sabato 10 settembre 2011

Federali.Sera_10.9.11. Sorprese che non sono tali.----Pierluigi Magnaschi: Non è bello citarsi. Ma se ricordiamo che, sei mesi fa, all'inizio del conflitto contro Gheddafi, scrivevamo, isolatissimi, che si trattava di un conflitto neocoloniale di tipo economico, travestito vergognosamente con la pelle di agnello dell'azione in difesa dei diritti civili e che invece puntava a spogliare l'Italia dei benefici derivanti dall'accordo di pace e di amicizia con la Libia, non è per compiacerci ma per dimostrare che i connotati deplorevoli di questa guerra erano già noti, perché evidentissimi, fin d'allora.----Mario Deaglio: Le dimissioni a sorpresa di Juergen Stark - rappresentante tedesco nel comitato esecutivo della Banca Centrale Europea e «padre» del «patto di stabilità» al quale è ancorato l’euro - sono il risultato di uno specifico e crescente malessere tedesco più che della solita debolezza europea.----Roberto Perotti: Ora non ci sono più paracadute. L'Europa le ha tentate tutte per convincere il contribuente tedesco ad assumere i costi e i rischi della crisi dei "Piigs".

Trieste, oltrepadania. Evasione, primi in regione Commercianti smemorati
Se la risposta è sbagliata ha ragione Il «Signor no»
Germania, troppa virtù fa male
La Grecia fallisce l'obiettivo del 90% sul concambio
La guerra contro la Libia è una guerra per arraffare


Trieste, oltrepadania. Evasione, primi in regione Commercianti smemorati
Su 2882 controlli accertate 202 irregolarità. Parrucchieri e ristoratori in cima alla graduatoria. Appena chiuso un negozio cinese in Borgo Teresiano.
di Corrado Barbacini
Scontrini e ricevute? A volte sono solo un optional, almeno stando ai dati della Guardia di finanza. Nel ramo della ristorazione e del commercio, Trieste in regione detiene la maglia nera. I numeri sono impietosi. Il bilancio relativo all’ultimo anno parla di 202 irregolarità su 2882 esercizi controllati in città dalle Fiamme Gialle. Praticamente il 7 per cento non è in regola. Un punto in più rispetto alle altre province regionali dove l’evasione riscontrata si attesta sul 6 per cento. Le categorie con il maggior numero di violazioni contestate sono i barbieri e le parrucchiere (29), i ristoranti, le trattorie e le pizzerie (28), i bar (20) e i negozi di abbigliamento per adulti (24). In molti casi il cliente patteggia con il titolare: uno sconto per chiudere un occhio sul mancato rilascio di scontrino o ricevuta.
L’ultimo caso riguarda uno store cinese di Borgo Teresiano chiuso per tre giorni per somma di “ammonizioni”. Cartellino rosso per il negozio di abbigliamento di via Roma 17 angolo via Valdirivo, gestito da cittadini cinesi.
Il provvedimento di chiusura temporanea del locale è stato inflitto dall'Agenzia delle entrate a seguito dei controlli in borghese effettuati dai militari della prima compagnia della Guardia di finanza. Il commerciante cinese è stato pizzicato dai militari: per quattro volte in meno di cinque anni si è “scordato” di emettere lo scontrino fiscale. Una dimenticanza che ora gli costerà.
Saracinesca abbassata, dunque, con stop forzato dell’attività da un minimo di tre a un massimo di cinque giorni, e sanzione amministrativa. Non solo: contestualmente al controllo relativo agli scontrini sono state attivate da parte dei militari una serie di verifiche fiscali su altre presunte irregolarità.
Alla fine di luglio i finanzieri avevano chiuso per le stesse ragioni altri due negozi di abbigliamento in Borgo Teresiano gestiti da cittadini cinesi. Uno si trova al numero 9 di via Ghega, l’altro in via Roma 13/e, a pochi metri da quello finito ieri nel mirino.
Il giro di vite sull’evasione è scattato nei giorni scorsi in concomitanza con la discussione sulla manovra finanziaria. Nei prossimi mesi più uomini delle Fiamme Gialle saranno messi in camo per contrastare la piaga dell’evasione fiscale.

Se la risposta è sbagliata ha ragione Il «Signor no»
di Roberto Perotti
Ora non ci sono più paracadute. L'Europa le ha tentate tutte per convincere il contribuente tedesco ad assumere i costi e i rischi della crisi dei "Piigs". Prima con il fondo salva-Stati, lo strumento più trasparente perché identifica chiaramente i destinatari degli aiuti e limita precisamente le perdite massime per i creditori: con riluttanza, la Germania ha detto sì, ma fino a un massimo di 210 miliardi di garanzie.

 Poi l'Europa ha tentato con gli eurobond, lo strumento più arcano e inefficace perché non specifica chi riceve quanto e non pone limiti alle perdite possibili del contribuente tedesco. Comprensibilmente, elettori, media e politici tedeschi hanno detto no. Infine l'Europa ha tentato con gli interventi della Bce, lo strumento più flessibile e potenzialmente più indolore, perché meno visibile: poiché si stampa moneta per comprare titoli di Paesi in difficoltà, chi e quanto pagherà si vedrà in seguito, se dovesse aumentare l'inflazione e se si dovesse ricapitalizzare la Bce per le perdite subite. Le dimissioni di Jürgen Stark confermano che anche questa strada è di fatto impraticabile.

Il motivo è semplice: tutti questi interventi sono equivalenti. E comunque lo si voglia presentare, i tedeschi non vogliono pagare il conto. È giusto o sbagliato? È bello o brutto? È intelligente o ottuso? Ognuno dà il giudizio che vuole, ma il fatto rimane, e sarà meglio rassegnarsi.
I mercati l'hanno presa male, ma la buona notizia è che avrebbe fatto poca differenza. Per salvare Spagna e soprattutto Italia (perché è di questo che ormai stiamo parlando) occorrerebbe una potenza di fuoco tra mille e duemila miliardi.

La Bce non avrebbe mai potuto arrivare a tanto: anche senza le dimissioni di Stark, avrebbe potuto al più intervenire per qualche decina di miliardi, come ha fatto finora, una volta ogni tanto. Per avere un termine di paragone, in pochi mesi tra il novembre 2008 e il marzo 2009 la Fed approntò un programma di acquisto di titoli per quasi 2mila miliardi di dollari, con risultati controversi.
Perché la Bce non può fare come la Fed? C'è un ostacolo tecnico, il mandato sul target di inflazione, che però è probabilmente aggirabile. Il vero motivo è politico. Oggi lo dimentichiamo, ma all'epoca Bernanke si assunse dei rischi enormi: cosa sarebbe successo se la Fed avesse perso centinaia di miliardi sui titoli acquistati? Ma anche nel peggiore dei casi, si sarebbe trattato di un trasferimento da contribuente americano a contribuente americano. Nel caso dell'Europa, è un trasferimento dal contribuente tedesco a quello italiano, ed è molto diverso.

Anche questa volta si ripeterà che un'unione monetaria non può esistere se non c'è anche un'unione fiscale. È vero esattamente l'opposto. Un'unione monetaria può esistere solo se c'è uno scenario credibile in cui uno Stato viene lasciato fallire. Se ogni Stato deve essere salvato a tutti i costi, l'unione monetaria diventa una camicia di forza per estorcere risorse dalle cicale a favore delle formiche. Un tale sistema è politicamente una polveriera. Da questo punto di vista, le recenti esortazioni di Trichet a creare un'unione fiscale erano apparse subito irrealistiche e poco opportune: sembravano fatte apposta per irritare i tedeschi, come si è puntualmente verificato. Nel giro di pochi mesi, gli europei hanno indotto alle dimissioni i due più importanti esponenti tedeschi alla Bce: prima Weber, e poi Stark. Non una mossa intelligente.

La reazione dei mercati alle dimissioni di Stark dà un messaggio chiaro: la Grecia è insalvabile, e l'Italia è sola. Discutere di Efsf, eurobond e Bce non serve a niente. Non avverranno mai, certo non nella misura necessaria per salvare l'Italia. Basta lamentarsi e piagnucolare, come quelle squadre italiane che vanno all'estero, perdono 5-0 e danno la colpa della sconfitta all'arbitro per un rigore non concesso quando già perdevano 4-0. L'Italia è sola. E ora una manovra del 3% del Pil potrebbe non bastare più: per cancellare l'immagine di incompetenza e dilettantismo offerta al mondo negli ultimi tre mesi, adesso sarà probabilmente necessario alzare la posta. E dovranno essere soldi veri e subito, non di carta come nella manovra attuale.

Germania, troppa virtù fa male
MARIO DEAGLIO
Le dimissioni a sorpresa di Juergen Stark - rappresentante tedesco nel comitato esecutivo della Banca Centrale Europea e «padre» del «patto di stabilità» al quale è ancorato l’euro - sono il risultato di uno specifico e crescente malessere tedesco più che della solita debolezza europea. Si accompagnano a molti interrogativi sulla capacità della Germania di continuare a essere indefinitamente la «prima della classe» e sulle linee-guida della politica economica del governo tedesco e, naturalmente, complicano gravemente il panorama economico-finanziario del continente.

 Sullo sfondo c’è il clamoroso taglio da parte dell’Ocse alle previsioni della crescita tedesca, pari all’incirca a zero nel secondo trimestre del 2011 con la possibilità di scendere a -1,4 per cento nel quarto trimestre. Il che può far sembrare l’Italia maestra di crescita economica e fa sospettare una verità molto scomoda: il «modello tedesco» di ripresa, che pur presenta molti lodevoli aspetti, specie nella gestione delle imprese, non sta funzionando a livello di sistema.

 Del resto la «virtuosa» Germania è molto meno virtuosa di quel che sembra: come ha scritto Massimo Mucchetti sul Corriere della Sera di tre giorni fa, se al debito pubblico si aggiungono i debiti del KfW (un ente pubblico simile al nostro vecchio Iri) il debito complessivo di Berlino sale dall’80 al 97 per cento del prodotto interno lordo. Si aggiungano l’esposizione di molte banche tedesche a titoli «difficili» - sovrani e non - e le non brillanti finanze di molti Laender, le regioni tedesche.

 Di fronte al manifestarsi di queste debolezze, il liberismo tedesco che pone in cima alle priorità il pareggio del bilancio di tutti i Paesi della zona euro, non sa bene quali risposte offrire. L'Fdp, il partito liberale tedesco, sovente schierato su posizioni ultra-liberiste, è uscito letteralmente polverizzato dalle ultime elezioni regionali, svoltesi nel Meclemburgo domenica scorsa, dove è crollato dall’8,8 al 2,7 per cento, a coronamento di una stagione di sconfitte durissime in elezioni locali; queste sconfitte hanno, tra l’altro, provocato le dimissioni dalla carica di segretario generale del partito del ministro degli Esteri, Westerwelle. Se si dovesse andare oggi alle urne il partito avrebbe, secondo i sondaggi, meno del 5 per cento dei voti e nessun suo rappresentante entrerebbe nel Parlamento federale.

 Le dimissioni di Stark, un economista di stampo nettamente liberista, che ha svolto tutta la sua carriera all’interno della Bundesbank, la banca centrale tedesca, vanno collocate in questo quadro difficile. Stark, «diplomatico» e gradualista, si era opposto alla ristrutturazione del debito greco e riteneva necessario che le banche che avevano aiutato la Grecia a indebitarsi l’aiutassero ora a sdebitarsi, prendendo su di sé una parte degli oneri del rimborso. Possono perciò essere lette come un’ammissione di impotenza più che come una protesta nei confronti dell’aiuto che la Banca Centrale Europea sta dando ai Paesi in difficoltà, tra cui l’Italia, con l’acquisto dei loro titoli sovrani per sostenerne la quotazione. Quest’aiuto, insomma, serve a poco e non porta ad alcuna soluzione.

 Le sue dimissioni appaiono direttamente collegabili a quelle di un altro importante banchiere centrale tedesco, Axel Weber, presidente della Bundesbank che lasciò il suo incarico all’inizio di aprile, anch’egli per «motivi personali», rinunciando alla possibilità di succedere al governatore Trichet a capo della Bce e rifugiandosi a fare il professore all’Università di Chicago, cittadella (oggi forse assediata) del liberismo spinto.

 Dietro a tutte queste dimissioni e alle sconfitte elettorali c’è l’incapacità del liberismo di dare risposte immediatamente positive alla crisi, ossia risposte che non passino per una riduzione ulteriore della spesa pubblica e un aumento della disoccupazione. La Germania credeva di essere immune da queste scelte scomode e adesso sa di non esserlo. Sa anche che, se lascia affondare l’Italia e la Spagna (ma neppure la Francia è in condizioni sicurissime, tanto che sta apprestando misure non troppo dissimili da quelle italiane) avrà ripercussioni importanti sulla propria economia: le conseguenze di una crisi dura di questi due Paesi sull’economia tedesca sarebbero almeno nell’ordine di grandezza di un milione di disoccupati in più. Questo sarebbe il prezzo di insegnare agli altri la «virtù finanziaria». Forse i tedeschi stanno imparando che in economia, così come nessun pasto è gratis, neppure la virtù si può praticare senza conseguenze.

 Un eventuale governo rosso-verde (ossia una coalizione tra il partito socialista, altre formazioni della sinistra tedesca e i «verdi» ecologisti) che succedesse all’attuale avrebbe certo molto più a cuore il numero dei disoccupati, che cercherebbe di ridurre al minimo, che il saldo del bilancio pubblico e l’ammontare del debito pubblico.

 Il compito di Mario Draghi, prossimo governatore della Banca Centrale Europea, che assumerà il suo incarico a novembre, si delinea come quello di evitare alla zona euro la caduta nel baratro che l’insistenza eccessiva sulla virtù finanziaria le ha spalancato davanti. Per questo non saranno certo sufficienti le risorse a disposizione della Banca e occorrerà agire cercando di imporre ai mercati regole più restrittive che facciano da contrappeso alle regole restrittive di finanza pubblica che gli Stati si sono autoimposti.

 Per l’Italia, al momento, c’è ben poco da fare: con una manovra che ridurrà pressoché a zero la nostra già scarsissima crescita, non rimane altro che aspettare le ondate della tempesta monetaria e finanziaria, contro la quale abbiamo pochissime difese, sperare che non facciano troppi danni e diano magari una spinta decisiva al rinnovamento della nostra classe politica.

La Grecia fallisce l'obiettivo del 90% sul concambio
di Vittorio Da Rold
Atene ha fallito l'obiettivo prefissato del 90% di adesioni dei privati allo scambio di bond greci mentre si diffondevano voci secondo cui la Germania starebbe preparando un piano B di salvataggio delle sue banche in caso di default greco.
Fonti ministeriali greche ieri parlavano del 70% di adesioni mentre altre voci bancarie delineavano un tasso al concambio da 135 miliardi di bond 2020 detenuti da intermediari privati, fino all'80%. Altri rumor cercavano di tranquillizare i mercati ipotizzando che le banche greche sarebbero pronte a coprire la quota mancante per arrivare al 90%.
Il buon esito dello scambio e la partecipazione dei privati (fortemente voluta dal cancelliere tedesco, Angela Merkel per ragioni di politica interna) è collegato al secondo pacchetto di salvataggio da 109 miliardi di euro deciso il 21 luglio a Bruxelles dei capi di stato e di governo europei.

La data ultima per aderire alle quattro opzioni contenute nello swap, che prevedono una perdita del 21% del valore dei bond, è scaduta ieri (venerdì), ma Atene, per bocca del suo ministro delle Finanze, Evangelos Venizelos, aveva detto nei giorni scorsi che se non si fosse raggiunta quota 90% non se ne sarebbe fatto niente.
Forse Venizelos ora cambierà idea visto che ieri i cds sui bond greci sono arrivati al record di 3.727 punti base. La maggioranza degli analisti sono infatti convinti che Atene aderirà comunque allo swap anche se non ha raggiunto quota 90% di adesioni.

«La Grecia non ha nessuna intenzione di pubblicare i dettagli relativi alla partecipazione al suo programma di swap né questa settimana né la prossima», ha detto Petros Christodoulou, capo dell'ufficio della gestione del debito greco.
La risposta alla proposta di scambio finora è stato «molto positiva», si è limitato a dire Christodolou. «Non uscirà nessuna percentuale né oggi né la prossima settimana visto che più della metà degli europei non hanno ancora risposto. È troppo presto», ha precisato il responsabile greco.
«Il concambio per 135 miliardi di euro detenuti da intermediari privati che prevede il 21% di perdite lo faranno comunque - dice Chiara Manenti, Fixed Income Strategist di Banca IntesaSanPaolo - anche con il 70% di adesioni. Resta poco chiaro se i bond detenuti dalla Bce, che non intende partecipare allo swap, siano da detrarre dai 135 miliardi di euro e calcolare la percentuale di adesione sulla quota rimanente». Secondo alcuni esperti infatti il 90% si dovrebbe calcolare al netto degli holdings della Bce che si stimano pari a 45-50 miliardi di euro di bond ellenici.

«Se non si cade troppo lontani dal 90% di adesioni allo swap non ha molto senso cancellare l'operazione di concambio come il ministro greco Evangelos Venizelos aveva paventato. Anche perché in alternativa non c'è altro che il default della Grecia», commenta Luca Cazzulani, analista di UnicreditGroup.

Oggi il primo ministro greco George Papandreou, farà un discorso di politica economica a Salonicco, per cercare di placare le proteste all'annuncio che verranno tagliati 20mila posti di lavoro del settore pubblico in poche settimane e del varo di ulteriori misure di austerità per rimettere il deficit in carreggiata. Senza queste nuove misure la troika Ue-Bce-Fmi non sborserà la sesta tranche da 8 miliardi di euro.

Una situazione di forte tensione a cui si è aggiunta la voce che la Germania starebbe preparando come dicevamo un piano di salvatggio delle proprie banche in caso di default greco. Così nella serata di ieri il ministro delle Finanze greco, Evangelos Venizelos ha definito solo «rumor» le voci di un default della Grecia durante questo weekend. «Non è la prima volta - ha detto il ministro in un comunicato - che un'ondata organizzata di rumor parla di fallimento della Grecia. È un gioco di pessimo gusto, una speculazione organizzata contro l'euro e l'Eurozona nel suo complesso». Il comunicato è arrivato in risposta a voci ricorrenti di un default. Queste voci insistono sul fatto la Grecia non avrebbe ormai più nessuna possibilità di evitare il default, soprattutto a causa della forte recessione, evidenziata dalla discesa del 7,3% annuo del Pil nel secondo trimestre. Inoltre i rumor insistono sul fatto che Berlino e Parigi diano ormai per scontato il fallimento e stiano lavorando per salvare le proprie banche, particolarmente esposte con la Grecia.

Quattro opzioni per lo swap
- La proposta di scambio riguarda tutti i titoli greci con scadenza dicembre 2020 ed è rivolta a grandi intermediari privati, forse anche ai titoli in custodia e quindi ai clienti retail. Ci sono quattro opzioni.

- Ricevere un nuovo titolo, par bond, con valore nominale al 100% del titolo ritirato in concambio con scadenza a 30 anni. Collateralizzazione a scadenza al 100% con deposito fiduciario di titoli di pari importo e scadenza con bond tripla A

- Impegno a rifinanziare i titoli in scadenza acquistando un nuovo titolo o elargendo un nuovo prestito con caratteristiche della prima opzione
La terza opzione è il cosiddetto discount bond: valore nominale pari all'80% del titolo consegnato, scadenza a 30 anni, collateralizzazione, cedola iniziale a quota 79 e step up

- L'ultima opzione è un discount amortizing bond: valore nominale dell'80%, scadenza a 17 anni con piano di rimborsi con 5 ammortamenti di pari entità dal 13° anno in avanti; collateralizzazione, cedola fissa, quota 79

La guerra contro la Libia è una guerra per arraffare
 di Pierluigi Magnaschi  
Non è bello citarsi. Ma se ricordiamo che, sei mesi fa, all'inizio del conflitto contro Gheddafi, scrivevamo, isolatissimi, che si trattava di un conflitto neocoloniale di tipo economico, travestito vergognosamente con la pelle di agnello dell'azione in difesa dei diritti civili e che invece puntava a spogliare l'Italia dei benefici derivanti dall'accordo di pace e di amicizia con la Libia, non è per compiacerci ma per dimostrare che i connotati deplorevoli di questa guerra erano già noti, perché evidentissimi, fin d'allora.
Adesso infatti che il conflitto si sta concludendo, la vera motivazione di questa guerra, ormai conclusa, salta fuori alla luce del sole, senz'alcun ritegno. Non solo il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha riconosciuto, proprio questa settimana, che i maggiori beneficiari di questo conflitto sono l'Inghilterra e la Francia. Ma anche la grande stampa transalpina, a cose fatte (e quindi non più modificabili) non riesce più a trattenersi e quindi, adesso, dice le cose come stanno. In questo articolo, per esempio, abbiamo riprodotto l'enorme titolo a tutta pagina della realistica copertina monografica che il quotidiano economico francese La Tribune ha dedicato al vertice di Parigi. Il titolo infatti strilla, senz'alcuna inibizione, anzi con un evidente compiacimento: «Libia: Sarkozy vuole la parte del leone». E nel sommario, in modo altrettanto compiaciuto ed evidente, spiega che «la Francia vuole capitalizzare il suo successo diplomatico-militare». Non si capisce perché la grande stampa d'opinione italiana, che prima aveva fatto finta di non saper decifrare le vere ragioni di questo conflitto deciso a freddo, adesso che le cose sono dichiarate senz'alcun pudore dai politici e dalla stampa francese, faccia finta di non avere letto. Non si capisce poi perché l'Italia abbia partecipato a un conflitto contro un paese, la Libia, con il quale aveva, da pochissimi mesi, concluso un contenzioso coloniale secolare (alla cui composizione avevano lavorato, con alterni risultati, tutti i governi italiani di quest'ultimo dopoguerra), pur sapendo che la Francia si muoveva perché temeva di perdere le forniture militari e i grandi lavori pubblici e la Gran Bretagna aveva schierato i suoi jet in difesa dei flussi finanziari libici che rischiavano di allontanarsi dalla City per irrorare invece la finanza, le banche e l'economia italiana.

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