 E c’erano vetrine tricolori di abbigliamento, di saponette, di alimentari e la Sala della Ragione, come uno smisurato carro mascherato, era stata vestita di bianco, rosso e verde per tutta la lunghezza delle logge. Non che fosse bellissimo, ma era significante di un entusiasmo condiviso, di una voglia di celebrare, di ricordare che ora sembra svanita. Anche se l’anno della ricorrenza è ancora in corso, anche se, noi veneti, liberati e annessi nel 1865, dovremo rinverdire la festa tra 4 anni. Il Pedrocchi, lo storico Caffè nelle cui sale l’8 febbraio 1848 si accese lo scontro sanguinoso tra i soldati austriaci, con le divise bianche, i pesanti fucili e le micidiali baionette e studenti e popolani «per improvvisa concordia terribili» non inalbera più alcuna bandiera, anche se il foro di una pallottola di grosso calibro sul muro della sala bianca ricorda l’evento.
A questa fiacca che ha colpito le bandiere, ha tolto loro colore, le ha anemizzate, si può dare anche un significato metaforico: la crisi economico-finanziaria, la crisi di identità del Paese, le difficoltà del governo, l’impressione di camminare sull’orlo di un baratro ci hanno fatto dimenticare quella storia che oggi potrebbe riscattarci da una visione di noi stessi negativa. Gli uomini che combatterono per l’Unità, furono temerari e lungimiranti con un’idea attuale del paese che stavano disegnando con una precisa percezione dei valori che dovevano far da architrave del nuovo Stato.

 E’ questa l’Italia che sognavano e questa l’Italia che i padri costituzionali avrebbero voluto? Ci sono molti aspetti che affratellano Risorgimento e Resistenza (messi in rilievo in una serie nutrita di convegni) prima che il grande deserto delle vacanze e lo sgomento della crisi facessero il vuoto in città. Vuoto di idee e vuoto di passioni. Eppure, mai come oggi abbiamo avuto bisogno delle nostre bandiere, di sentirci uniti sotto un unico simbolo, di seguire un alfiere che faccia sventolare il tricolore.

 In piazza Insurrezione la Camera di Commercio mostra una serie di pennoni vuoti, come alberi di una nave naufragata. E sulla terrazza dell’Inps c’è un tricolore, striminzito e scolorito. Anche il vessillo all’ingresso di un palazzo di via Verdi è attorcigliato come un fazzoletto sporco. Sul listòn sventola la bandiera del Comune, c’è un alito di vento che la gonfia e la fa apparire più grande e più bella, la bonaccia è una maledizione per le bandiere. Anche il palazzo della Provincia, con la sede della prefettura è ben imbandierato. Non così il Bo. E pensare che l’Università - laboratorio di pensiero e di ribellione, con tutti i suoi martiri - è stata insignita della medaglia d’oro al valor militare. La banca di fronte al Pedrocchi inalbera un vessillo che sembra una bandierina di carta e che lascia vedere solo il verde del tricolore. Niente bandiere in piazza del Duomo. E d’altra parte questo collettivo intepidirsi delle celebrazioni, questa eclissi di simboli ha una sua logica se pensiamo alle grandi feste nazionali che vogliono cancellare dal calendario: non ci sarà più il Primo Maggio, il 25 aprile forse sarà celebrato in sordina, ci restano le feste religiose o la Befana. Ma uno spirito nazionale fondato sulla «vecia» fatica ad essere brillante e vitale. Signori, riprendiamoci le nostre bandiere ora annerite dalle polveri sottili, dal fumo degli scarichi, infradiciate dall’umidità. Una volta ritornati dalle ferie. Mettiamo a bagno il tricolore e rimettiamolo alla finestra pulito, sgargiante, con i suoi colori nitidi e brillanti. Sarà un bucato che serve a rafforzare lo spirito, a farci sentire uniti in uno dei momenti più difficili della nostra storia recente. 21 agosto 2011

Salvataggio di lusso per l’Italia
di Barbie Latza Nadeau – 17 luglio 2011
Articolo originale "Italy’s Luxury Bailout" di Barbie Latza Nadeau
Pubblicato in: USA
Traduzione di ItaliaDallEstero.info
La crisi economica che ha investito l’Europa, portando la Grecia sull’orlo del caos, fa un’altra vittima: l’Italia.
Con il crollo di azioni e titoli di stato delle ultime settimane, i Ministri dell’economia europei si sono radunati in riunioni d’emergenza e, con fronti corrugate e sopracciglia inarcate, hanno messo sotto pressione i governanti italiani, che in risposta hanno annunciato un piano di austerity che prevede tagli per quasi 68 miliardi di dollari.
Come per l’economia, un’altra crisi, sebbene di minor risalto all’estero, sta investendo il paese: gli antichi monumenti e il patrimonio culturale italiano stanno crollando. Venezia affonda, il Duomo di Firenze mostra crepe e si sfalda, mentre in Sicilia le antiche chiese Normanne sono barricate con assi.
Che antiche strutture si degradino con il passar del tempo non è una novità. Ma le sventure italiane non si fermano al travertino. Dal 2008 ci sono state ben 15 gravi emergenze archeologiche nell’area di Pompei e molte altre nel resto nel paese, causate da negligenza e tagli di bilancio. Il tetto della Domus Aurea di Nerone a Roma ha ceduto, distruggendo una galleria e un soffitto dorato. Nel Colosseo, tre grandi pezzi di malta sono caduti al suolo poche ore prima che il monumento aprisse al pubblico. E l’antica città che il vulcano non cancellò completamente, potrebbe essere finita dalla mancanza di fondi: a novembre la bimillenaria “Schola Armaturarum” di Pompei è crollata in un cumulo di macerie.
Sebbene l’Italia possegga il maggior numero di siti UNESCO al mondo, il bilancio per la cultura è stato dimezzato negli ultimi tre anni da 603 milioni a 340 milioni di dollari, sufficienti appena per la manutenzione o la preservazione. “Chi dice che il taglio al bilancio per la cultura in un paese come l’Italia è la giusta soluzione non capisce niente”, sostiene il Ministro della Cultura Giancarlo Galan e avverte che altri tagli al bilancio non solo metteranno in pericolo le opere d’arte e i tesori artistici, ma faranno cattiva pubblicità all’estero.

Poche settimane fa l’associzione per la protezione del patrimonio nazionale italiano, Italia Nostra, ha lanciato un segnale di emergenza, richiedendo all’UNESCO di inserire Venezia nella sua lista di siti in pericolo, per cercare di fermarne la distruzione. “Se volete Venezia senza le lagune, allora continuate a tagliarci i fondi” dice Lidia Fersuoch, presidente della sezione veneziana di Italia Nostra. “Abbiamo un turismo incontrollato a Venezia (…) e il Canal Grande è diventata un autostrada per le barche. Allo stesso tempo nessuno investe in restauri o manutenzione. Di questo passo non rimarrà più niente.”
In gioco non vi è solo l’attaccamento sentimentale ai monumenti nazionali. I millenni di ricchezze dell’Italia attraggono più di 45 milioni di visitatori ogni anno, facendo del turismo l’industria primaria del paese, che contribuisce l’8,6% al prodotto interno lordo. L’Italia, come marchio, non denota solo qualità e bellezza, ma produce anche euro. Poche persone comprendono il potere del marchio come Diego Della Valle, capo dell’azienda di prodotti in pelle di lusso Tod’s, e il suo amico Luca Cordero di Montezemolo, presidente della Ferrari. Come versioni moderne dei Medici nel rinascimento, si danno da fare per salvare il patrimonio italiano attraverso donazioni, sponsorizzazioni e le loro conoscenze sociali.
In un pomeriggio d’estate al Teatro La Scala di Milano, il rumore di martelli e motoseghe echeggiavano fra i muri in un allegro fortissimo mentre Della Valle sedeva sotto il palco in una poltrona di velluto rosso. Questi suoni, molto più rumorosi di un brusio emesso da invisibili strumenti a fiato che suonano da qualche parte dietro le quinte, era musica per le sue orecchie; il magnate delle scarpe ha donato più di 7 milioni di dollari al teatro dell’opera, la più grande donazione dei suoi 233 anni di storia, un regalo che permetterà ai cantanti di esibirsi ancora per qualche stagione a scapito di un taglio del bilancio che minaccia il patrimonio culturale italiano. “La Scala è uno dei primi 10 simboli dell’eccellenza culturale italiana,” commenta Della Valle. “Ciò ne fa una parte vitale della nostra immagine globale. Chiuderlo sarebbe come mandare un messaggio al resto del mondo che all’Italia non importa niente.” La generosità dei magnati è una necessità perché il paese cade a pezzi.
Montezemolo ha, naturalmente, dei gusti impeccabili e senso dell’umorismo. Accarezzando un motore Ferrari in esposizione nel suo sontuoso ufficio romano, si concede solo una strizzata d’occhio ad un giornalista mentre dice: “Dobbiamo parlare di più che solo di scarpe. L’Italia è eccellenza. Dalla nostra storia e archeologia fino ai tramonti di Capri. Nessun altro paese al mondo ha un catalogo da offrire come il nostro. Quando vedo come lo stiamo buttando via, mi si spezza il cuore.”
Le ragioni sono in parte egoistiche. I loro successi dipendono dal prestigio che l’Italia gode per i suoi beni di qualità, giudizio estetico e cultura. Un prestigio minacciato dalla fatiscenza del paese e, sotto il presidente del consiglio Silvio Berlusconi, dalla reputazione di corruzione e scandali sessuali.
“Un monumento che rappresenta l’Italia nel mondo deve essere restaurato,” dice Della Valle, che ha donato più di 36 milioni di dollari per salvare il Colosseo dopo che il Ministero della cultura riconobbe di non poter far fronte agli enormi costi di gestione. “Per il nostro gruppo, che vive sulla reputazione ‘Made In Italy’, non è una scelta. E’ una cosa che dobbiamo fare.” Non vi è mai stato nessun coinvolgimento privato di così larga scala in Italia prima d’ora perché lo stato possiede i beni culturali del paese, ed è quindi il loro presunto custode. Ma con le casse del governo in rosso, questi uomini d’affari stanno adottando monumenti e incoraggiano altri a fare altrettanto.
A giugno Montezemolo ha lanciato un’iniziativa chiamata “Italia Futura” con l’obbiettivo di sponsorizzare progetti nel paese e spingere a contribuire altri che dipendono dalla reputazione dell’Italia. Si compiace nel ricordare ai suoi pari che “Made in Italy” non significa niente se le prime pagine dei giornali mostrano solo muri fatiscenti e impalcature. “La cultura è il cuore dei nostri affari” dice Montezemolo. “Se non investiamo, non abbiamo futuro.”
Italia Futura è in parte un gruppo di esperti, una comunità sociale, il cui scopo è fondere politica, filantropia, economia e cultura. Molti in Italia speculano che questo sia solo un primo passo per la creazione di un partito politico comandato da Montezemolo. Per adesso, però, serve a raccogliere fondi per alcuni dei progetti più urgenti nel paese, come la rivitalizzazione del porto di Genova.
Mentre la forza di Montezemolo è nel raccogliere fondi, Della Valle ha donato molto denaro privatamente, più di 40 milioni di dollari, senza aspettarsi pubblicità e lasciando piena libertà su come debbano procedere le restaurazioni. La sua azienda sta inoltre finanziando un restauro di due anni del Colosseo, un’impresa non facile visto i 2000 anni di storia dell’anfiteatro. I lavori dovrebbero iniziare quest’autunno e includono pulizia, manutenzione e l’aggiunta di alcune strutture per facilitare l’accesso a disabili e anziani. Della Valle pianifica anche di sponsorizzare gite a Roma per chi non potrebbe altrimenti visitare il monumento. Della Valle confessa di avere ragioni sentimentali per accollarsi un tale lavoro. “Ricordo di aver visto il Colosseo per la prima volta quando ero un ragazzino e mi ha impressionato molto.”
Di corporatura robusta e con uno sguardo vivace dietro gli occhiali a montatura rotonda, Della Valle ha l’eleganza e il fascino di uno statista. La sua famiglia viene dalle Marche, dove il nonno faceva il calzolaio. Il padre espanse il giro d’affari, producendo scarpe per grandi magazzini di lusso come Saks e Neiman Marcus. Della Valle prese la guida della società nel 1978, lanciando il marchio della famiglia con il nome J.P. Tod, trovato in un elenco del telefono di Boston. Nacquero così le famose scarpe da guida con la suola a gommini e Della Valle in breve tempo tramutò il marchio in uno dei più prestigiosi d’Italia. La casa in cui vive con la moglie e un figlio 12enne è un monastero del XVII secolo a Casette d’Ete, vicino alla fabbrica di scarpe, un palazzo che vale 60 milioni di dollari e pieno di arte. E come si addice a un magnate, Della Valle ha case a Capri, Roma, New York e Parigi. È proprietario di uno yacht di mogano (appartenuto a John F. Kennedy), un elicottero Dolphin e un aereo jet Falcon 2000, e anche, naturalmente di una Ferrari. Ma lui condivide la sua ricchezza con altri. I suoi impiegati mangiano gratis nella mensa comune, e i loro figli vanno gratis nell’asilo appartenente alla scuola che suo figlio ha frequentato.
Montezemolo, al contrario, è un playboy ruspante, una specie di Richard Branson italiano. Magro, instancabile con i capelli lunghi e un profilo regale, è come un fiume in piena, energetico e apparentemente inarrestabile, salta di palo in frasca spesso in una stessa frase. Nato a Bologna da una famiglia aristocratica, per un breve periodo di tempo è stato un pilota professionista di auto da corsa, ma ha anche studiato Giurisprudenza alla Columbia University prima di ritornare in Italia, dove velocemente è arrivato alla vetta dell’impero Fiat. Nonostante non confermi né neghi alcuna ambizione politica, si dice che abbia messo gli occhi su qualche posizione politica del dopo-Berlusconi; inoltre ha avuto un ruolo di primo piano nella creazione della prima linea ferroviaria privata italiana, la NTV che verrà lanciata nei prossimi mesi. Affascinante e misterioso, vive a Roma, ma confida che in un mondo ideale vorrebbe dividere il suo tempo fra l’Italia e New York. È stato sposato 3 volte, di recente con una donna 29enne che ha sposato quando lui aveva 52 anni, e ha 3 figli.
I due uomini, che si sono conosciuti all’università, sono la quintessenza dell’italianità, l’impersonificazione del gusto e del fare del marchio “Made in Italy”. (L’azienda di Della Valle ha persino progettato le scarpe per auto, fatte apposta per guidare la Ferrari dei suoi amici, vendute esclusivamente nei negozi Ferrari). Naturalmente, molti marchi di lusso in Italia e nel mondo devolvono soldi per cause filantropiche e umanitarie. Bulgari, ad esempio, ha donato 15 milioni di dollari ricavati dalle vendite di un anello appositamente creato per i progetti “Save the children” in Afghanistan e Africa. Gucci ha donato 9 milioni di dollari dai profitti delle sue borse UNICEF per il progetto African Schools. Negli Stati Uniti Ralph Laurent ha donato 10 milioni di dollari per restaurare l’originale Star-Spangled Banner, e in Francia Giorgio Armani ha devoluto 170 mila dollari per rinnovare la pittoresca chiesa di Parigi di St-Germain.
Ciò che distingue la situazione italiana è che la lista di tesori nazionali in pericolo è troppo lunga e la situazione attuale veramente triste. Il Ministero della Cultura italiano ha le mani legate in termini di fondi, visto che il governo negli ultimi 6 anni ha dimezzato il budget annuale per la cultura e a giudicare dalle più recenti notizie economiche, si prevedono ulteriori tagli. In aggiunta a tutto ciò, ultimamente il Ministero ha subito generiche accuse di inadeguatezza e di cattiva gestione. Sandro Bondi, il predecessore dell’attuale Ministro della Cultura Galan, si è dimesso l’anno scorso in seguito alle accuse di non aver saputo gestire il sito archeologico di Pompei. A luglio, un rapporto negativo stilato dalla corte italiana degli uditori ha condannato il Ministero per gestione insufficiente e mancanza di trasparenza, e ha concluso che le necessità culturali dell’Italia “eccedono di molto le risorse disponibili, nonostante non ci sia dubbio che l’adeguata conservazione e promozione del suo patrimonio avrebbe un impatto positivo sull’industria turistica”.
Della Valle dice che non vuole iniziare a criticare indiscriminatamente sui motivi per cui le cose vanno così male: “È controproducente iniziare a analizzare cosa è andato storto”, dice. “Le nostre energie dovrebbero essere impiegate a capire cosa possiamo fare da questo momento per andare avanti e concentrarci su come riparare ciò che abbiamo. Lo abbiamo adesso, non possiamo perderlo”.
Sebbene dica che l’Italia non è in vendita, Galan è un sostenitore dell’iniziativa privata. In effetti il Ministero ha iniziato ad affidarsi agli imprenditori e adesso spera che un donatore privato salvi la villa dell’Imperatore Adriano, vecchia di 1800 anni, che si trova fuori Roma e che necessita di almeno 3,5 milioni di dollari per restare aperta ai suoi 250000 visitatori annuali.
Naturalmente, siccome siamo in Italia, tutto deve essere fatto col miglior gusto possibile. Non ci saranno placche visibilmente pacchiane o uno sponsor popolare. Il restauro del Colosseo ha regole molto precise: Tod’s non può ricoprirlo con il suo marchio aziendale. “Sono sicuro che tutti pensano che io abbia la chiave del Colosseo adesso”, dice Della Valle. “Ma stiamo facendo questo senza alcuna speranza di guadagno. Se voglio visitarlo, devo comprare un biglietto come tutti.” Montezemolo, da parte sua, è rapido nel fare la distinzione fra sponsorizzare un restauro e trasformare un sito in un parco tematico. “Non voglio che Pompei diventi una Disney World”, dice. “Ma non voglio neanche che scompaia del tutto”. Trovare l’equilibrio tra queste due visioni sarà un colpo da maestro: salvare il paese senza venderne l’anima.
I due magnati del lusso sperano che i loro colleghi li aiutino a salvare le gemme culturali del paese, ma Della Valle crede che ci vorrà una generazione prima che le persone inizino a capire l’importanza di preservare gli antichi artefatti e di investire nella reputazione dell’Italia. “È importante che il mondo veda che ci occupiamo di ciò che abbiamo”, afferma. “Spero che anche altri facciano lo stesso.”
Il suo amico Montezemolo esprime il concetto in termini persino più patriottici: “Io sono davvero orgoglioso di essere italiano. Non posso immaginare che chiunque si ritenga italiano non voglia fare qualunque cosa in suo potere per salvare posti come questo.”

Svizzera. Capitalismo: se mancano le regole...
di Matteo Caratti - 08/20/2011
C’è una domanda fondamentale, alla quale varrebbe la pena rispondere, se non vogliamo ritrovarci regolarmente impantanati a seguito di crisi finanziarie che vanificano gli sforzi per far ripartire l’economia reale. La domanda – non di poco conto – è: quale capitalismo vogliamo?Vogliamo un capitalismo che permetta ai più ricchi d’arricchirsi oltre ogni logica e obblighi i più deboli a cucirsi altre pezze al sedere? In questo caso basta continuare su questa pericolosa china. Un esempio? Di recente abbiamo pubblicato un servizio (l’ennesimo) che ripeteva l’ormai nota storiella: mentre il popolino sudava lacrime e sangue, temendo per il suo traballante posticino di lavoro, i membri delle direzioni e dei consigli di amministrazione delle maggiori società svizzere cosa facevano? Mediamente hanno guadagnato il 10% in più nel 2010 rispetto all’anno precedente. In quegli ambienti, crisi o non crisi, vale la seguente regola: il salario dei big boss sale proporzionalmente alla grandezza dell’impresa e alla sua importanza in Borsa.
Ma come ben si sa, oltre alle questioni di giustizia nella politica salariale (che l’economia può anche considerare irrilevanti), chi più guadagna, anche se dovesse (e ci riesce!) guadagnare ancor di più, non spenderà oltre a una determinata cifra, mentre chi guadagna molto meno, se avesse a sua disposizione qualche soldino in più lo spenderebbe più che volentieri se confrontato con una moderata fiducia nel futuro, immettendolo quindi nel circolo economico e favorendo alla lunga la ripresa.

La logica del “si salvi e si rafforzi il più forte” la si è poi applicata, come abbiamo a più riprese avuto modo di evidenziare, quando la maggioranza borghese dei parlamentari federali ha deciso di salvare Ubs. Un salvagente gettato senza condizioni. Si è così potuto constatare in seconda battuta che quella grande banca, salvata grazie a iniezioni miliardarie di denaro pubblico, continua a seguire logiche che privilegiano chi già ha i piedi parecchio al caldo: non versa da anni dividendi agli azionisti (i veri proprietari della banca), delocalizza tranquillamente in Ungheria determinati servizi (è l’Ungheria che l’ha salvata?) e premia ancora con salari da nababbi taluni suoi manager. Complimenti!
La stessa musica la si è poi udita in queste settimane di franco alto ed euro debole, quando ci si è chiesti come mai taluni monopolisti non fanno automaticamente beneficiare noi consumatori delle evidenti diminuzioni di prezzo. Ora pare che anche il Consiglio federale se ne sia accorto promettendo di metter mano, in senso restrittivo, alla legge sui cartelli. Non ci si poteva pensare prima visto che siamo tutti sostenitori dei mercati concorrenziali?
A questi esempi di evidente stortura nostrani, se ne potrebbero aggiungere altri guardando anche al di fuori delle nostre frontiere. Anche Obama, confrontato con l’ultima crisi immobiliare/bancaria pronunciò un paio di anni fa frasi del tipo “mai più!” promettendo regole... Certo, regole, ma qualcuno le ha mai viste? Se oggi quelle regole ci fossero davvero, non ci ritroveremmo nuovamente in quattro e quattro otto trascinati al punto di partenza.

Che fare allora? Vista la posta in gioco non possiamo né dobbiamo abbandonarci alla rassegnazione. Chiediamoci, soprattutto nei prossimi mesi, quando dovremo scegliere chi fra i nuovi candidati alle federali merita il voto, a quale modello di capitalismo costui o costei si ispira.
È giunto il momento di puntare su un capitalismo capace indubbiamente di premiare chi ha voglia di lavorare, di creare ricchezza (quella vera e duratura), ma che nel contempo sappia promuovere un’equità nella redistribuzione della ricchezza (dei redditi).
Un capitalismo che sappia pure far crescere un Paese grazie alla ricchezza effettivamente prodotta. E dietro a quell’effettivamente deve esserci imperativamente una scelta di fondo: chi specula in Borsa come (in altri tempi) nell’acquistare e vendere immobili, facendo semplicemente lievitare artificialmente i prezzi e quindi generando instabilità che poi ricade sui più deboli, va tassato di più, rispetto a chi genera ricchezza effettiva faticando, sudando le classiche sette camicie! Quindi ben venga ad esempio la Tobin Tax. Una tassa che prevede di colpire in modo modico le transazioni speculative e non quelle effettivamente necessarie per il buon funzionamento del mercato. Ai mercati non piace e le Borse perdono la testa? Bene, è la giusta reazione, è il prezzo (iniziale) da pagare se non vogliamo ritrovarci a breve ancora immersi in una nuova crisi.

Il futuro appartiene soltanto ad un capitalismo cosciente (ma la coscienza sono gli uomini e le donne) di poter sopravvivere a sé stesso unicamente se riuscirà finalmente ad introdurre, come detto, alcune regole di giustizia ed equità. Se non ci riuscirà saranno i crescenti squilibri a spazzarlo via, portando i cittadini, sempre più poveri, direttamente in piazza. Fuori dai nostri confini si intravedono già i primi segnali. E da noi c’è già chi è pronto ad arringare le folle. Il passato, neanche poi tanto lontano, crudamente insegna.

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