venerdì 20 gennaio 2012

Federali_sera_20.1.12. Sono intimidazioni mafiose: forconi studenti cozze e reti a strascico son di competenza dell’antimafia. – Taranto, Fulvio Colucci: Il lavoro, una dannazione. In città vecchia una doppia maledizione. Perché rimane pena ingiusta quella del mare negato. Taranto lo ha negato a se stessa per propria colpa, senza rimpianti. E ora a difenderlo, a difenderne i frutti offesi dalla Storia e dallo Stato, si rischia l’accusa di brigantaggio. Morte e passione.---Palermo: I contadini del movimento dei Forconì e i pescatori in serata, alla fine di una concitata assemblea a Catania, hanno deciso di proseguire a oltranza con i blocchi nei porti, nelle strade statali e nelle raffinerie, anche se dovrebbero allentare un pò la pressione.

Palermo. Tir, anche gli studenti in piazza
Sciopero tir, contadini e pescatori vanno avanti
Mitilicoltori tarantini «Vogliamo salvare le cozze e il lavoro»
Sicilia bloccata dalle proteste. La rivolta dei forconi (e la legalità perduta)
Udine, oltrepadania. Sono 265 i friulani nel club dei Paperoni
Ungheria abbandonerà progetto fusione banca centrale
Ticino, Svizzera. Pelo e contropelo al Pil
Kosovo: Pristina, nessuni ci chiami 'Risoluzione 1244' come richiede Serbia per riunioni internazionali



Palermo. Tir, anche gli studenti in piazza
Oggi una manifestazione a Palermo. "Siamo al fianco di chi lotta nella nostra città ed in tutta la Sicilia contro la crisi. Concentramento davanti alla Cattedrale
PALERMO. "Noi studenti del coordinamento studenti medi Palermo organizzatori di tutte le manifestazioni di quest'autunno prima contro il governo Berlusconi e poi contro il governo Monti (targato Pd e Pdl) siamo al fianco di chi lotta nella nostra città ed in tutta la Sicilia contro la crisi per questo manifesteremo dalle 9 in corteo per raggiungere la manifestazione dei Forconi". Lo dice in una nota il coordinamento degli studenti medi. Il concentramento prima del corteo è previsto davanti la Cattedrale di Palermo.

Sciopero tir, contadini e pescatori vanno avanti
La Sicilia ancora paralizzata. Per gli autotrasportatori ultime ore di stop, ma non tutti i manifestanti abbandoneranno i presidi
PALERMO. È dramma in Sicilia per lo sciopero dei tir, mentre la Digos indaga sulla presenza di estremisti di destra e di sinistra tra i manifestanti e le procure sono in allarme dopo le denunce su presunte infiltrazioni mafiose. I blocchi hanno causato la chiusura delle pompe di benzina. A Palermo e ad Agrigento trovare carburante è impossibile, così come a Catania, Messina e nell'arcipelago delle Eolie. Gli scaffali dei supermercati sono semivuoti, l'acqua minerale scarseggia, le piccole botteghe hanno abbassato le saracinesche, fermi i mezzi per la raccolta dell'immondizia a Ragusa e a Gela, chiuso per il secondo giorno consecutivo il mercato ortofrutticolo a Vittoria, il più grande d'Italia. Intanto la merce sui camion fermi ai presidi sta deperendo.
Ci vorranno giorni perchè la situazione  torni alla normalità. I contadini del movimento dei 'Forconì e i pescatori in serata, alla fine di una concitata assemblea a Catania, hanno deciso di proseguire a oltranza con i blocchi nei porti, nelle strade statali e nelle raffinerie, anche se dovrebbero allentare un pò la pressione. I tir, invece, torneranno a muoversi dopo la mezzanotte di domani, alla scadenza del quinto giorno di protesta come comunicato dall'Aias alla commissione di garanzia all'inizio della mobilitazione.
Il vertice convocato dal presidente della Regione siciliana, Raffaele Lombardo, con i prefetti di Palermo e Catania e delegazioni di manifestanti si è chiuso in sostanza con un nulla di fatto. «Siamo affamati, la politica non lo capisce o non lo vuole capire», dice Giuseppe Richichi, leader dell'Aias. Lombardo, che condivide le ragioni della protesta ma non i metodi, ha chiesto aiuto al premier Monti. «La situazione siciliana desta molta preoccupazione - ha spiegato il sottosegretario ai Trasporti, Guido Improta, rispondendo alla Camera a un'interpellanza urgente sugli autotrasportatori - soprattutto in considerazione degli allarmi lanciati dal procuratore Francesco Messineo, dalla Confindustria e dalla Regione Sicilia».
I manifestanti chiedono il rimborso delle accise sul carburante, l'abbattimento dei pedaggi e dei costi di traghettamento, garanzie sulle produzioni locali il cui prezzo è aggredito dalla merce proveniente da Paesi extracomunitari.  Oggi l'isola ha vissuto la sua giornata più difficile
dall'inizio della protesta, scandita da blocchi e manifestazioni in ogni provincia. A Catania è stato bloccato l'ingresso nel porto ai mezzi pesanti, altri presidi nell'autostrada Catania-Messina e nella zona industriale. Blocchi anche lungo la statale 114, all'altezza di Acireale, nei pressi della frazione Trepunti di Giarre e nella Catania-Gela. Presidi anche a Paternò, dove alla protesta si è unito un migliaio di studenti.
A Enna un mezzo di una società pubblica che tentava di forzare il blocco dei camionisti è salito con la ruota sul piede di uno dei manifestanti che ha riportato una frattura. Nel Petrolchimico di Gela i cancelli sono stati di nuovo bloccati dai 'Forconì e dagli autotrasportatori che non hanno consentito il passaggio ai lavoratori. L'Eni ha comunicato il rischio di un blocco generale e improvviso dello stabilimento. La polizia da giorni sta tenendo sotto controllo alcuni gruppi di giovani, particolarmente attivi, sospettati di gravitare nell'orbita delle cosche mafiose gelesi; molti sarebbero stati fotografati e identificati.  Bloccata quasi completamente anche la rotonda Giunone, nella valle dei Templi di Agrigento. I tir sono stati parcheggiati sul ciglio della strada e il traffico, proveniente dalla statale 640 e dalla Panoramica dei Templi, viene deviato verso la statale 115 direzione Porto Empedocle. Il blocco è presidiato da polizia e carabinieri

Mitilicoltori tarantini «Vogliamo salvare le cozze e il lavoro»
FULVIO COLUCCI
TARANTO - Le cozze si aggrappano alle boe di mar piccolo con antica disperazione. Sono seme senza scampo. In loro si rimescola la tragica storia d’acqua salata scritta col sangue di questa città, il suo DNA: dal bisso ai fusti tossici. Seme a rischio di estinzione. «Non tutti i mitilicoltori potranno trasferire il prodotto appena nato in mar grande, nelle aree individuate dalla Marina militare. Cosa faremo? Lo distruggeremo? Non è inquinato». La domanda fila via tra i galleggianti che scorrono, colorati e allegri, al nostro fianco. Un corteo, una festa mobile, mentre raggiungiamo gli impianti del primo seno di mar piccolo.Al riparo dall'inquinamento del pcb, il policlorurobifenile, cresceranno solo le cozze di dieci operatori autorizzati. La Marina militare ha srotolato le mappe davanti agli occhi dell’Amministrazione comunale e degli altri enti che fanno parte del «tavolo tecnico sulla mitilicoltura».
«Trenta cooperative sono escluse perché prive della concessione» ricorda Egidio D’Ippolito, presidente della Pemios, mentre incrociamo barche nel loro lento rientrare,: a poppa la scia luminosa del giorno e a prua briciole di pensieri dorati e soffusi, a fendere il pelo dell’acqua. Manca il posto in quel fazzoletto di mare individuato tra l’hotel Delfino e la rotonda (480mila metri quadrati circa). Non c’è, non ci sarà. Eppure cresce, come un soffio inarrestabile, il seme esposto al rischio di una nuova “strage degli innocenti”, una mattanza simile a quella delle «pecore alla diossina», razza estinta. Nelle acque fredde di un gennaio da fine del mondo. «Sì, per me finisce un mondo se andiamo via da mar piccolo».
Giovanni ha 74 anni e tanto sole rappreso nel tempo fra i solchi dalle rughe. «Quando eravamo ragazzi preparavamo le esche insieme alle nasse: dal pesce di legno alla seppia femmina. Un gioco. E i pesci accorrevano a centinaia». Sono mille le increspature disegnate dall'acqua dentro una mattina di occhi gialli e vento ghiacciato nelle ossa. «Lavoro da quarant’anni. Dalle cinque del mattino alle sette di sera. Le cozze crescevano vicino agli scarichi e poi venivano stabulate. Parliamoci chiaro: l’inquinamento industriale ha danneggiato l’allevamento. E dobbiamo ringraziare Iddio se c’è mar piccolo. Solo qui può essere piantato il seme. In mar grande era possibile fino a quindici anni fa. La captazione è stata rovinata dalle industrie».
La voce di Giovanni s’abbassa e si blocca, imita un gabbiano sospeso a mezz’aria. Si ferma, sola con i suoi pensieri; le sue rughe ora disegnano una carta geografica del tempo, mentre le ali dell’uccello bianco abbracciano spazi indefiniti, librandosi in arabaeschi puri e ribelli. «Non basterebbero libri per scrivere la nostra storia».
Giuseppe, sulla barca piantata in mezzo a mar piccolo, guarda dritto il cronista con occhi duri, severi e insieme strazianti nella loro dolcezza. Ha cinquantasei anni e le speranze suonano per lui come un guscio vuoto, lo stesso in cui Pier Paolo Pasolini soffiava il suo disprezzo verso l’uso della parola speranza da parte della politica.Pesa le parole, Giuseppe, con la bilancia di un dialetto duro, chiuso nelle viscere del borgo di membra e parole antiche ormai scomparso. ormai dimenticato, fossile del dolore. «Sei mesi fa, per una notizia uscita sui giornali, siamo morti. Per la prima volta la politica è intervenuta nei problemi della mitilicoltura, cacciandoci da mar piccolo. È stato dichiarato l’inquinamento del primo seno. Noi non siamo stati regolarizzati, siamo abusivi. Però le cozze che produciamo le fatturiamo. Ma di chi è la colpa? Chi non ha risposto quando chiedevamo l’autorizzazione? quando dal 1983 la mitilicoltura è tornata a fiorire in mar piccolo e in tanti hanno smesso di rubare le autoradio, scippare, fare i delinquenti, cercando di mettere la testa a posto, di mantenere la famiglia con un lavoro onesto?».
Il lavoro, una dannazione. In città vecchia una doppia maledizione. Perché rimane pena ingiusta quella del mare negato. Taranto lo ha negato a se stessa per propria colpa, senza rimpianti. E ora a difenderlo, a difenderne i frutti offesi dalla Storia e dallo Stato, si rischia l’accusa di «brigantaggio ». Morte e passione. Giuseppe impugna ‘u fuerce quasi in un tentativo di estrema difesa dal «genocidio » di una Taranto ormai dissolta: «È un remo - spiega - serve per la navigazione, per avvicinare le barche tra loro». Ma nelle sue mani sembra, di colpo, un crocifisso bianco, l’osso di un animale estinto milioni di anni fa, il sigillo di una pena eterna da scontare. Il crocifisso nel pugno di un morto, non la stretta terra dei versi di Bukowski, ma il mare nella sua sconsolata declinazione di verso monco, sezionato, strappato come le reti che i cozzaruli si affannano a riciclare «perché non ci sono più soldi. Potremmo far crescere l’economia della città, dare posti di lavoro. E invece, invece...». Invece il cruccio delle regole sembra aver rovesciato il cielo. Così quel «brigantaggio» viene ripudiato da chi vuole onestamente continuare la propria esistenza dignitosa.
«Nostra e dei nostri figli. Noi le regole le vogliamo. Noi non facciamo i briganti. O ci vogliono trasformare in qualcos’altro? Cosa ne faranno del mar piccolo? rispondano...» dice un giovane pescatore dal corpo snello come i giunchi di scoglio, la barba ispida di pruno selvatico e lo sguardo di un Cristo appena sceso dal Calvario. Le case dell’Isola, accese da un effimero raggio di luce, sembrano fremere al vento. Il mare di gennaio fa il resto nel suo indicibile azzurro. «D’estate c’era l’inquinamento. Ora non ci sarebbe. Chiedo all’Asl - chiude Egidio D’Ippolito - un monitoraggio in continuo dell’inquinamento. Come si chiede all’Ilva». Lo si deve, se non altro, a quel seme che non potrà nascere. E che si porta dentro, come un figlio, la storia di Taranto. Quel canto, negato, di libertà.

Sicilia bloccata dalle proteste. La rivolta dei forconi (e la legalità perduta)
di Cazzullo Aldo
II commento. Sicilia bloccata dalle proteste La rivolta dei forconi (e la legalità perduta) Assistenzialismo Può diventare la scintilla di un incendio più vasto La vecchia domanda di assistenzialismo può diventate un grido disperato di ALDO CAZZULLO
 La rivolta dei forconi siciliani, al di là degli aspetti folkloristici, va presa molto sul serio. Sia perché uno Stato di diritto non può tollerare l'aperta sospensione della legalità, il blocco delle attività economiche, il disagio dei cittadini rimasti senza generi di prima necessità. Sia perché dietro la protesta c'è una sofferenza sociale crescente, cui occorre dare una risposta. Ancora una volta Ivan Lo Bello, il presidente degli imprenditori siciliani, ha dimostrato il suo coraggio, denunciando la presenza di mafiosi nei blocchi stradali. Una rivolta spontanea si presta a essere infiltrata, strumentalizzata, deviata. Il paradosso della Palermo di oggi è che pure la mafia è andata in crisi. Se da una parte lo Stato assistenziale ha finito i soldi, dall'altra anche il welfare mafioso si sta prosciugando. In difficoltà per i colpi inferti da magistratura e forze dell'ordine, Cosa Nostra non è certo morta, ma non è più in grado di finanziare come un tempo interi quartieri. I precari perdono i 50o euro dei loro magri contratti clientelari, e la manovalanza dei boss perde i 50o euro di elemosina in nero. Due forme — ovviamente non paragonabili — di dipendenza dall'esterno e di negazione della dignità e del futuro, che era giusto superare; ma con una seria politica di sviluppo, non con l'abbandono di intere aree del Paese all'arbitrio del più forte o di chi grida di più. La protesta dei forconi può essere contenuta e risolta. Ma può diventare la scintilla di un incendio più vasto. Perché la situazione sociale di Palermo è davvero esplosiva. La mediazione dei sindacati e dei partiti è saltata. Nessuno crede più nella politica, né —purtroppo — come macchina di cambiamento, né —per fortuna — come fonte di sostentamento. La vecchia domanda di assistenzialismo può mutarsi in una richiesta di lavoro, istruzione, sviluppo. Ma può diventare un grido disperato che accomuna tante e diverse situazioni di disagio: i tassisti spaventati dalle liberalizzazioni, i pescatori impoveriti dai controlli di Bruxelles, gli agricoltori mandati fuori mercato dai prodotti extraeuropei, i camionisti che pagano il gasolio il doppio di qualche anno fa, e la massa dei giovani senza lavoro e senza speranza. La prima cosa da fare è ripristinare la legalità, far riprendere la libera circolazione delle persone e delle merci. Ma è evidente che la risposta alla jacquerie dei forconi non può essere solo di ordine pubblico. La ripresa della Sicilia passa attraverso il recupero della responsabilità, la certezza del diritto, il rinnovamento della classe politica locale. E la presenza di uno Stato che sa imporre il risarcimento dei creditori e il rispetto dell'obbligo scolastico, che rende effettivo il diritto a un'abitazione dignitosa e a una formazione professionale. Palermo, come Napoli, sono piccole Italie elevate a potenza: le virtù e i vizi nazionali convivono, esaltate le une, esasperati gli altri. Per questo la partita che si gioca in Sicilia e nel Sud ci riguarda tutti.

Udine, oltrepadania. Sono 265 i friulani nel club dei Paperoni
Dichiarano più di 300 mila euro l’anno di reddito, ognuno sborserà in media 3.440 euro per il contributo di solidarietà
Maurizio Cescon
 UDINE. Professionisti di fama (notai, avvocati, commercialisti, magari qualche studio di ingegneri o architetti), calciatori, imprenditori, manager, funzionari pubblici di altissimo livello, forse qualche commerciante. Ecco l’identikit, più che verosimile, dei 265 “Paperoni” residenti in provincia di Udine. Sono i contribuenti che dichiarano al fisco un reddito imponibile lordo oltre i 300 mila euro. Vale a dire, per chi è dipendente, una busta paga mensile pari a 23 mila euro, compresa la tredicesima.
 In particolare tra i 265 ricchi noti all’erario, 73 di loro sono ancora più fortunati e fanno parte di un club ancora più esclusivo, perchè possono vantare una dichiarazione Irpef di oltre 500 mila euro. Che, tramutata in stipendio mensile, vale un appannaggio di 38 mila e rotti euro, sempre inclusa l’immancabile tredicesima. E’ la statistica che emerge dalla classifica delle province, legata a quanto denunciato dai contribuenti ed elaborata dal ministero delle Finanze. Serve per determinare le entrate nelle casse dello Stato derivanti dal contributo di solidarietà che i benestanti dovranno versare, secondo quanto stabilito dalla manovra Monti.
 In Friuli sono 63 i grandi contribuenti ogni 100 mila dichiarazioni, cioè 265 su 419.517 dichiarazioni registrate nell’ultimo anno. Gli iscritti al “circolo” dei ricchi pagheranno un’Irpef aggiuntiva pari al 3 per cento sull’imponibile che supera la soglia fatidica dei 300 mila euro. Il contributo medio in provincia di Udine è di 3.440 euro, il totale che lo Stato incasserà dai più benestanti è di 911.600 euro.
 Nella classifica nazionale Udine è al 32esimo posto, seconda in regione dopo Trieste (24esima a livello nazionale), dove i “Paperoni” sono 154 (meno in numero assoluto, ma di più in rapporto alla popolazione) e pagheranno in media un salasso di 4.020 euro, per un totale di 622.160 euro. Pordenone si piazza alle spalle di Udine (42esimo posto in Italia) con 132 ricchi e 2.800 euro di contributo medio pro capite e un totale di 369.600 euro. Infine Gorizia che conta appena 35 super contribuenti (70esimo posto in Italia) che garantiscono un contributo medio di 3.010 a testa e un gettito complessivo per le Finanze di 105.350 euro. In testa alla graduatoria c’è la provincia di Milano, un vero e proprio forziere, dove i “tesoretti” oltre i 300 mila euro guadagnati in un anno sono 6.799.
 Ciascuno di loro paga in media 6.080 euro e, tutti insieme, fanno affluire a Roma più di 41 milioni di euro. Piazza d’onore per Roma che vanta 4.546 contribuenti da 300 mila euro in sù, che verseranno in media 5.020 euro per un totale di quasi 23 milioni. Al terzo posto Monza-Brianza (la provincia in cui si trova l’arcinota villa di Arcore, ndr) dove la densità di nababbi (800 tondi tondi) è proporzionale ai capannoni industriali. E i meno abbienti tra gli abbienti? Li ritroviamo in due province del Sud Italia, Nuoro e Matera rispettivamente con 9 e 10 super dichiarazioni e pochi spiccioli (si fa per dire) che entrano nelle esangui casse dello Stato. Questa la fotografia, reale, del Friuli che paga le tasse.
 Poi naturalmente ci sono tutti gli altri ricchi che, da noi come altrove, vantano introiti da 300 mila euro in sù, ma si “limitano” a dichiarazioni da pensionati con la minima. E sicuramente sono più dei 265 noti e tartassati.

Ungheria abbandonerà progetto fusione banca centrale
Il Governo ungherese intende abbandonare il progetto di prevista fusione tra banca centrale e Pszaf, autorità di vigilanza dei mercati finanziari, duramente criticato dalla Commissione europea, che ha annunciatomartedì scorso un'azione legale contro Budapest. Lo dice il primo ministro Viktor Orban in un'intervista all'emittente radiofonica MR1-Kossuth, aggiungendo di prevedere di arrivare già la settimana prossima a un accordo con il presidente Ue, Jose Manuel Barroso, che spiani la strada a nuovi finanziamenti comunitari.

Ticino, Svizzera. Pelo e contropelo al Pil
 di Matteo Quadranti - 01/20/2012
“E a me mi girano / Possibile che tu stai sempre bene / Che c’è qualcosa che non va / Qualcosa ancora che non trovo / Se c’è qualcosa ci sarà / Il pelo d’oro dentro all’uovo”.
Sono alcune parole di una canzone di Zucchero. Di questi tempi si parla sempre di Pil (Prodotto interno lordo), ovvero del reddito di una nazione, per dire se l’economia di un Paese tira. Il Pil pro-capite è il reddito diviso per il numero di abitanti del Paese (reddito medio). Orbene, in un noto giornale economico italiano, ho recentemente letto che la Svizzera è al quarto posto al mondo per Pil pro-capite dopo Lussemburgo, Norvegia e Qatar. Quindi è possibile che tu, Svizzera, stai sempre bene.
Eppure a me mi girano perché, come canta Zucchero, c’è qualcosa che non va, qualcosa che non trovo.
Infatti, in un mondo in cui il divario tra ricchi e poveri diventa sempre più importante sia per numeri che per differenze di reddito, mi chiedo se usare ancora il Pil pro-capite come strumento statistico sia un dato utile o significativo dal momento che questo misura un reddito medio laddove la classe media è sempre più… sul filo del rasoio.
Inoltre il Pil ci indica lo stato di salute di una Economia nazionale in un contesto sempre più globalizzato, connesso e mutevole, ma non ci dice molto sullo stato di salute di quegli uomini e donne che abitano tali Paesi e fanno funzionare quell’economia reale.
Ma una prima sorpresa, cara Svizzera dalle uova d’oro, viene già quando si esamina il nostro Pil pro-capite con quelli di altri Paesi e si raffrontano gli stessi, ponendoli a parità di potere d’acquisto. Allora i dati statistici fanno scendere la Svizzera dal quarto all’ottavo posto nella classifica dei Paesi più ricchi. Un esimio collega, a questo punto, mi ricorderebbe un suo bell’aforisma e mi direbbe che “il pedante fa la ceretta al pelo dell’uovo”. In fondo siamo pur sempre tra i primi dieci Paesi più ricchi del mondo. Concordo!
Ma mi girano, pedantemente e ancora, se poi vado a vedere un’ulteriore classifica laddove la nostra amata Svizzera non la trovo più nei primi 10 Paesi più ricchi. È la classifica stilata sulla base dell’Indice di Sviluppo Umano (Isu), calcolato dall’Onu, unendo al Pil pro-capite, la salute (longevità) e l’istruzione (anni di studio).
E allora inizio a chiedermi: ma se la nostra economia tutto sommato sta ancora bene, come mai non così bene starebbe il potere d’acquisto e lo sviluppo umano di noi abitanti della Svizzera? La risposta la trovo nel fatto che si fanno strada (anche presso personaggi come Sarkozy, Cameron, e molto prima Robert Kennedy) statistiche alternative. È infatti nata l’esigenza di calcolare il “benessere” di uno Stato anche attraverso fattori non economici, ma forse più umani. Se il Pil descrive i “muscoli produttivi” di un Paese, la grandezza della sua Economia, non è detto che sia l’unica e la più valida misura del benessere di una nazione. Almeno se per benessere si pensa anche all’Essere oltre che all’Avere.
Il Pil misura tutto tranne quello che rende la vita degna di essere vissuta. Se c’è qualcosa ci sarà, canta Zucchero. Quindi se c’è quel qualcosa chiamato progresso, qualità della vita, da qualche parte dovremmo poterli accertare, misurare. Tradurre in una formula statistica quell’impalpabile sensazione di benessere non è semplice, ma coinvolgendo i cittadini in un’indagine, un sito (confronta ad esempio www.misuredelbenessere.it), un blog, forse si potrebbe disporre di qualche dato utilizzabile anche da noi.
E allora superiamo il Pil e affacciamoci anche sul Bes (indice del Benessere equo e solidale) che tiene conto di 12 dimensioni (ambiente, salute, benessere economico, istruzione e formazione, lavoro e tempi di vita, relazioni sociali, sicurezza, benessere soggettivo, paesaggio e cultura, ricerca e innovazione, qualità dei servizi, politica e istituzioni) oppure sull’Indice del benessere elaborato dal Canada (www.ciw.ca). Vi è poi chi, come il ministro dell’Interno del Buthan, ha introdotto la misurazione del Fil (indice di Felicità interna lorda). Se questo piccolo regno himalayano ha uno dei Pil più bassi al mondo, dall’altro lato ha visto ad esempio prolungare la vita media dei suoi abitanti di 19 anni in soli quattordici anni, dal 1984 al 1998.
Dove sta allora ciò che conta (l’oro) dentro di noi (ab ovo)? Qual è il benessere originario?

Kosovo: Pristina, nessuni ci chiami 'Risoluzione 1244' come richiede Serbia per riunioni internazionali
20 gennaio, 09:39
(ANSAmed) - PRISTINA, 20 GEN - Il Kosovo non accettera' di partecipare a forum e riunioni internazionali sotto la sigla 'Risoluzione 1244 dell'Onu', come esige la Serbia. Lo ha detto il capo negoziatore kosovaro ai colloqui con Belgrado, Edita Tahiri, che ha accusato la parte serba di ostacolare la trattativa insistendo su tale richiesta.
 In dichiarazioni al giornale di Pristina 'Epoka e re', Tahiri ha detto chiaramente che il Kosovo ''non accettera' mai di essere rappresentato sotto la Risoluzione 1244 dell'Onu'' o con la sigla Unmik (la missione Onu in Kosovo).
 L'insistenza serba non ha alcuna base politica ne' legale, ha ancora detto Tahiri, poiche' nella regione esiste una nuova realta'. Il Kosovo e' un paese indipendente, cosa questa confermata dalla Corte internazionale di giustizia, ha sottolineato, confermando al tempo stesso la volonta' di Pristina di continuare il dialogo con Belgrado alla fine di gennaio, come previsto.
 La Serbia non riconosce l'indipendenza del Kosovo, e boicotta tutte le riunioni internazionali e regionali alle quali partecipano esponenti del Kosovo in rappresentanza di uno stato sovrano e indipendente. La partecipazione del Kosovo a tali forum e' l'argomento principale del prossimo round di trattativa fra Pristina e Belgrado, dialogo che si tiene con la mediazione della Ue (ANSAmed)

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