giovedì 27 ottobre 2011

Federali.sera_27.10.11. Ma un padano che se ne fotte di Pompei?----Giorgio Santilli: Inutile girarci intorno: a portarsi via il piano straordinario da 2,5 miliardi per gli interventi più urgenti contro il dissesto idrogeologico e le alluvioni, messo a punto dal ministero dell'Ambiente e dalla Protezione civile dopo anni di inerzie, lentezze, incertezze politiche e finanziarie, è stata ancora una volta la frana del Fas (Fondo aree sottoutilizzate).----Pompei può contare su 105 milioni per rimettersi in sesto. Perché quei soldi provenienti dai fondi Fas, di cui ieri è stato finalmente annunciato l'arrivo dopo il "sì" dell'Unione europea, serviranno a finanziare i progetti per il monitoraggio dell'area e per la sua messa in sicurezza idrogeologica.----Pireo, Stefano Grazioli: Eppure i lavoratori e le loro organizzazioni continuano a guardare con ostilità Cosco, che, stando a quanto ha riportato la testata americana National Public Radio (Npr) in un’approfondita inchiesta dello scorso luglio, non ammette la presenza di sindacati tra i suoi dipendenti greci, pagherebbe salari dimezzati rispetto alla media greca e imporrebbe turni lunghissimi, senza per giunta riconoscere gli straordinari.

Ora non disperdiamo i fondi per Pompei
Quei miliardi Fas mai arrivati
Bonus benzina 100 euro per ogni patentato lucano
Tracciata la via d'uscita dal debito sovrano ellenico
Pireo, fronti del porto
Svizzera. Previsioni à la carte per placare la ‘vox media’
Svizzera. Giochi di alleanze in un federalismo competitivo



Ora non disperdiamo i fondi per Pompei
Pompei può contare su 105 milioni per rimettersi in sesto. Perché quei soldi provenienti dai fondi Fas, di cui ieri è stato finalmente annunciato l'arrivo dopo il "sì" dell'Unione europea, serviranno a finanziare i progetti per il monitoraggio dell'area e per la sua messa in sicurezza idrogeologica. C'è voluto un piano straordinario per correre ai ripari nei confronti di un sito visitato da 2,3 milioni di persone l'anno e capace di incassare dalla biglietteria 18 milioni, secondo solo al Colosseo. Eppure è da anni che a Pompei incuria e abbandono la fanno da padroni. E questo a dispetto dei tanti convegni in cui non si perde occasione per ribadire l'importanza del patrimonio culturale per la nostra identità e come fattore di sviluppo. Ora sul piatto ci sono le risorse per dare un segnale di discontinuità e iniziare a restituire a Pompei l'immagine di tesoro inestimabile, da conservare con massima cura e valorizzare con lungimiranza. Non sarà facile. A iniziare dal non disperdere in mille rivoli i finanziamenti annunciati. Al tavolo, per esempio, si è già seduta – chiamata dai Beni culturali – Invitalia, ex Sviluppo Italia. E all'interno del ministero c'è già chi si interroga sulla necessità di un simile partner. E sul relativo onorario.

Quei miliardi Fas mai arrivati
di Giorgio Santilli
Inutile girarci intorno: a portarsi via il piano straordinario da 2,5 miliardi per gli interventi più urgenti contro il dissesto idrogeologico e le alluvioni, messo a punto dal ministero dell'Ambiente e dalla Protezione civile dopo anni di inerzie, lentezze, incertezze politiche e finanziarie, è stata ancora una volta la frana del Fas (Fondo aree sottoutilizzate). Il cuore del piano, cofinanziato dalle Regioni, era un finanziamento Fas da un miliardo, deciso dal Cipe due anni fa e poi tagliato da Giulio Tremonti prima a 800 milioni, poi a 500, infine portato via dall'ultimo taglio di 6,5 miliardi inserito nella legge di stabilità. Quel che più conta, come per tante delle risorse promesse con il Fas dal Cipe e da Tremonti, è che a destinazione non è arrivato neanche un euro.
Risorse virtuali quando ci sarebbe bisogno di certezza di finanziamenti, anno dopo anno, per dare continuità a una manutenzione che riduca i rischi di alluvioni, allagamenti, smottamenti. Lo ha sottolineato a più riprese il ministro dell'Ambiente, Stefania Prestigiacomo. Anche l'Ance ha ricordato come sia al palo quel piano di piccole e medie opere sul territorio approvato due anni fa dal Cipe.
La fragilità estrema del territorio italiano si riassume in un numero dell'Iffi (Inventario dei fenomeno franosi in Italia): nell'ultimo secolo sono stati registrati 485mila eventi franosi. Il 12% ha prodotto danni a persone e cose. Il costo del dissesto idrogeologico è stimato dal Cresme in 52 miliardi per riparare i danni registrati negli ultimi 60 anni. Negli ultimi 20 il costo è stato di 22 miliardi, salendo oltre la soglia del miliardo l'anno.
L'emergenza è diventata così danno economico e, a volte, business della ricostruzione, senza sviluppare investimenti duraturi in forma di buona prevenzione e pianificazione edilizia.
Per fare buona prevenzione occorrerebbero oltre 40 miliardi secondo il Cresme mentre l'Anbi (Associazione nazionale bonifiche irrigazioni), che pure ha dedicato uno studio molto capillare sul territorio, propone un piano di primo intervento con 2.519 interventi da 5,7 miliardi.
L'inerzia costa. Il primo piano idrogeologico italiano, il «piano De Marchi» del 1970, prevedeva un costo di 8,7 miliardi di euro (a prezzi 2009).
L'area franata in Italia misura 21mila chilometri quadrati, il 6,6% del territorio nazionale. Nel 42,8% dei casi – secondo il Consiglio nazionale dei geologi – la frana ha danneggiato infrastrutture di trasporto, nel 27,4% terreni agricoli, nel 14,5% nuclei abitati e case. Negli ultimi 25 anni i fenomeni mortali sono stati 227, 130 frane e 97 alluvioni, e hanno causato 1.189 morti, per una media di 47 all'anno.
Questo quarto di secolo è però suddiviso in due periodi distinti. Nel primo, 1985-2001, è stata raggiunta la punta massima di mortalità, 60 morti l'anno: hanno pesato tragedie devastanti come il Vajont nel 1985 (268 morti), la Valtellina nel 1987 (49 morti), il Piemonte nel 1994 (78 morti), Sarno nel 1998 (157 morti). Il male colpiva sporadicamente, ma, quando colpiva, non dava scampo.
Una prima correzione di rotta c'è stata, nel periodo 2002-2010: monitoraggio, protezione civile, manutenzione del territorio (ancora insufficiente), pianificazione urbanistico-territoriale, repressione delle responsabilità collegate agli eventi. Il numero delle vittime è stato ridotto a 30 l'anno.
Eventi meno gravi, ma non meno diffusi. È cresciuto il numero delle frane che hanno provocato danni rilevanti: nel periodo 2002-2010 ha superato le 100 frane l'anno. La metà di questi 905 eventi franosi si sono verificati in quattro regioni: Piemonte (133 eventi), Lombardia (132), Liguria (130) e Sicilia (130). Gli allarmi di questi giorni in Liguria non raccontano niente di nuovo.
Le trasformazioni non controllate del territorio sono la principale ragione del dissesto. Abusivismo e non solo. Il 9,6% della popolazione italiana – stima il Cresme nel recente lavoro per il Consiglio nazionale dei geologi – vive ormai in zone ad alto rischio idrogeologico e si arriverà al 23% nei prossimi 40 anni, se non si interviene per bonificare e prevenire.
Ha pesato, nel bene e nel male, il sistema di Protezione civile «modello Bertolaso» che aveva fatto di queste emergenze la propria missione. La risposta eccezionale all'eccezionalità, elevata a sistema. Risposta tempestiva, spesso. Risposta dilagante nel sostituirsi ai poteri ordinari, accentrando oltre ogni limite, con la conseguente distorsione del sistema degli appalti. Un modello costruito sulla catastrofe che ha ritardato la capacità dello Stato e delle articolazioni regionali di dare una risposta ordinaria e preventiva alle emergenze naturali.

 27 ottobre 2011

Bonus benzina 100 euro per ogni patentato lucano
di LUIGIA IERACE
Ammonta a poco più di 100 euro il bonus carburanti, la somma che sarà accreditata sulle card che riceveranno gli oltre 280mila residenti lucani, patentati i primi di febbraio. Per il calcolo del beneficio pro capite, Poste Italiane ha inoltrato la comunicazione ufficiale sul numero effettivo finale delle richieste accettate allo sportello e risultanti dalle successive verifiche informatiche sul data- base impostato da Poste Italiane. In esclusiva la Gazzetta anticipa i dati: oltre 292mila le persone che si sono presentate agli sportelli postali, scendono poi a più 284mila le domande accettate poi dagli sportelli.
Proprio in questi giorni sono in corso le ultime operazioni di controllo informatico che dovrebbero portare a un totale definitivo di aventi diritto di poco superiore a 280mila unità. In base al metodo di calcolo inoltrato dal Ministero dello sviluppo economico al Ministero dell’economia e finanza e alla Ragioneria dello Stato, l’importo accreditato dovrebbe essere di poco superiore ai 100 euro. Ricordiamo che il fondo preordinato alla riduzione del prezzo alla pompa dei carburanti per i residenti delle regioni interessate dall’estrazione di idrocarburi, alimentato dal 3% di royalty, versate dalle compagnie petrolifere per la produzione del 2010 in Basilicata è pari a circa 33 milioni di euro.
Cifre note che hanno portato a avanzare una serie di ipotesi sull’importo. Un rincorrersi di cifre senza tener conto che il criterio di calcolo adottato dal Mise non è una semplice divisione tra beneficio e numero dei patentati, dopo aver sottratto le spese per l’operazione. In partenza, infatti, il Ministero ha fissato in partenza alcuni paletti come un range minimo-massimo di erogazione a card (indispensabile nel caso ci fosse stato un basso numero di istanze). Quanto ai costi, se una carta di credito costa sui 25 euro, quelli della card carburanti assicurano al Ministero sono di gran lunga minori e spalmati nei 5 anni.
È previsto, infatti, un meccanismo per il quale il costo di tutta l’operazione è ripartito per evitare che imaggiori costi del primo anno, gravino tutti nella fase di start up dell’iniziativa. A giorni il Mise comunicherà i dati ufficiali sulla base del resoconto di Poste Italiane sulle attività svolte dalla predisposizione del sito, ai corsi di aggiornamento per il personale necessari per l’acquisizione informatica delle richieste, della modulistica e di tutte le attività preliminari. Quindi il numero totale delle richieste presentate, di quelle accettate allo sportello, di quelle presentate fuori dalla regione Basilicata, il numero totale degli Uffici Postali coinvolti in Italia e in Basilicata in cui Poste ha potenziato il personale in funzione dell’iniziativa. A questo punto la macchina potrà partire con una tempistica slittata per il prolungamento del periodo di presentazione delle richieste rispetto a quello programmato in attesa del pronunciamento del Consiglio di Stato sull’annullamento della sospensiva del Tar Lazio e per la gestione del data-base più difficoltosa per un flusso non previsto di richieste.
Vediamo quali sono i prossimi passaggi. Per nove settimane dal 21 novembre 2011 fino al 20 gennaio 2012 saranno inviate le card ai cittadini aventi diritto. L’utente man mano che arrivano le carte può attivarle dal 21 novembre presso tutti gli Uffici Postali, ma non potrà ancora utilizzarle. L’erogazione avverrà quando tutte le operazioni di consegna saranno completate. Quindi, dopo il 20 gennaio, per 10 giorni saranno effettuate le verifiche sulla produzione e sugli invii delle carte. L’accredito della somma sulla carta si avrà dal 30 gennaio al 17 febbraio 2012. In tale data tutti gli utenti avranno l’importo disponibile. Entro maggio 2012 Poste Italiane faranno il resoconto economico del primo anno di attività con indicazione delle somme erogate e di quelle eventualmente residuali sul conto tesoreria per il loro versamento in conto entrate del Ministero dell’Economia e Finanza come previsto dal decreto 12/11/2010. Tutto a posto per il 2011 ma con un paio di criticità per il secondo anno: la decisione del Tar del Lazio il 21 marzo che potrebbe portare ulteriori ritardi in caso di ricorso successivo al Consiglio di Stato e il trasferimento dei fondi per il II anno di erogazione, dal Ministero dell’economia e delle finanze al capitolo di bilancio – fondo carburanti ex art. 45 - del Mise ancora non avvenuto.

Tracciata la via d'uscita dal debito sovrano ellenico
dall'inviato Vittorio Da Rold
BRUXELLES - I leader europei alle 4 di mattina di oggi hanno convinto gli obbligazionisti privati (banche e assicurazioni) a accollarsi il 50 per cento di perdite sul valore facciale del debito greco (pari a 257 miliardi di euro), incrementando nel contempo la potenza di fuoco (il famoso bazooka) del fondo salva stati EFSF a mille miliardi di euro, moltiplicando per quattro i 250 miliardi rimasti dai 440 miliardi di dotazione iniziale dopo gli impegni già presi per Grecia, Irlanda e Portogallo. Gli stati membri parteciperanno con 30 miliardi di euro al coinvogimento dei privati nell'haircuts dei bond greci (PSI).
Dopo dieci ore di braccio di ferro e dopo un secondo vertice in quattro giorni, i 27 prima e 17 dopo, capi di stato e di governo Ue hanno tracciato la via d'uscita dal pantano del debito sovrano ellenico, anche se mancano ancora dei dettagli chiave di tutta l'imponente operazione.
I negoziati con l'IIF di Charles Dallara, l'associazione delle maggiori banche del mondo, dopo uno stop a mezzanotte, alla fine hanno portato al taglio del 50% dei bond greci che porterà nel 2020 il debito greco al 120 del Pil. Una posizione più accettabile e che potrebbe consentire ad Atene di ritornare sul mercato. In più vengono dati 100 miliardi di euro di nuovi aiuti ad Atene, così da evitare il contagio nella zona euro. Atene potrà utilizzare i fondi anche per ricapitalizzare le banche greche che dopo l'haircut "volontario" dovranno vedersela con una mancanza di capitale. Gli istituti greci posseggono circa 40 miliardi di euro di bond ellenici.
«L'attenzione del mondo era su questi temi», ha detto il cancelliere tedesco Angela Merkel alle 4:15 di oggi - e i leader europei hanno convinto gli obbligazionisti a prendersi il 50 per cento di haircut sul debito greco e hanno incrementato la potenza di fuoco del fondo di salvataggio a mille miliardi di euro in risposta alla crisi finanziaria». «Noi europei abbiamo dimostrato questa notte di aver trovato un accordo», ha concluso la Merkel.
Le misure includono un ruolo più importante per il Fondo monetario internazionale di Christine Lagarde, un impegno dall'Italia a fare di più per ridurre il suo debito e un segnale da parte dei leader europei che la Banca centrale, «nel rispetto delle sua più totale autonomia», ha specificato Nicolas Sarkozy, il president francese, «manterrà acquisti di obbligazioni sul mercato secondario».
I leader Ue hanno messo in campo due modi di utilizare l'EFSF, che è stato varato l'anno scorso per proteggere i piccoli paesi come Grecia, Irlanda e Portogallo e che ora deve sostenere anche la ricapitalizzzione delle banche al 9% del core tier 1 e in futuro l'acquisto di bond sul secondario al posto della Bce.
Il presidente del Consiglio dell'Unione europea Herman Van Rompuy ha detto a Bruxelels sempre alle 4:15 che «l'effetto leva potrebbe moltiplicare la potenza del fondo di un fattore di quattro a cinque volte». «Noi europei abbiamo dimostrato oggi di aver raggiunto le conclusioni necessarie contro la crisi». Ora spetterà ai mercati verificarne la bontà.
 27 ottobre 2011

Pireo, fronti del porto
Pubblicato il27/10/2011 da Stefano Grazioli
Il Pireo, tra scioperi, declino e penetrazione cinese. Uno dei grandi simboli della crisi greca.
Matteo Tacconi / Radio Europa Unita
S’è ripreso a lavorare, giù al porto. Comandanti, primi e secondi ufficiali, nostromi, carbonai e mozzi sono tornati alle loro postazioni. Sui moli è ricominciato il solito trambusto. Il traffico, in entrata e in uscita, è nuovamente intenso. Come sempre. I traghetti sciabordano, le loro ciminiere sputacchiano nuvoloni di gasolio. L’impasto tra carburanti e salsedine ha ridato all’aria la classica, sgradevole viscosità. Fino a lunedì, però, la porzione del Pireo deputata al traffico passeggeri è stata la pallida copia di se stessa. Lo sciopero dei marittimi, durato la bellezza di otto giorni e indetto a causa – manco a dirlo – delle politiche draconiane imposte dal governo sotto dettatura bruxellese, ha inchiodato le imbarcazioni ai moli e imposto all’infrastruttura, terza al mondo e prima in Europa per volume di passeggeri, una lunga pausa.
A visitarlo di domenica, nell’ultimo giorno di agitazione, lo scalo ateniese sembrava un cimitero di traghetti. All’interno dell’area portuale, grande silenzio e qualche comparsa. C’erano quelli che il porto ce l’hanno nel sangue e non possono farne a meno: gli anziani che confabulano e i pescatori senza pretese, alcuni armati di canna e altri di togno (lo strumento intorno al quale chi pesca senza canna avvolge il filo di nylon). C’erano delle famiglie, uscite dalla funzione domenicale nella chiesa di Aghios Nikolaos (San Nicola), a passeggio sulle banchine. Ma c’era anche chi al porto ci si è dovuto inevitabilmente fermare, come Philippe e Max, due pompieri francesi, annoiati a morte. «Saremmo dovuti andare a Creta per un’esercitazione congiunta con i colleghi greci. Invece siamo qui, da giorni, impotenti. Mangiamo, beviamo, dormiamo. Alternative non ne abbiamo». «A scioperare sono solo i marittimi. I portuali, gli ormeggiatori e gli altri che lavorano a terra, in questi giorni non hanno incrociato le braccia. Però è come se l’avessero fatto. Se i traghetti restano ancorati non hanno nulla da fare. Quindi sono rimasti a casa», ci ha spiegato un agente alla caserma della polizia marittima, prima di scagliarsi contro il governo Papandreou, l’Europa, la finanza volatile e tutto quanto il resto, in una filippica serratissima.
Lo sciopero ha tenuto fermi anche gli operatori delle biglietterie delle compagnie navali. «Noi delle biglietterie non siamo in agitazione. Ma molte compagnie, visto che è tutto bloccato, hanno preferito tenere a riposo i dipendenti, concedendo dei giorni di ferie e risparmiando un po’ di soldi, visto che lo sciopero ha causato loro importanti perdite», ha riferito un’impiegata della Blue Star, tirando fuori la testa dalla finestrella del suo gabbiotto, uno dei pochissimi aperti. Clienti zero, comunque.
Le compagnie di navigazione, in effetti, c’hanno rimesso parecchio. «Tutti questi giorni di sciopero hanno significato migliaia di rimborsi per i passeggeri e migliaia di euro in fumo». Così Sophia, dipendente di un’agenzia turistica situata nei pressi della stazione della metropolitana. Niente passeggeri, niente turismo. Con i tempi che corrono, rinunciare alle entrate generate dal flusso di villeggianti, preziose come l’oro, fa male. Le isole, poi, come ha registrato il quotidiano Ekhatimerini, sono a corto di rifornimenti. Senza contare che non è la prima volta, da quando la crisi ha aggredito il paese, che il Pireo s’inceppa. Le statistiche dell’autorità portuale, relative al 2010, indicano che l’anno scorso, rispetto al 2009, c’è stato un calo, a livello di passeggeri, pari al 5,96%. Il prossimo bollettino dovrebbe essere ancora peggiore. L’unica eccezione della otto giorni di sciopero è stata quella della navi da crociera. I bestioni della Msc, della Costa e della Louis hanno continuato a entrare e uscire dal porto, scortati delle navi pilota con i loro equipaggi, in via eccezionale al lavoro.
Scenario diverso, invece, quello nella parte occidentale del Pireo, situata nel sobborgo di Keratsini e destinata alle operazioni delle navi merci. Lì non s’è scioperato e gru, muletti e macchinari vari hanno scaricato e caricato container dai e sui cargo. Ma a Keratsini, un immenso complesso infrastrutturale, con due spiazzi giganteschi pieni di automobili giapponesi e coreane non immatricolate, pronte a entrare nel mercato europeo, tira ancora aria di tempesta. Il punto è che i portuali non hanno digerito l’arrivo di Cosco, colosso cinese dei trasporti marittimi, che s’è presa in affitto per 35 anni un intero settore dello scalo di Keratsini, tramite un contratto dal valore di cinque miliardi di euro e l’impegno a costruire un nuovo molo. L’accordo, stabilito nel 2006 dal governo conservatore di Kostas Karamanlis, ha portato il sindacato portuale a organizzare scioperi a catena contro la privatizzazione del Pireo e il “modello cinese” del lavoro (importante la diminuzione del traffico merci), fino a quando, nell’autunno del 2009, l’esecutivo Papandreou ha negoziato nuovi termini, con nuove garanzie.
Eppure i lavoratori e le loro organizzazioni continuano a guardare con ostilità Cosco, che, stando a quanto ha riportato la testata americana National Public Radio (Npr) in un’approfondita inchiesta dello scorso luglio, non ammette la presenza di sindacati tra i suoi dipendenti greci, pagherebbe salari dimezzati rispetto alla media greca e imporrebbe turni lunghissimi, senza per giunta riconoscere gli straordinari. Il numero uno di Cosco, Wei Jiafu, ha più volte smentito queste storie, tenendo a precisare che non uno dei suoi dipendenti greci ha mai incrociato le braccia. La cosa non ha tuttavia rassicurato Nikolaos Georgiou, a capo del sindacato dei portuali, il quale ha spiegato, alla Npr, che il timore è che il modello cinese dell’impiego s’affermi anche tra le altre corazzate commerciali che operano a Keratsini. Mente i giornali dicono che Pechino sta usando il Pireo come l’hub da cui spedire, in tutt’Europa, le sue merci. «Paccottiglia a basso costo», le ha definite Gilda Lyghounis, corrispondente di Osservatorio Balcani e Caucaso da Atene.
Scioperi, stipendi decurtati e calo del traffico nel settore dei traghetti, grosse preoccupazioni in quello dei cargo. La crisi greca s’allunga, insidiosa, anche sulle banchine del Pireo. Gli unici che sul mare e sui porti non sembrano risentire delle turbolenze sono gli armatori, il cui fatturato, grazie a una pioggia fitta di commesse dall’estero, è in aumento, in controtendenza rispetto ai tempi che corrono. Può aiutare, questo, la Grecia a rialzarsi? Difficile. Gli armatori hanno gli uffici al Pireo, con la Grecia hanno poco a che fare. «Sono, in larghissima parte, operatori economici internazionali. Le loro navi sono iscritte ai registri navali di altri paesi, i loro equipaggi sono in prevalenza formati da stranieri. La marina mercantile greca – ragiona Alessandro Napoli, esperto di affari economici internazionali che ha vissuto e frequentato a lungo il paese ellenico – è una delle più grandi al mondo, ma in sostanza non è greca. Quindi, allo stato, in termini di tasse, entra poco o nulla».

Svizzera. Previsioni à la carte per placare la ‘vox media’
 di Aldo Bertagni - 10/27/2011
Sarà che la fantasia non ci manca. O forse che il Consiglio di Stato, oltremodo rinnovato di tre quinti, alla fine non vive sulla luna ma in un cantone dove lo sport preferito è diffidare delle istituzioni. E dai e dai, alla fine anche il governo si stanca e si piega alla “vox media” che grida al “tesoretto”.
Sta di fatto che di fronte a un previsto disavanzo nel bilancio 2012 dello Stato di quasi 200 milioni (dovuto va detto a cause esogene) i cinque ministri hanno pensato bene di aumentare le entrate delle imposte. Ma attenzione, c’è il trucco: solo in linea teorica. Non certo con un provvedimento specifico (tipo aumento delle aliquote o taglio delle deduzioni). Macché! Ci mancherebbe! Si sono semplicemente limitati a inserire nel bilancio preventivo 2012 un aumento d’imposte per 123 milioni rispetto a quanto previsto nel 2011.
Una scelta corretta? Dipende dai punti di vista. Anzi, dagli obiettivi. Se lo scopo è raggiungere il pareggio dei conti o, nella migliore delle ipotesi, limitare il disavanzo d’esercizio fra le scelte ce n’è una sicura: aumentare le entrate tramite le imposte, perché con l’aria che tira (leggi crisi economica) tagliare i servizi pubblici equivale a far scoppiare una mezza rivolta sociale. Così infatti hanno deciso quei Cantoni d’oltre Gottardo (Zurigo in testa) che si ritrovano nella medesima e difficile situazione del Ticino. È pragmatismo scevro da ideologie.
Se invece si preferisce seguire le polemiche nate sul nulla, sulla fuffa, be’ allora la strada è un’altra e in Canton Ticino la creatività non manca. Che si fa? Si calcolano le imposte del prossimo anno sulla base delle previsioni del Bak dello scorso luglio, le meno recenti. Come mai? Semplice. L’istituto di ricerca e consulenza economica basilese in estate prevedeva per il 2012 una crescita del prodotto interno lordo ticinese pari al 2,7%; le ultime stime, appena giunte a Bellinzona, rivedono la crescita al ribasso, ovvero dell’1,1%. Non è proprio un metodo, come dire, adeguato. Infatti “questa scelta – si legge nel messaggio sul preventivo 2012 – che comporta un parziale abbandono del criterio di prudenza finora seguito dal governo, potrebbe evidentemente tradursi in un gettito sopravvalutato se l’evoluzione economica dovesse effettivamente confermare i segnali di rallentamento resi noti in questi giorni”. Ce lo dicono anche loro. Non lo negano.
C’è da restare “basiti”. A maggior ragione se poi si ascoltano le parole del consigliere di Stato Paolo Beltraminelli, secondo il quale con il nuovo metodo (quello testé descritto) “si è sposata la trasparenza per sgombrare il campo dai tesoretti” come ha detto ieri il direttore del Dss. Trasparenza? Dalle nostre parti la chiamano irresponsabilità politica, ma probabilmente parliamo un altro linguaggio.

Ancora una piccola, e finale, domanda: forse il governo ha intenzione per il futuro di addomesticare il Bak, così come un già direttore del turismo ticinese voleva fare con la Meteo? Potrebbe essere un’idea per far quadrare i conti del bilancio 2013.

Svizzera. Giochi di alleanze in un federalismo competitivo
Di Sonia Fenazzi, swissinfo.ch
Sullo scacchiere delle relazioni confederali si muovono nuove pedine: gli addetti cantonali agli "affari esterni". Sono un segno tangibile di un federalismo mutato. Più competitivo. Ma ciò, secondo il delegato ticinese, significa anche "più opportunità".
 Oggi "tutti i cantoni hanno una persona di riferimento che funge da coordinatore delle relazioni esterne. Il peso dipende molto dalle responsabilità che le sono affidate, sia nei confronti della Confederazione, sia in seno all'amministrazione del proprio cantone", spiega a swissinfo.ch Jörg De Bernardi, che dal mese di marzo è delegato del Ticino per i rapporti confederali.
Agli osservatori appare comunque chiaro che il delegato ticinese a Berna è molto attivo. Lo si incontra spesso nei corridoi del Palazzo federale. Agli appuntamenti delle autorità cantonali con quelle federali non manca mai. Non sembra neppure una coincidenza che questi incontri si siano moltiplicati negli ultimi mesi.
Il delegato si sposta in continuazione tra Bellinzona e Berna. "Vivo in treno", scherza. Delle lunghe ore in treno ne approfitta per scrivere rapporti e preparare documenti, che spesso non ha tempo di redigere in ufficio perché la sua agenda è fitta di colloqui e riunioni. Un ufficio che nella capitale federale si trova proprio di fianco alla stazione ferroviaria.
Il Ticino è il secondo cantone insediatosi anche con un proprio ufficio a Berna. Il primo a compiere questo passo è stato Ginevra nel 2008. Non è escluso che presto Basilea faccia altrettanto.
Una conseguenza del federalismo competitivo che mette maggiormente sotto pressione i cantoni periferici? "In primo luogo occorre precisare che non si tratta di una competizione sfrenata. Nel federalismo svizzero c'è ancora una forte solidarietà", risponde De Bernardi.
L'accresciuta concorrenza interna nella Confederazione d'altra parte, secondo il ticinese, incentiva la creatività e stimola lo spirito d'iniziativa dei cantoni. "Nel senso che valorizza quello che apportano come valore aggiunto al benessere comune della Confederazione".

La vicinanza con l'Italia come atout
Queste nuove regole del gioco offrono l'occasione di profilarsi anche ai cantoni periferici. Proprio per la sua posizione geografica, il Ticino ha in mano un'ottima carta da giocare: quella delle relazioni transfrontaliere con l'Italia, rileva Jörg De Bernardi. L'Italia è il secondo partner commerciale della Svizzera, dopo la Germania.
"Sviluppare efficacemente i rapporti con le regioni di confine significa acquistare peso nella Confederazione, poiché così il Ticino a Berna sarebbe visto come un profondo conoscitore della Lombardia, la cui importanza in Italia è notevole sia sul piano economico che su quello politico". D'altra parte, "per collaborare in modo più incisivo con le vicine Regioni e province italiane e approfittare di quanto esse possono offrirgli, il Ticino deve trovare delle soluzioni a Berna".
Accordi e trattati con paesi esteri, infatti, sono di competenza della Confederazione. Il Ticino non può dunque trattare direttamente con Roma. "E anche su una serie di questioni transfrontaliere che sono di competenza del cantone, Berna ha un ruolo determinante. Basti pensare al mercato del lavoro, ai trasporti, agli investimenti, alla cultura".

Saper anticipare
La sfida per il cantone è di "riuscire a giocare d'anticipo" su tutti i fronti, afferma il delegato. "Il coordinamento corretto della tempistica è fondamentale se si vogliono influenzare delle decisioni o se si vuole che siano trattati determinati temi", sottolinea De Bernardi. "Non serve a nulla arrivare a una riunione con incarti solidi, se non si possono presentare perché l'ordine del giorno è già stato stabilito".
Benché tutti i grandi disegni di legge federali prima di essere sottoposti al parlamento seguano una procedura di consultazione che coinvolge anche tutti i cantoni, secondo il delegato, nei casi in cui un cantone ha degli interessi specifici "idealmente dovrebbe seguirli ancora prima che arrivino in questa fase".
L'esperienza acquisita da Jörg De Bernardi nelle sue precedenti attività di funzionario e diplomatico presso la Segreteria di stato dell'economia (SECO) gli consente di conoscere perfettamente i meccanismi della Confederazione e di affermare che "molti incarti ricevono l'impronta di fondo quando sono ancora a livello tecnico".
Riuscire ad intervenire in questa fase, ossia "quando sono ancora malleabili e fuori dal grande dibattito politico" ha inoltre il vantaggio di "non richiedere un grande dispendio di forze, di mobilitazione, di campagne. Basta semplicemente favorire uno scambio tempestivo di informazioni sulle posizioni e sugli interessi reciproci. Così si evitano malintesi e sviluppi poco opportuni per il cantone".

Creare alleanze
Ovviamente la tempistica da sola non basta a garantire il successo alle rivendicazioni di un cantone. Per contare di più a Berna, bisogna "essere ben preparati e documentati, agire con intelligenza, muoversi con furbizia, mostrare grinta e creare alleanze", sottolinea il delegato.
Una strategia che Jörg De Bernardi illustra con un esempio concreto: la lotta delle autorità ticinesi contro la chiusura per 900 giorni della galleria autostradale del San Gottardo, prevista dal Dipartimento federale dei trasporti tra il 2020 e il 2025, per i lavori di risanamento completo.
L'ampia collaborazione messa in atto per cercare "alternative valide", per De Bernardi "è già un successo di processi, anche se per i risultati bisogna ancora aspettare". Il delegato è però fiducioso sulle possibilità ticinesi di vincere la partita con il sostegno di altri cantoni.
"Non si deve dimenticare che il primo cantone destinatario delle importazioni dall'Italia è quello di Basilea, seguito da Vaud. Il Ticino è solo in terza posizione. La chiusura coinvolgerebbe anche i cantoni su tutto l'asse del San Gottardo. Bisogna fare in modo che siano coscienti dell'impatto che avrebbe una chiusura di lunga durata di una galleria d'importanza nazionale e internazionale". E il federalismo è fatto anche di coalizioni.
 Sonia Fenazzi, swissinfo.ch

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