martedì 18 ottobre 2011

Federali.sera_18.10.11. Tommaso Greco: La violazione di un diritto specifico ha spesso la sua origine lontana nella dimenticanza (e violazione) di un dovere, che magari non ha a che fare specificamente con quel diritto ma contribuisce a mantenere in vita un sistema in cui la violazione in questione diviene facile e ‘naturale’.----Napoli - I pensionati campani al primo posto nella classifica di credito al consumo. Infatti, secondo l'analisi di Prestiti.it, i campani contribuiscono per il 14% del totale nazionale sui prestiti. Altro primato negativo che riguarda sempre la Campania riferisce che le richieste di prestito da parte dei pensionati arrivano addirittura al 75 %, superando notevolmente la media nazionale; questo primato in negativo però è condiviso con la regione Puglia.

Metaponto. Emergenza alluvionati. Ancora inascoltati
Melfi. E ora per Arpab Fenice è a posto
Per rinascere la Calabria riscopra i doveri
Campania regina dei prestiti ai pensionati


Metaponto. Emergenza alluvionati. Ancora inascoltati
Gli argini insicuri e con la pioggia c'è paura
di PINO GALLO
METAPONTO - “Cosa è accaduto nella notte fra il 2 ed il 3 marzo scorso? Un’apocalisse d’acqua si è abbattuta sulla nostra azienda e ci ha imprigionati in casa in una notte fredda e nera come la pece. La paura della morte scampata ce la porteremo per tutta la vita e niente e nessuno potrà mai cancellarla. Nessuno potrà mai dimenticare», dice Pietro Dioguardi, titolare di un’azienda agricola proprio a ridosso della ferrovia Metaponto-Taranto. «Quella notte terribile in casa c’erano mia moglie Mina e mia sorella Cecilia, primario in pensione. Per 4 lunghissime ore la nostra vita è rimasta appesa ad un filo. Quando abbiamo visto entrare l’acqua in casa era l’una e mezza di notte e la telefonata di un amico ci aveva appena avvertito che la terra non si vedeva più e che al suo posto luccicava sotto una luce tenue un mare di acqua, che scintillava e mandava bagliori sinistri - continua Pietro con gli occhi lucidi di quella notte assassina. L’acqua era entrata nella nostra cucina ed in pochi minuti aveva raggiunto mezzo metro d’altezza. Abbiamo così pensato di staccare la corrente elettrica, di aprire il cancello a punte di lancia e di lasciare semi-aperta la cucina dell’ing resso, in modo da agevolare l’ar rivo degli eventuali soccorsi».
«Poi, abbiamo avuto appena il tempo di salire sul tavolo e sui pensili della cucina, alla luce fioca della lampada di emergenza, quando l’acqua ha raggiunto i due metri di altezza, pari a quella della massicciata della ferrovia, che corre a pochi metri di distanza. Di lì abbiamo telefonato al 115, ma le nostre voci erano coperte dai latrati dei cani, che guaivano in cerca di un appiglio qualsiasi. Povere bestie. Solo quando dopo poche ore sono cominciati a morire di freddo e di paura siamo riusciti a comunicare con i nostri soccorritori, che sono arrivati quattro ore dopo, quando gli attacchi dei pensili incominciavano a cedere e noi ci stavamo preparando al peggio».
«Siamo riusciti a farci sentire da una squadra dei Vigili del Fuoco di Lecce, che su un gommone andava a soccorrere i nostri vicini di casa, condotti sul posto dal figlio che abita a Ginosa Marina. E così siamo salvi. Ma abbiamo perso tutti i mobili di casa, i trattori, le automobili. E solo adesso incominciamo e rimettere a posto alcuni ambienti, contraendo onerosi mutui bancari».
Nelle stesse condizioni anche la famiglia di Nicola Nisi, a Serramarina, a 500 metri dal fiume Bradano, riuscita a fuggire dall’inferno d’acqua di quella tragica notte sul fuoristrada del vicino Vito Girolamo, che sbandava inseguito dalla marea di acqua che esondava dall’alveo del Bradano. «Abbiamo sentito un rumore forte come lo scoppio di una bomba - racconta la signora Filomena Ciccimarra Nisi - e così non abbiamo perso tempo a metterci in salvo, non senza prima avvertire qualche vicino di casa come una coppia di rumeni, da poco giunta a Serramarina. Abbiamo perso tutto: automobili, macchine agricole, mobili, il corredo di mia figlia Pasqualina, che ha dovuto finanche rimandare la data del suo matrimonio, previsto per il 6 marzo. A questo bisogna aggiungere il mancato guadagno. Con tanti sacrifici stiamo piano piano riparando a nostre spese la nostra abitazione. Siamo pure scampati ad un tentativo di furto, che i nostri cani e la prontezza di mio marito sono riusciti a sventare appena in tempo, prima che entrasse in casa. Il nostro magazzino è pieno di lesioni ed ha bisogno di riparazioni urgenti. Ma noi siamo gente dignitosa ed onesta: vorremmo soltanto essere risarciti di quello che abbiamo perso».

Melfi. E ora per Arpab Fenice è a posto
Paradossale: dall’agenzia parere positivo all’impiantoproprio ora che la Provincia ne decreta la sospensione
18/10/2011  QUESTA dei rifiuti sta diventando davvero una storia paradossale. Dopo che la Provincia decide finalmente che l’impianto di termodistruzione Fenice dev’essere sospeso per 150 giorni e comunque finché Edf non dimostra di avere compatibilità e requisiti a posto, dall’Arpab arriva il parere positivo al mantenimento in funzione dell’impianto stesso. Possibile? Possibile. Immaginarsi la reazione di funzionari, dirigente e dello stesso assessore alla lettura della comunicazione di ieri mattina, nella quale l’Agenzia per la protezione ambientale conferma quanto dichiarato il 20 settembre nella commissione (fiume) dei servizi: Fenice inquina, Edf però sta mettendo il sito in sicurezza, per cui per noi può continuare a bruciare. Ma come? La Provincia non s’è basata sui dati dell’Arpab per deliberare la chiusura dell’impianto? Certo che si è basata su quei dati, ma questa vicenda - è questa la sensazione - per tutti gli attori coinvolti, è una tale patata bollente da partorire mostri anche peggiori di questi.

La diffida a Fenice
 Per capire l’origine del cortocircuito tra enti, posto che ovviamente ognuno ti racconta la sua versione e dunque tutti hanno torto così nessuno ha torto, basiamoci sugli atti. E quale vademecum migliore che la diffida a Fenice di venerdì scorso. Nella cronologia minuta di questi ultimi mesi, c’è tutto quello che bisogna sapere per farsi un’idea di come sono andate le cose.

Inquina, però può operare
 La bonifica del sito su cui insiste l’ impianto comincia a marzo 2009. L’intervento si era reso necessario perché Arpab aveva rilevato alcuni parametri anomali nelle falde. Fenice, dicono dalla Provincia, aveva messo in campo tutto quello che c’era da fare, si era sempre presentata alle conferenze dei servizi invocate dal sindaco di Melfi e aveva rispettato i tempi, sia per l’analisi di rischio che per il piano di caratterizzazione. C’era una buona notizia, poi: i valori stavano pian piano regredendo, per cui Fenice, «sito contaminato», otteneva ugualmente il suo rinnovo all’autorizzazione. E’ l’ottobre 2010.

L’autorizzazione incriminata
 La discriminante, costata una menzione nell’inchiesta di Colella anche al - coram populo - integerrimo dirigente dell’ufficio Ambiente provinciale Antonio Santoro, è proprio questa. Come mai s’è data l’autorizzazione a Fenice? Perché l’ente sarebbe obbligato a farlo se «sussistono le condizioni». E siccome secondo la Provincia le condizioni sussistevano - la bonifica stava dando i suoi frutti, l’Arpab e Polizia provinciale avevano fatto i controlli e le carte erano a posto - si è scelto di dare l’ok.

Provincia chiama Arpab
 C’è voluto maggio 2011, salto temporale di un anno quasi, per accorgersi che i dati nelle acque di faglia superiori alle soglie di contaminazione, non diminuivano più. Il 30 giugno la Provincia chiede ad Arpab un parere e l’agenzia risponde che le condizioni sono le stesse del 2010 (ossia Fenice può bruciare), aggiungendo che però, siccome il sito è in produzione, «non si possono escludere eventi» che potrebbero ripercuotersi sulle acque sotterranee. Inoltre - ancora Arpab - la messa in sicurezza d’emergenza non è «del tutto esente da malfunzionamenti». La risposta è di luglio e ad agosto la Provincia chiede: scusate, ma che vuol dire? Ci dobbiamo preoccupare o no?

L’agenzia non risponde
 Alla richiesta di chiarimenti Arpab non risponde. Il 14 settembre però il direttore Raffaele Vita viene sentito in III Commissione regionale e lì dichiara che «i risultati delle indagini compiute sino a questo momento destano preoccupazioni», perché superano i parametri di soglia. La commissione è di certo una sede istituzionale, ma siccome di risposte ufficiali in Provincia non ne arrivavano, il dirigente convoca una conferenza dei servizi e la presiede. Tra la convocazione e la riunione vera e propria Arpab pubblica on line tutti i dati del monitoraggio su Fenice dal 2002 al 2007. Ma a quella domanda non risponde. Perché?

La conferenza dei servizi
 In conferenza dei servizi il direttore dell’Arpab dichiara cose già sentite, ossia che «ovviamente essendo questo un sito sul quale è in attività un impianto produttivo non si possono escludere fenomeni o eventi accidentali con ripercussioni sul sito e conseguentemente sulle matrici ambientali». A quel punto tutti i coinvolti si aspettavano un parere negativo alla continuazione dell’attività e invece il parere - esattamente come quello di oggi - resta incredibilmente positivo.

L’incendio
 Dopo quella conferenza il dirigente si riserva di decidere. La Regione, intanto, chiede a Fenice di comunicare immediatamente quali valori non presenti nel piano di caratterizzazione siano finiti sopra la soglia e soprattutto di mettere subito il sito in sicurezza. Il due di ottobre scoppia l’incendio sull’impianto. Per l’Arpab «non è il primo ad aver interessato l’impianto» e tutto ciò dunque «è l’ulteriore conferma del fatto che il termovalorizzatore Fenice di Melfi andrebbe trattato come industria a rischio incidente rilevante». Primo cambio di rotta dell’agenzia che ora sembra meno possibilista sul parere dato in precedenza.

I dati su internet
 All’Arpab, comunque, non conoscono le mezze misure. O i dati non te li fanno vedere per anni chiudendoli in cassaforte o te li puoi scaricare da web come un video di youtube. E infatti l’undici di ottobre erano tutti in rete quelli relativi al mese di settembre. Dentro, però, c’è la notizia: oltre ai soliti parametri in aumento, per la prima volta compaiono due new entries, ferro e benzene. Il giorno dopo la Provincia chiede di rendere meno acritici quei valori e di fornirne una spiegazione. Silenzio dall’agenzia che per tutta risposta scrive ai giornali e dice - cambiando ancora una volta versione - di avere difficoltà con i campionamenti e che dunque non è in grado di dire se Fenice inquina o no. La Provincia a quel punto applica i principi di prevenzione e precauzione e blocca tutto.

Riassumendo
 L’organismo tecnico di cui si dota la Provincia per le analisi e i pareri sul sito contaminato cambia parere tre volte. Una volta dice che c’è possibilità che si inquini, ma poi non è consequenziale e rilascia parere positivo all’attività di Fenice. Poi scoppia l’incendio e ci ripensa, facendo presente che il sito è a rischio incidente rilevante e dunque bisogna prendere provvedimenti, come l’informazione alla popolazione sulle misure di sicurezza e un piano di emergenza esterno. Un’altra volta invece dice che non ha strumenti per valutare e dunque passa la palla alla Provincia. Il quarto atteggiamento è la non risposta o la risposta a soggetti diversi dal richiedente. Insomma un’agenzia di “protezione”, ma non si capisce bene di chi.
Rosamaria Aquino

Per rinascere la Calabria riscopra i doveri
18/10/2011
di TOMMASO GRECO
docente di filosofia del diritto all’Università di Pisa
Perchè parlare di doveri in una terra in cui, più che altrove, si avverte una tragica mancanza di diritti? Non diciamo continuamente che soprattutto in Calabria non c’è alcuna garanzia di alcuni diritti fondamentali come quelli al lavoro e alla salute? Personalmente, credo che la ragione principale di questa mancanza stia soprattutto nel fatto che ci si è dimenticati dei doveri. È abbastanza facile dimostrare con un esempio come sia il generale disprezzo per i doveri a fare in modo che certi diritti esistano per i calabresi solo sulla carta. Se la Calabria è la regione con il maggior tasso di “emigrazione sanitaria” (si va nelle altre regioni per essere curati, spessissimo da medici calabresi che lavorano al Nord) è certamente perché molti dentro gli ospedali non fanno il loro dovere (o non lo fanno in modo adeguato). Ma sarebbe miope pensare solo in termini così ristretti. I doveri violati da qualcuno dentro un ospedale sono frutto di una lunga serie di altri doveri che sono stati violati precedentemente. Se qualcosa non funziona è perché spesso sono le condizioni in cui dovrebbe funzionare a essere deficitarie. Quanto è lunga la catena di (piccoli e grandi) doveri violati che conduce poi a risultati inaccettabili? Quel che bisogna capire è che se vogliamo che certi diritti siano garantiti dobbiamo assumere un atteggiamento diverso nei confronti di tutta la realtà nella quale viviamo e operiamo. La violazione di un diritto specifico ha spesso la sua origine lontana nella dimenticanza (e violazione) di un dovere, che magari non ha a che fare specificamente con quel diritto ma contribuisce a mantenere in vita un sistema in cui la violazione in questione diviene facile e ‘naturale’. Il bisogno di vedersi garantiti i diritti è già un buon motivo per riprendere il discorso sui doveri; non è però sufficiente a promuovere quella ‘rieducazione’ ai doveri che appare così necessaria. Tale ‘rieducazione’ può essere prodotta soltanto dalla piena consapevolezza di cosa sia in gioco nella proposta di una ripresa dei doveri. Quando parliamo di diritti e doveri per prima cosa ci viene in mente l’osservazione che non ci sono diritti senza doveri: ai miei diritti corrispondono i doveri di altri, ai diritti di altri corrispondono i miei doveri. A questa considerazione giuridica bisogna però affiancarne un’altra: ai miei diritti non corrispondono solo i doveri degli altri, ma anche il mio dovere di essere degno titolare di quel diritto. Se ho diritto di prendere la parola ho innanzi tutto il dovere di dire cose sensate. Se ho diritto alla libertà d’insegnamento, ho il dovere di esercitare questo diritto nel migliore dei modi. Tutto ciò va sempre ricordato, soprattutto in una società che ha preso l’abitudine di considerare tutte le relazioni esclusivamente sotto la lente dei diritti. Ma ciò che va assolutamente recuperato è il valore antropologico dei doveri, perché è su questo piano che i doveri possono darci qualcosa che i diritti non garantiscono. A differenza di quanto viene ripetuto (anche da “buoni maestri” come Norberto Bobbio e, recentemente, Gherardo Colombo), non è affatto vero che i doveri sono esclusivamente strumento di una società ‘verticale’ e gerarchica. Lo sforzo principale al quale siamo chiamati è di ruotare il nostro sguardo in modo da renderci conto che i doveri con i quali abbiamo a che fare quotidianamente sono doveri ‘orizzontali’, doveri che nascono dalle relazioni nelle quali la nostra vita si compie e si realizza. È questo il segno inconfondibile dei doveri, quello che dobbiamo cercare di recuperare. I doveri realizzano un movimento di apertura all’altro e sono perciò un modo insostituibile per stabilire e mantenere in vita le nostre relazioni. Sono i diritti più che i doveri a correre lungo la linea verticale della coercizione giuridica, ed è proprio per questo che a volte sono tanto necessari. Quando pretendo il rispetto di un diritto mi appello alla mediazione di chi può intervenire a mio favore (il giudice, il poliziotto, il superiore, ecc.). Anziché favorire un collegamento, piuttosto lo interrompo, invocando l’azione rassicuratrice e riparatrice dello Stato (o del soggetto che deve garantire il mio diritto). Quando invece avverto di dover compiere un gesto, quando “leggo” nella situazione in cui mi trovo che sono chiamato a compiere un dovere, allora realizzo un movimento che non è di ritrazione ma di proiezione verso chi mi sta di fronte. Due considerazioni vorrei trarre da questa ritrovata orizzontalità dei doveri. La prima: l’apertura che i doveri realizzano implica un prendersi cura delle persone e delle cose. “Prendersi cura” vuol dire andare al di là dei nostri stretti doveri giuridici, con tutto l’impegno (in più) che questo comporta. L’oggetto più dimenticato delle nostre cure (e dei nostri doveri) è senza dubbio costituito dai luoghi nei quali viviamo. Troppo spesso ci siamo dimenticati dell’insegnamento che viene dalle cose e dagli spazi. Ci è mancata la capacità di custodire quel bene prezioso che Vito Teti ha chiamato il “senso dei luoghi”. Le nostre città sono più il regno della bruttezza che della bellezza. Custodire la bellezza è importante perché essa non è un fatto puramente estetico. Come ha spiegato lo psicoterapeuta Luigi Zoja, la bellezza ha molto a che fare con la giustizia: perché si offre a tutti allo stesso modo, e soprattutto perché abitua gli animi a rifuggire dalla sciatteria e dall’incuria, che sono incunabolo dell’illegalità. Un luogo curato e accogliente è qualcosa che ci parla e ci lega agli altri; impedisce di sentire gli altri come ostili. La bellezza ci fa sentire sicuri. La seconda considerazione non è meno importante. Se generalmente compiere un dovere è tendere la mano all’altro, ci sono situazioni in cui vuol dire piuttosto sfidare l’altro: il che avviene (dovrebbe avvenire) quando l’altro è il prepotente, il privilegiato che non ha titolo, colui che non compie il proprio dovere. Non credo sia difficile immaginare molte situazioni reali in cui saremmo chiamati a comportarci così. Sentiremo la necessità - e ritroveremo anche il coraggio - di sfidare la prepotenza se ritroveremo un ideale che abbiamo abbandonato e di cui occorre riappropriarsi. Parlo dell’onore. Abbiamo permesso che questa parola venisse usurpata da uomini del disonore, i cui codici sono fatti rispettare con la morte e la violenza, nonché da tanti soggetti che non meritereb-bero affatto di vedersi trattati con rispetto. L’onore e il rispetto sono una moneta preziosa che tutti abbiamo in mano e che non è possibile tenere nascosta. Per la logica delle relazioni sociali, dev’essere per forza scambiata con gli altri. Bisogna allora fare attenzione alle persone con le quali scambiamo le nostre monete: se offriremo stima e riconoscimento a coloro che agiscono per il bene comune, rafforzeremo il bene comune stesso e la nostra moneta ne uscirà col valore aumentato; se invece cederemo questa moneta a chi ne farà uso distorto, agendo esclusivamente nel suo interesse, la nostra moneta non varrà più nulla e ciò che ci tornerà indietro sarà il disprezzo e la violazione di ogni nostro diritto. Ritrovare l’onore è forse oggi il nostro dovere principale. Se riusciremo a non sprecare la moneta preziosa che abbiamo in mano forse riusciremo a instaurare quel circolo virtuoso da cui può cominciare la rinascita della Calabria.

Campania regina dei prestiti ai pensionati
Contribuisce per 75 % del totale nazionale
Nella classifica dei prestiti la Campania al quarto posto
In Italia quasi mille anziani al giorno chiedono credito
NAPOLI - I pensionati campani al primo posto nella classifica di credito al consumo. Infatti, secondo l'analisi di Prestiti.it, i campani contribuiscono per il 14 % del totale nazionale sui prestiti. Altro primato negativo che riguarda sempre la Campania riferisce che le richieste di prestito da parte dei pensionati arrivano addirittura al 75 %, superando notevolmente la media nazionale; questo primato in negativo però è condiviso con la regione Puglia. Se l'analisi viene ampliata su scala nazionale si evince che circa 360 mila pensionati (il 6,5%) chiedono un prestito, cioè quasi mille anziani al giorno. A spiegarci il perchè è Marco Giorgi di Prestito.it: «Se pensiamo che il 46,5% dei pensionati italiani, riceve una pensione inferiore a 1.000 euro ci rendiamo conto di come il ricorso ai prestiti personali sia una scelta utile per dilazionare le spese e pianificare meglio i pagamenti».
Le richieste arrivano prevalentemente da uomini, che rappresentano ben il 75% del totale; le donne, invece chiederebbero cifre più ridotte, pari a 14.500 euro. La scelta di chiedere un prestito è dovuto soprattutto all'esigenza di avere maggiore liquidità per affrontare le spese quotidiane; a seguire le richieste per ristrutturare casa o comprare un auto.
A guida della classifica sull'ammontare richiesto, sul gradino più alto del podio c'è la Basilicata con 21 mila euro, segue la Sardegna con 20 mila euro e la Lombardia con 18 mila e 500 euro; la Campania si posiziona appena giù dal podio con 17 mila euro. Decisamente inferiori, invece, le somme richieste in Emilia Romagna 14.500 euro e dal Friuli Venezia Giulia con 15.500 euro.

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