venerdì 28 ottobre 2011

Federali.sera_28.10.11. Francia e Germania fuori pericolo, con botte piena e moglie ubriaca.----Michele Ainis: È la parabola finale della legislatura: un governo commissariato dall'Europa, un Parlamento commissariato dal governo. D'altronde è proprio così che è cominciata. Negando alle assemblee legislative il loro mestiere principale, spostando l'officina delle leggi nei sottoscala del governo. Con i decreti legge, ma soprattutto con i decreti legislativi: 143, in media 4 al mese. Oppure sequestrando le due Camere con i maxiemendamenti, che oltretutto rendono le nostre leggi assolutamente incomprensibili.----Le misure sono insostenibili, tutti hanno problemi, moltissimi problemi – dice un residente di Atene -, e sono convinto che vedremo ancora di peggio, il peggio deve ancora venire”.

Puglia. Mancano i soldi? Adotta la scuola
Fenice chiede i danni
L'UNIONE SARDA - Economia: La retromarcia dell'economia
LA NUOVA SARDEGNA - Economia: Europa, incubo dei pescatori
padania. Sempre più stranieri, Verona prima provincia nel Veneto
Quelle Camere ormai bloccate
Papandreou incoraggia i greci dopo l’accordo
Svizzera. Politici e banchieri europei irresponsabili
L’economista Carlo Pelanda: “San Marino vs Italia? La guerra è finita”       
La Russia non sente la crisi ma sogna l'euro



Puglia. Mancano i soldi? Adotta la scuola
MESAGNE - La finanziaria taglia i fondi per la scuola? I genitori non ce la fanno più a comprare pennarelli, matite, carta e tutto ciò che è necessario per i servizi igienici? A Mesagne, tra qualche tempo, non ci sarà nessun problema. Arriva, infatti, l’iniziativa promossa dal Comune che ha per titolo “Adotta una scuola”. La consigliera comunale – gruppo “Noi Centro con Ferrarese” - con delega alla pubblica istruzione, avv. Maria Teresa Saracino, ha già messo insieme un considerevole numero di associazioni del territorio che hanno a cuore il diritto allo studio. Obiettivo è trovare i fondi necessari per comprare banchi e sedie nuovi e costruire un fondo cassa utile ad acquistare il materiale didattico per le scuole elementari e medie della città.
Stasera ci sarà un nuovo incontro tra le associazioni che hanno aderito all’invito del Comune per definire i particolare della prima iniziativa pubblica. Nel giorno di San Martino, davanti alle scuole che dipendono economicamente dal Comune, ci saranno dei banchetti per la vendita di una bottiglia di vino e un pacchetto di tarallini. Il problema dei fondi per la scuola, in questo caso, viene risolto con l’idea di offrire “tarallucci e vino”.
I fondi raccolti rimarranno in capo ad una nuova associazione di volontariato, composta da referenti delle altre aggregazioni sociali della città, che si occuperà delle necessità delle varie scuole di Mesagne. In futuro sono previste altre iniziative. Come quelle che fanno riferimento alla raccolta differenziata nelle scuole e la conseguente vendita del materiale accumulato. E poi progetti nell’ambito ambientale e una forma di vendita di buoni sconto da utilizzare negli esercizi commerciali della città. Il movimento sociale che ne deriverà da quest’iniziativa, voluta dall’Amministrazione comunale, potrà essere utile a diverse componenti economici della città. Per questo motivo hanno già dato l’adesione la Confartigianato, Confcommercio, Cinesercenti, Cia, Avis, Cna, Legambiente, Lions, Libera, Csi e altre associaizoni. Entusiasti i dirigenti scolastici del primo e del secondo circolo didattico oltre che ai presidi delle due scuole medie.
Il presidente della provincia di Brindisi, Massimo Ferrarese, contattato dalla sua referente in consiglio comunale ha già promesso di intervenire supportando il progetto del Comune. La provincia di Brindisi non ha una responsabilità diretta nelle scuole Elementari o medie del territorio, ma grazie alla sensibilità del presidente Ferrarese si potranno avere dei fondi per superare l’empasse economico dovuto ai tagli del governo centrale. [Cosimo Saracino]

Fenice chiede i danni
Per lo stop vuole 40mila euro al giorno
di ANTONELLA INCISO
POTENZA - Alla fine il ricorso è arrivato. Come si poteva ipotizzare, come si poteva prevedere. La società francese Edf, infatti, ha impugnato la delibera della Provincia di Potenza con cui si disponeva la sospensione dell’attività del termovalorizzatore di San Nicola di Melfi ed avviato l’iter per l’udienza davanti al Tar. La novità, però, è che oltre alla riapertura dell’impianto il colosso francese ha chiesto anche i danni. Sì, i danni economici per la mancata attività. Una cifra che potrebbe arrivare ad un massimo di sei milioni di euro se si calcola che il termine massimo per la sospensione è di 150 giorni.
Certo, considerato che la discussione davanti ai giudici amministrativi arriverà prima, è evidente che in caso di accoglimento alla società Edf non toccheranno certo i sei milioni di euro calcolati. Certo è, invece, che la società francese ha chiesto un risarcimento di 40mila euro al giorno. Soldi a cui nelle loro intenzioni dovrebbero aggiungersi ad altri 360mila euro. Insomma, una bella cifra. Una somma che appare destinata a crescere ogni giorno che passa. Ma se l’aspetto economico (pur essendo un atto dovuto considerato il ricorso) rimane uno degli elementi più interessanti della questione, in base a quali altri elementi Fenice ha stabilito di impugnare il provvedimento? Semplice puntando esclusivamente sulla regolarità delle azioni.
«La decisione della società si basa sulla convinzione della totale infondatezza dell’atto di sospensione - si legge in una nota - in quanto - a partire dal 2009, con la messa in sicurezza di emergenza dell’impianto, tutte le sorgenti di contaminazione sono state individuate ed eliminate e le possibili fonti di diffusione della stessa sono state confinate».
Per Fenice, poi, a conferma di ciò «gli stessi enti competenti hanno sottolineato che gli interventi di messa in sicurezza dell’impianto hanno ridotto sensibilmente i livelli di contaminazione delle acque sotterranee e il processo è governato nell’ambito del procedimento sui siti contaminati nel pieno rispetto della normativa vigente».
«Il processo di analisi di rischio sanitario ed ambientale - continua ancora Fenice - conferma che nessun danno alla salute pubblica ed all’ambiente è derivato e può derivare dall’esercizio dell’impianto. Per questo la società esprime completa fiducia nella valutazione della richiesta di annullamento, e in un’ottica di massima collaborazione e trasparenza, si mette a totale disposizione dell’autorità giudiziaria ». Insomma, per la società francese tutto è in regola. Le procedure sono state rispettate, le sorgenti di contaminazione sono state tutte individuate ed eliminate e le possibili fonti di diffusione dell’inquinamen - to sono state confinate. Tutto in regola, dunque. Ma non solo, perchè Fenice Ambiente ha ribadito la volontà di procedere alla bonifica del sito.
«Nell’attesa dell’approvazione da parte di Regione, Provincia, Comune di Melfi, Arpab, Asp, Consorzio Asi e Prefettura del progetto di bonifica presentato lo scorso 18 ottobre - conclude la nota - ribadiamo il nostro impegno e la nostra volontà di realizzare, da subito, tutte le attività di bonifica». Cosa succederà, dunque, a questo punto? Molto dipenderà dalla fissazione dell’udienza davanti i giudici del Tribunale amministrativa e dalla decisione che essi prenderanno. Allora, solo allora, infatti, si capirà se la Provincia di Potenza dovrà o meno pagare i danni a Fenice.

L'UNIONE SARDA - Economia: La retromarcia dell'economia
28.10.2011
Penalizzata l'internazionalizzazione Il modello di crescita e sviluppo originariamente adottato per l'Isola è stato realizzato, è sempre utile ribadirlo, mediante un processo di “industrializzazione forte”, fondato sulla costituzione di alcuni poli industriali le cui attività produttive non hanno mai rappresentato punti di forza nemmeno per l'intero sistema economico nazionale. La prospettiva di crescita e sviluppo adottata ha così configurato una base produttiva caratterizzata da un'intrinseca debolezza strutturale, in quanto all'aumento generalizzato della domanda - indotto dall'aumento del reddito disponibile - non ha corrisposto un generalizzato potenziamento dell'offerta. Da tutto ciò è derivata una modalità di funzionamento del sistema economico regionale che ha privilegiato l'obiettivo del miglioramento del reddito disponibile per abitante rispetto al reddito prodotto. È nata così una regressività strutturale dell'economia regionale, il cui peggioramento dopo il 2003 è dipeso, in particolare, dalla contrazione del livello di internazionalizzazione delle attività produttive operanti in Sardegna. Infatti, l'incidenza delle esportazioni delle attività produttive a “orientamento esogeno”, quali petrolchimica, chimica e metallurgia sulle esportazioni totali, al netto del valore dei prodotti petroliferi, è diminuita ed è, probabilmente, destinata a contrarsi ulteriormente. Il fallimento sul piano dell'internazionalizzazione dell'economia regionale può essere, pertanto, assunto a paradigma da un lato dell'origine dei mali attuali dell'economia regionale e dall'altro della dimostrazione che le politiche pubbliche regionali sono sempre state utilizzate come strumento di cattura del consenso elettorale da parte di chi pro-tempore ha avuto la responsabilità della loro attuazione. Gianfranco Sabattini

LA NUOVA SARDEGNA - Economia: Europa, incubo dei pescatori
28.10.2011
CAGLIARI. L’Europa e le servitù militari fanno paura alla marineria sarda. Sono questi due dei molti problemi sollevati dai pescatori di professione - 1.300 imbarcazioni, quattromila buste paga e 130 milioni di fatturato - nella tre giorni della conferenza “Dal rosso al blu”, organizzata dall’assessorato all’agricoltura. Assessorato che non ha ancora una direzione generale autonoma per la pesca e questo vuol dire che per l’imprese c’è un altro mare in tempesta: la burocrazia. L’Europa è un incubo - è stato detto durante il forum - perché il rinnovo delle concessioni demaniali è proprio nelle mani di Bruxelles. C’è il rischio che i criteri imposti dalla Commissione europea di fatto taglino fuori dai contratti proprio le imprese locali, quelle che finora hanno retto comunque il comparto. Se prevalesse la bozza europea, il danno sarebbe enorme, per un settore già in difficoltà a causa delle ridotte misure delle aziende (sono quasi tutte micro-imprese), della concorrenza delle marinerie del Sud Italia e anche della difficoltà di avere un ruolo in un mercato dominato dalle importazioni. Alla Regione i pescatori hanno chiesto di «fare pressione sull’Europa per garantire agli imprenditori locali almeno una buona parte delle concessioni demaniali nell’isola e ed evitare così quello che sarebbe invece il sicuro sbarco di altre realtà imprenditoriali». C’è poi il problema delle servitù militari che insieme a quello delle oasi protette, da quattro diventeranno otto nei prossimi mesi, da sempre riduce di molto il campo d’azione delle marinerie. I pescatori hanno chiesto un calendario di rotazione che «eviti la chiusura completa di alcune aree per troppi mesi all’anno a causa delle esercitazioni» e per quanto riguarda le oasi «anche il ripopolamento deve tener conto delle esigenze delle imprese e non può essere un ostacolo». Con la Regione, i pescatori vogliono aprire un confronto continuo e l’assessore Cherchi si è detto disponibile. «La Sardegna - sono state le sue parole - ha tutte le potenzialità per avere un ruolo guida nel Mediterraneo anche nella pesca. Certo, le aziende sono piccole, ma hanno un’alta qualità nella tecnica che possiamo esportare e soprattutto migliorare col coinvolgimento delle università nella ricerca». Per realizzare il progetto, però servono più soldi di quelli oggi a disposizione: «Dobbiamo ripartire da una legislazione specifica per il settore, che adesso non c’è, e dobbiamo incrementare la dotazione finanziaria da 12 ad almeno 100 milioni». (ua)

padania. Sempre più stranieri, Verona prima provincia nel Veneto
 IMMIGRAZIONE. Nell'ultimo Rapporto Caritas Migrantes risulta che il nostro territorio è tra i più gettonati in Italia. Sono 106.167 gli immigrati censiti, ma solo il due per cento ha acquisito la cittadinanza I bambini sono il 23 per cento
28/10/2011
Verona e l'immigrazione: un rapporto in crescita. La nostra provincia, stando all'ultimo rapporto Caritas-Migrantes relativo al 2010, è vista dagli stranieri come un luogo favorevole per iniziare una nuova vita. Anche in tempo di crisi. Sono 106.167 gli immigrati a Verona, prima provincia in Veneto per residenti stranieri insieme a Treviso.
NUOVI FLUSSI. «Si è aggiunto il flusso provocato dalla guerra libica, che ha portato da noi 267 profughi accolti in 26 strutture», ha spiegato il viceprefetto vicario Igino Olita, durante la presentazione del dossier in Prefettura. La centralità di Verona nel fenomeno è rivelata pure dal fatto che qui ha sede la Commissione per i rifugiati, con competenze estese su Vicenza, Padova, Rovigo, Trento e Bolzano. «La realtà dell'immigrazione è in crescita, non si può ignorare oppure considerarne solo i lati negativi. Gli stranieri svecchiano l'Italia e fanno crescere il Pil», dice il direttore di Caritas, monsignor Giuliano Ceschi.
Aggiunge don Giuseppe Mirandola, direttore del Centro pastorale immigrati: «I figli degli immigrati devono attendere la maggiore età per diventare italiani. Occorre ripensare il metodo di acquisizione della cittadinanza». Carlo Melegari, direttore del Cestim, sottolinea che «l'ormai sostanziale parità tra uomini e donne stranieri svela la formazione di famiglie in loco».
VERONA IN TESTA. Il Veneto, con 504.677 stranieri nel 2010 su quasi 5 milioni di residenti, corrispondenti al 10,2 per cento della popolazione totale, è la terza regione per numero di immigrati, dopo Lombardia e Lazio. Nel 2005, gli stranieri erano quasi 321mila (6,8 per cento). Un trend in crescita ma con un aumento percentuale che perde terreno di anno in anno. La nostra regione registra la più bassa crescita della popolazione straniera: un 5 per cento in più nel 2010 rispetto al 2009, contro una media nazionale del 7,9 per cento.Però, in Veneto, Verona detiene il primato a pari merito con Treviso, e la settima posizione in Italia. In entrambe le province i cittadini di origine straniera rappresentano l'11,5 per cento della popolazione, contro l'11 per cento di Vicenza, il 9,8 di Padova, l'8,8 di Venezia, per chiudere con il 7,5 di Rovigo e il 6,4 di Belluno.
CITTADINANZA. Quanti, tra le persone d'origine straniera che abitano tra noi, sono divenute italiane a tutti gli effetti? Verona ne conta 2.123, pari al due per cento dei nostri immigrati, piazzandosi al secondo posto in Veneto.
BAMBINI. L'immigrazione ci svecchia, questo è un dato oggettivo. Verona, alla pari di Treviso, è al primo posto in Veneto per il numero di bambini nati su suolo italiano da genitori stranieri: da noi sono 2.147.
Sul totale dei neonati, i figli di immigrati sono oltre il 23 per cento. Gli alunni stranieri sono in aumento ovunque nelle scuole del Veneto, tranne a Belluno. Nelle classi veronesi, nell'ultimo anno scolastico, era figlio di immigrati il 12,5 per cento degli studenti, nati in Italia per più della metà dei casi. Una cifra che ci pone dietro a Treviso (quasi 14 per cento) e a Vicenza (13,2).
RUMENI. La principale comunità straniera a Verona è quella rumena, che rappresenta il 24 per cento dei residenti stranieri, con 26.165 esponenti. Al secondo posto viene il Marocco, con 15.593 rappresentanti, cioè il 14 per cento. Seguono lo Sri Lanka, 7.940 persone (7 per cento) e la Moldavia, 6.878 persone (6 per cento).
RELIGIONE. In Veneto, i musulmani rappresentano il 33 per cento degli stranieri, con 164.619 fedeli. Ma la religione più praticata dagli stessi immigrati rimane ancora il cristianesimo, con il 48-49 per cento dei credenti. Naturalmente non tutti cattolici, anzi. Tre volte più numerosi sono gli ortodossi, che contano 172mila persone contro 54mila cattolici.
 Lorenza Costantino

Quelle Camere ormai bloccate
Il Parlamento parla, come no. O meglio strepita, gesticola, s'azzuffa; ma decisioni nisba. Appena 42 leggi d'iniziativa parlamentare approvate in questa legislatura, però soltanto una negli ultimi 6 mesi. Se aggiungiamo quelle scritte sotto dettatura del governo (i tre quarti del totale), la cifra cresce un po', ma poi neppure tanto. È il capitolo - per esempio - dei decreti legge, sparati a raffica dal IV gabinetto Berlusconi con una media di 2 provvedimenti al mese; ma guardacaso adesso non ce n'è più nemmeno uno da convertire in legge.
Sarà che sono tutti stanchi, deboli, influenzati. O forse dipenderà dal fatto che il Parlamento, per questa maggioranza, è diventato un luogo di tortura. Troppo pericoloso mettergli carne sotto i denti, quando alla Camera ti capita d'andare sotto per 94 volte (l'ultimo episodio mercoledì). E meno male che t'aiuta l'opposizione, le cui assenze - come ha documentato Openpolis - sono risultate determinanti nel 35% delle votazioni. Sicché come ti salvi? Rinviando tutto alle calende greche. Anche i provvedimenti che stanno a cuore al premier, come la legge sulle intercettazioni: sparita dal calendario dei lavori. La Conferenza dei capigruppo ha avuto un soprassalto di prudenza, e ha deciso di non decidere.
Non che le Camere abbiano ormai chiuso i battenti. Nell'arco della XVI legislatura si contano 535 sedute per i deputati, mica poco. Ma a quale scopo? Per ascoltare annunci di riforme che non vedranno mai la luce, come l'obbligo costituzionale del pareggio di bilancio, cancellato anch'esso dal calendario di novembre. Per votare mozioni (539), risoluzioni (96), atti d'indirizzo: insomma, chiacchiere. O altrimenti per esprimere fiducia nei riguardi del governo, un tormentone che fin qui si è ripetuto in 51 casi. Trasformando l'esecutivo in un fidanzato trepidante: mi ami, ti fidi del mio amore? Dimmelo di nuovo, la volta scorsa non ho sentito bene.
È la parabola finale della legislatura: un governo commissariato dall'Europa, un Parlamento commissariato dal governo. D'altronde è proprio così che è cominciata. Negando alle assemblee legislative il loro mestiere principale, spostando l'officina delle leggi nei sottoscala del governo. Con i decreti legge, ma soprattutto con i decreti legislativi: 143, in media 4 al mese. Oppure sequestrando le due Camere con i maxiemendamenti, che oltretutto rendono le nostre leggi assolutamente incomprensibili. Ora siamo all'ultima stazione: siccome il governo non si fida più della propria maggioranza, ha deciso di mandare il Parlamento in quarantena.
Un bel guaio per la democrazia italiana, non foss'altro perché si spegne l'unica sede istituzionale in cui le opposizioni hanno spazio e voce. Perché inoltre l'eclissi delle Camere sbilancia il sistema dei poteri, togliendo un contrappeso al peso del governo. Perché infine la loro inerzia semina discredito sulla forma di governo, dunque sulla Costituzione che l'ha disegnata. Ma almeno in questo caso la responsabilità è tutta politica, non delle istituzioni. Non è vero che il Parlamento sia sempre un treno a vapore: nel luglio 2008 il lodo Alfano venne licenziato in 4 settimane. È vero tuttavia che questo Parlamento giace su un binario morto. E a questo punto non servono più cure, ci vuole un'autopsia.
Michele Ainis
28 ottobre 2011 07:41

Papandreou incoraggia i greci dopo l’accordo
28/10 02:04 CET
L’accordo raggiunto dai leader europei darà alla Grecia il tempo di fare le riforme necessarie. Il premier greco George Papandreou si rivolge alla nazione attraverso la televisione per dire che i sacrifici fatti stanno dando i loro risultati: “Dobbiamo continuare a lavorare intensamente, dobbiamo cambiare le cose che ci causano problemi nella vita quotidiana – ha detto Papandreou -. Le cose non cambiano in un giorno, ma non le critiche continue non hanno senso. Noi abbiamo il potere di cambiare tutto quello che è ingiusto e che ci arreca danno, e di investire per trasformare questo Paese”.
Ma nonostante le parole di incoraggiamento, molti greci – tra cui anche sostenitori del premier socialista – restano pessimisti verso un presente difficile e un fururo ancora imprevedibile. “Le misure sono insostenibili, tutti hanno problemi, moltissimi problemi – dice un residente di Atene -, e sono convinto che vedremo ancora di peggio, il peggio deve ancora venire”. Per calmare la rabbia dei greci nei confronti delle misure di austerità, il ministro delle Finanze ha promesso che non ci saranno ulteriori tagli ai salari e alle pensioni.

Svizzera. Politici e banchieri europei irresponsabili
di Sergio Rossi - 10/28/2011
Le lunghe e numerose riunioni che nei giorni appena trascorsi si sono susseguite in maniera concitata ai vertici dell’Unione europea (Ue) rappresentano l’apoteosi della crisi nella zona euro. Questa crisi non è soltanto di ordine finanziario, ma riguarda in realtà anche la società e le istituzioni politiche dei Paesi membri di Eurolandia. In effetti, il principio (etico, prima ancora che giuridico) della responsabilità individuale, come pure le conseguenze sociali che scaturiscono dalle scelte degli attori politici, economici o finanziari all’interno di un Paese, o di un insieme di Paesi riuniti nella zona euro, continuano a essere ignorati nelle decisioni prese ai massimi livelli istituzionali dell’Ue (in cui da sempre prevale un approccio reattivo e intergovernativo, allineato sull’intesa francotedesca incarnata ora da Merkel e Sarkozy, invece di una visione proattiva e comunitaria che dovrebbe essere proposta e messa in atto dalla Commissione europea).
Le decisioni comunicate ieri all’alba, dopo l’approvazione del Parlamento tedesco e nove ore di negoziati a Bruxelles, confermano l’irresponsabilità dei politici e dei banchieri che decidono le sorti (ormai sciagurate) dell’Ue e anzitutto delle nazioni dotate della moneta unica europea. È infatti irresponsabile decidere di aumentare al 9 per cento (con riferimento al totale degli attivi ponderati in base al rischio stimato) i fondi propri di cui dovrà disporre ciascuna banca nell’Ue, ignorando che questo livello sarà irrisorio di fronte alle necessità finanziarie del settore bancario europeo quando, dopo la Grecia, diversi altri Paesi in grave difficoltà nella zona euro soccomberanno di fronte alla tirannia dei mercati finanziari e sotto la minaccia del loro braccio armato (le famose agenzie di ‘rating’ anglosassoni). Questa negligenza avrà delle conseguenze negative anche nel caso più favorevole in cui l’insolvenza conclamata del governo di Atene non contagerà altri debitori ‘sovrani’ o una parte ‘sistemicamente’ rilevante dei loro creditori (che sono in prevalenza dei predatori di rendite finanziarie esorbitanti nei mercati ‘globalizzati’). Infatti, come appare verosimile anche in Svizzera a seguito della riforma della Legge federale sulle banche adottata nel settembre di quest’anno dal Parlamento nazionale per evitare il fallimento di una istituzione finanziaria di importanza ‘sistemica’ (cioè ‘troppo grande per poter essere lasciata fallire’), l’esigenza per le grandi banche di aumentare il capitale proprio indurrà queste istituzioni a operare delle scelte (per esempio dei tagli occupazionali e la riduzione dei dividendi versati ai loro azionisti, o l’aumento dei tassi di interesse sui crediti concessi ai clienti commerciali come le piccole o medie imprese) che influenzeranno negativamente sia la stabilità finanziaria (attraverso una maggiore assunzione di rischi da parte di queste banche al fine di ristabilire i rendimenti del capitale proprio) sia la stabilizzazione macroeconomica (in particolare la stabilità dell’occupazione e delle spese di consumo finanziate dai redditi guadagnati nelle attività produttive anziché dall’indebitamento e dalle bolle speculative che si formano e poi solitamente scoppiano con effetti sempre più devastanti sul piano mondiale).

Banche affamate di capitali
La ricapitalizzazione delle banche europee, con un centinaio di miliardi di euro, non basterà per riportare la fiducia nei mercati finanziari a breve-medio termine, dato che le istituzioni bancarie che influenzano le decisioni su questi mercati sono coinvolte, direttamente o indirettamente, nel processo di risanamento delle banche maggiormente esposte alla crisi nella zona euro. La raccolta di fondi con cui si aumenterà il capitale proprio delle banche europee potrebbe rendere (più) fragili gli istituti finanziari che finora hanno resistito meglio degli altri nelle forti turbolenze osservate nelle economie occidentali, dopo che la crisi dei mutui ‘subprime’ statunitensi ha generato una crisi bancaria e, più recentemente, una crisi del debito sovrano nel Vecchio continente.
Anziché aumentare la dote della Facilità per la stabilità finanziaria europea (Fsfe) – cioè il cosiddetto fondo ‘salva-Stati’ – allo scopo di garantire, con il denaro pubblico prelevato ai contribuenti al fisco dei Paesi nella zona euro, le perdite che i creditori obbligazionari del governo greco registreranno in definitiva a seguito della riduzione (o ‘haircut’) del 50 per cento del valore nominale dei loro titoli di credito (che dovrà essere volontaria per evitare il pagamento delle somme miliardarie assicurate mediante i cosiddetti ‘credit default swaps’), i capi di Stato o di governo nell’Ue avrebbero dovuto ormai capire che si deve compiere un ‘salto quantico’ risolutore nella governanza di Eurolandia, in assenza del quale i fattori della crisi attuale non potranno essere sradicati e continueranno a peggiorare la situazione socio-economica in Europa (Svizzera inclusa suo malgrado).

Il mancato coraggio della Bce
Per porre termine a questa crisi, come già abbiamo scritto su questo giornale (nell’edizione dell’8 agosto 2011), la Banca centrale europea (Bce) deve annunciare la propria disponibilità ad acquistare in quantità illimitata i titoli del debito pubblico dei Paesi membri della zona euro che non trovano collocazione al momento della loro emissione. Se credibile, l’annuncio del dispiegamento di questo ‘‘bazooka finanziario’’ da parte della Bce interromperà la spirale al rialzo sui rendimenti esatti dagli operatori finanziari per il loro acquisto dei titoli del debito pubblico dei suddetti Paesi, avviando un processo di riduzione dei differenziali (o ‘spread’) di rendimento rispetto alle obbligazioni del governo tedesco (che rappresentano il punto di riferimento nel mercato delle obbligazioni sovrane in Europa, dato il loro livello di rischio inferiore a quello dei titoli del debito pubblico degli altri Paesi membri dell’Ue).
La pietra angolare della costruzione europea è però posta dall’emissione di eurobbligazioni con le quali una istituzione sovranazionale europea (il cui precursore potrebbe essere una ‘società veicolo’ simile a quella prospettata dai capi di Stato o di governo nella zona euro a sostegno della Fsfe) raccoglierà una quota rilevante dei risparmi che nei Paesi emergenti in Asia o America latina sono alla ricerca di occasioni di investimento al riparo dagli esiti non prevedibili della ‘finanza casinò’. Se questi risparmi saranno ‘veicolati’ in Eurolandia per finanziare degli investimenti negli ambiti della socialità e dello sviluppo sostenibile nei suoi diversi Paesi membri (per la salute, l’istruzione, le energie rinnovabili e le infrastrutture per il trasporto collettivo di merci e persone), la crescita economica nelle nazioni europee beneficerà ai Paesi debitori come ai loro creditori sparsi nel mondo intero, con evidenti ripercussioni di carattere positivo anche per l’economia elvetica (a cominciare dal saggio di cambio tra l’euro e il franco, che tornerebbe gradualmente a dei livelli meno problematici per l’insieme del nostro Paese).

L’economista Carlo Pelanda: “San Marino vs Italia? La guerra è finita”       
 Venerdì 28 Ottobre 2011
SAN MARINO - Il fenomeno della selezione competitiva in campo economico non è nuovo nella storia: intere civiltà si sono affermate o sono sparite a dipendenza dei fattori di vantaggio o svantaggio affermatisi nei secoli. Gli anni Novanta hanno però impresso alla globalizzazione i contorni di una vera “rivoluzione competitiva” per dimensioni e velocità del processo. La globalizzazione si è sviluppata in tre ondate: 1) l’evoluzione delle capacità produttive dei Paesi emergenti, a basso costo del lavoro e a debole regolamentazione (ambientale, legale, di protezione del lavoro), che ha ridimensionato, nei Paesi avanzati, i settori produttivi ad alta intensità di manodopera (delocalizzazione della produzione); 2) lo sviluppo accelerato delle tecnologie per massimizzare l’efficienza aziendale nei Paesi avanzati, in tutti i settori e rami economici aperti alla concorrenza; 3) l’incremento della aleatorietà del mercato, vale a dire l’aumento della quantità di sorprese che possono capitare ad un operatore economico (nuovi prodotti e nuovi processi più concorrenziali, che possono far naufragare i piani di sviluppo di un’azienda).
Nel 1998 Carlo Pelanda, economista e docente della Georgia University, scrisse il libro bianco del Ticino, puntando a obiettivi concreti per il 2015. Ora che la data è vicini, molte strade sono state azzeccate. Il 28 ottobre Pelanda sarà tra i relatori del Forum “San Marino meeting point dello Sviluppo”. Intanto gli chiediamo di tentare per Fixing alcune previsioni sul futuro del Titano.
Da osservatore di cambiamenti macro economici, vede due punti deboli di San Marino e altrettanti (concreti o eventuali) punti di leva?
“San Marino è entrato in crisi per due motivi. I problemi con l’Italia fondamentalmente hanno comportato uno svuotamento del sistema finanziario e una caduta del marchio territoriale. Il secondo aspetto è globale e non aiuta certo la ripresa. C’è stato un deflusso dal sistema bancario e una probabile fuga di aziende un tempo attratte dal differenziale fiscale. Che però ora non bilancia la demonizzazione spinta dall’Italia”.

Può uscire da questa situazione?
“Sì assolutamente. Perché ha le capacità intrinseche per ripartire”.

Quindi è ottimista?
“Innanzitutto la guerra, di fatto, è finita. Il governo italiano si è accorto di aver esagerato. Un conto è ridurre l’inefficienza dei flussi finanziari e un’altra è innescare una guerra vera e propria. Non a caso nell’ultimo anno si sono alimentati accordi di settore importanti. Compreso quello sulla tecnologia”.

San Marino ora può pensare al proprio rilancio?
“Certo. Sono però emersi alcuni difetti di architettura. I trattati, soprattutto finanziari, tra Italia e San Marino, sono problematici e credo siano da rivedere. Le banche sammarinesi secondo le leggi locali sono sempre state in regola, non secondo quelle italiane. Bisogna per cui stabilire il concetto di piazza finanziaria sammarinese e quindi definire tutti i punti di accordo con l’Italia. Per esempio ora una banca sammarinese pur operando in euro non può accedere alla Bce e questo è uno svantaggio. Con chiara violazione del principio di concorrenza. Va fatta dunque un’importante operazione di semplificazione con una presa di coscienza tecnica. Questo porterà San Marino nella lista bianca anche per l’Italia”.

Finora San marino non ha mai messo in priorità questi aspetti…
“C’erano le vacche grasse. Dopo la crisi le cose sono cambiate. E adesso i Paesi europei hanno deciso di mantenere il segreto bancario. Se passano le stesse condizioni degli atri Paesi membri e della Svizzera, a quel punto in due anni la Rocca può diventare una piazza finanziaria concorrenziale rispetto alle altre”.
Un giorno si potrà accostare il nome di San Marino a quello dell’Italia come oggi si fa per Montecarlo e la Francia?
“Prima va risolta la questione della sovranità. E visto che l’Italia ha altro per la testa, invito la comunità sammarinese a studiare anche tecnicamente una serie di proposte e farsi avanti”.

La Russia non sente la crisi ma sogna l'euro
Stefano Grazioli
«La Russia nell’euro», ha detto  il miliardario (e politico) Mikhail Prokhorov e anche Putin ha accarezzato l'idea. Si avvicinano le elezioni presidenziali del 2012 e si affaccia quella che per ora è una frase da campagna elettorale. Ma la Russia è economicamente sempre più solida e al riparo dalla crisi del debito europeo, con prospettive di crescita sempre più forti. E ha voglia di integrare la propria economia, guardando alla vicina Europa.
22 agosto 2011 - 18:00
Mercati finanziari occidentali sotto pressione, l’Europa in difficoltà, la moneta unica potrebbe affondare, ma a Mosca c’è qualcuno che punta sul cavallo che zoppica. La Russia nell’euro, in una decina d’anni si potrebbe fare e il pil di Mosca crescerebbe ancor di più, sino al 12-15%. Parole di Mikhail Prokhorov, miliardario cooptato dal Cremlino alla vigilia delle elezioni parlamentari di dicembre, che con il suo partito Pravoe Delo (giocando sul doppio significato dell’aggettivo che accompagna il nome, dove la Causa è “Giusta”, ma anche di “Destra”) cerca di attirare l’elettorato della classe media in notevole espansione soprattutto nelle grandi città.
«Ne sono assolutamente convinto, lavoro nel business e capisco qualcosa di economia», ha detto Prokhorov, che dopo essere diventato famoso per essersi comprato i New Jersey Nets e aver rischiato di finir dietro le sbarre in Francia con l’accusa di favoreggiamento della prostituzione (per qualche bella ragazza di troppo trasportata via jet privato a Courchevel) si è messo a frequentare i corridoi buoni del Cremlino.
La Russia nell’Euro? Ma non l’aveva già detto Berlusconi? Naturalmente non bisogna prendere tutto troppo sul serio, soprattutto in campagna elettorale, però l’idea di una maggiore integrazione tra Mosca e l’Europa l’aveva già buttata là Vladimir Putin qualche tempo fa parlando di un «mercato unico da Lisbona a Vladivostok». Il palcoscenico era quello tedesco lo scorso novembre alla vigilia del suo ultimo incontro con Angela Merkel e il primo ministro russo non è uno che parla a casaccio.
L’idea di fondo è quella che Europa e Russia si possano sostenere a vicenda, dare una base più solida all’Euro, staccarsi dal dollaro. Pensieri a lunga gittata, s’intende. Da qualche parte bisogna però pur partire. E se l’uscita di Prokhorov ha il sapore di uno spot per i suoi elettori in vista della Duma, è vero che l’economia russa, come vuole Putin, ha bisogno del know how occidentale (cioè europeo, non dei “parassiti” americani, come Vladimir Vladimirovic ha definito un paio di settimane fa gli Usa, sempre con un occhio all’appuntamento di dicembre) per prendere il volo e staccarsi da un modello che si regge in larga parte sull’esportazione di materie prime.
La Russia, toccata dalla crisi del 2008-2009 e da quella di oggi in maniera più leggera rispetto allo tsunami che si è abbattuto tra Washington e Bruxelles, galleggia insomma con un occhio agli appigli del futuro. Il peggio a Mosca l’hanno visto già tredici anni fa proprio di questi tempi, quando nell’agosto del 1998 il default arrivò tra il capo e il collo di Eltsin e della banda di oligarchi alle sue spalle con il risultato che il Paese affondò del tutto. Poi la lenta ripresa, sull’onda dei prezzi del petrolio, ma non solo. Stabilità politica e inizio dell’avvicinamento commerciale con i partner europei, i tedeschi innanzitutto, il gas e tutto il resto. La crescita del pil tra il 5 e l’8% sino al 2008, poi il crollo del 2009 (-7,9%) e ora due anni di ripresa intorno al 4% (stessa previsione per il 2012) che riportano il livello a quello prima della crisi. La Russia ha imparato qualcosa dagli errori del passato.
Dal 2004 il fondo di stabilizzazione (dal 2008 diviso in fondo di riserva e di welfare) è servito a reggere l’urto degli shock esterni. La mini svalutazione controllata nel 2008 ha evitato cedimenti pericolosi nel corso del rublo, che però all’inizio di questo agosto ha subito un notevole deprezzamento. Putin ha detto che non c’è da preoccuparsi, le riserve della Banca centrale (corrispondenti a circa 350 miliardi di euro) sono sufficienti per affrontare ogni situazione di emergenza con immissioni di liquidità ad hoc.
Certo è che alla borsa di Mosca l’Rts cade e rimbalza seguendo gli altri indici mondiali, bruciando miliardi ogni giorno. E l’incertezza così aumenta, con l’abituale fuga di capitali come nei momenti più critici (125 miliardi di euro nel 2010), le trattative sull’entrata nel Wto ancora in corso (da oltre tre lustri, forse uno spiraglio per la fine dell’anno si vede) e gli esperti che se non hanno ricette salvifiche, almeno riescono a individuare i problemi. Una commissione governativa ha elencato le quattro sfide per l’economia russa sino al 2020: il problema demografico (meno gente che lavora, più anziani), la forbice della concorrenza (alti costi, imprese inefficienti), la discrepanza istituzionale (poca ricerca e formazione rispetto al capitale umano), lo spettro della malattia olandese con l’eccessiva dipendenza dall’export di gas e petrolio. A dicembre si elegge un nuovo parlamento, a marzo 2012 un nuovo presidente. Quattro sfide che il solito Putin dovrà non solo affrontare a parole, ma anche davvero di vincere.

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