sabato 4 febbraio 2012

Federali_sera_4.2.12. Signor colonnello, cosa ne dobbiamo fare di lui? - Totò: Per ora fucilatelo, poi ne parleremo. - Claudio Tucci: Poche certezze sul posto di lavoro. Ma la sicurezza, una volta che il lavoratore è uscito dal circuito produttivo, di ricevere un'adeguata formazione e sussidi fino alla riconquista di una nuova occupazione. È il segreto del sistema danese, richiamato ieri dal premier Mario Monti, come modello di riferimento a cui, mutatis mutandis, potrebbe guardare anche il nostro mercato del lavoro. Un sistema dove si tutela il singolo lavoratore (e non il posto). E dove il licenziamento, ha detto Monti, «non è visto come un buio senza spiraglio».---Daniel Gros: Sarebbe pericoloso per i Paesi della zona euro fortemente indebitati abbandonare ora l'austerità. Qualsiasi Paese entri in una fase di accresciuta avversione al rischio con un debito di dimensioni eccessive si trova di fronte solo a brutte scelte.

Tutelato il lavoratore, non il posto
L'austerità male necessario
Perché lo spread conta (ma da solo non basta)
Veneto, padania. Il governo impugna Statuto e legge elettorale



Tutelato il lavoratore, non il posto
Claudio Tucci
 ROMA
 Poche certezze sul posto di lavoro. Ma la sicurezza, una volta che il lavoratore è uscito dal circuito produttivo, di ricevere un'adeguata formazione e sussidi fino alla riconquista di una nuova occupazione.
 È il segreto del sistema danese, richiamato ieri dal premier Mario Monti, come modello di riferimento a cui, mutatis mutandis, potrebbe guardare anche il nostro mercato del lavoro. Un sistema dove si tutela il singolo lavoratore (e non il posto). E dove il licenziamento, ha detto Monti, «non è visto come un buio senza spiraglio».
 In Danimarca il lavoratore è tutelato solo contro il licenziamento discriminatorio (vale a dire quello per sesso, religione, motivi sindacali). Ma non c'è una legge sulla giusta causa. E nonostante questo circa un terzo dei danesi ogni anno cambia occupazione.
 Il basso grado di tutele sul luogo di lavoro è infatti compensato dalla sicurezza garantita dagli alti livelli dei sussidi. Un disoccupato riceve un assegno compreso tra il 70% e il 90% della retribuzione di riferimento (ovviamente se ha versato i contributi all'assicurazione), con un tetto di circa 2mila euro mensili. La prestazione copre i lavoratori tra i 18 e i 63 anni (praticamente è a copertura universale) e dura da uno a tre anni con impegni via via crescenti per il disoccupato. Il lavoratore cioè - oltre a ricevere il sussidio - deve cercare attivamente un'occupazione, essere iscritto all'ufficio di collocamento (il job center) ed essere disponibile ad accettare un nuovo lavoro. Su questo ultimo punto le regole sono chiare: dopo il rifiuto a un certo numero di offerte il sussidio viene azzerato.
 Il welfare danese si rivolge anche ai giovani: la laurea o l'accesso a titoli formativi professionali consente di beneficiare dell'assicurazione di disoccupazione. In realtà questo sistema è molto costoso. Non a caso (dati Ocse 2010) Danimarca e Svezia (altro Paese che adotta un modello di flexsecurity simile a quello danese) hanno fatto registrare una pressione fiscale oltre il 46% (in Danimarca si è arrivati addirittura al 48,2%), le più alte dell'area Ocse.
 Il modello danese, negli ultimi due/tre anni, ha dovuto affrontare anche la crisi. E secondo alcuni studiosi si è mostrato poco reattivo. Il tasso di disoccupazione (storicamente basso) è più che raddoppiato, passando dal 3,3% del 2008 all'attuale 7,5 per cento. Questo perché, è stato detto, in una fase di recessione, in un sistema di flexsecurity, la riduzione dei posti di lavoro si traduce tutta in maggior disoccupazione, seppur compensata da generosi sussidi.
MODELLO DANESE
Sussidi
 In Danimarca un disoccupato riceve un assegno compreso tra il 70% e il 90% della retribuzione di riferimento, con un tetto di circa 2mila euro mensili. La prestazione copre i lavoratori tra i 18 e i 63 anni e dura da uno a tre anni. Ma il lavoratore deve cercare attivamente lavoro
 Turn over
 Il sistema danese tutela il lavoratore solo contro i licenziamenti discriminatori. Non c'è una legge sulla giusta causa. Nonostante questo ogni anno un lavoratore su tre cambia occupazione

L'austerità male necessario
 Daniel Gros
 L'Europa sembra essere ossessionata dal l'austerità. Un Paese dopo l'altro è costretto, sia dai mercati finanziari sia dalla Ue, ad avviare la riduzione del disavanzo del proprio settore pubblico. E, se questo non fosse ancora abbastanza, 25 dei 27 Stati membri hanno sottoscritto lunedì scorso un nuovo accordo (il cosiddetto "fiscal compact") che li dovrebbe obbligare a non raggiungere mai un deficit di bilancio, corretto per il ciclo economico, superiore allo 0,5% del Pil (per fare solo un paragone, nel 2011 il deficit di bilancio degli Stati Uniti ha raggiunto l'8% del Pil).
 Ma, poiché l'economia europea rischia di cadere in depressione, numerosi osservatori si domandano se l'austerità possa essere controproducente. La riduzione della spesa pubblica (o un aumento delle tasse) potrebbe comportare un declino così pesante dell'attività economica da far crollare gli introiti e di fatto deteriorare ulteriormente la situazione dei conti pubblici?
Questo è altamente improbabile, dato il modo in cui funziona la nostra economia. Inoltre, se fosse vero, ne seguirebbe che i tagli all'imposizione fiscale comporterebbero la riduzione dei deficit di bilancio, poiché una crescita economica più rapida genererebbe maggiori entrate, anche ad aliquote fiscali più basse. Questa asserzione è stata messa alla prova svariate volte negli Usa, dove i tagli fiscali sono stati invariabilmente seguiti, invece, da deficit maggiori.
 In Europa, l'attenzione di oggi è focalizzata piuttosto sul rapporto debito/Pil. La preoccupazione è che il calo del Pil dovuto all'austerità possa essere così forte da incrementare il rapporto dell'indebitamento. Questo è importante, perché gli investitori usano spesso il valore del debito quale indicatore della sostenibilità finanziaria. Dunque, un deficit minore potrebbe di fatto far aumentare le tensioni sui mercati finanziari.
 Tuttavia, un disavanzo inferiore deve portare nel tempo ad un debito più basso, sebbene questo peggiori nel breve periodo. Dopotutto, la maggior parte dei modelli utilizzati per analizzare l'impatto economico delle politiche fiscali lasciano intendere che la riduzione della spesa, per esempio, fa diminuire la domanda nel breve periodo, ma che dopo poco l'economia ritorna al livello precedente. Dunque, nel lungo periodo, la politica fiscale non ha un impatto duraturo sul prodotto (o soltanto molto piccolo). Questo vuol dire che qualsiasi impatto negativo una domanda più bassa possa avere sul debito nel breve periodo, il rapporto verrebbe compensato in seguito (nel medio o nel lungo periodo) da un rialzo della domanda che riporta l'economia al suo livello precedente.
 Inoltre, pur supponendo che anche gli effetti di una decurtazione definitiva della spesa pubblica sulla domanda e la produzione siano stabili, la riduzione del Pil rimarrebbe un episodio isolato, mentre la diminuzione del disavanzo continuerebbe ad avere un impatto positivo sul livello di indebitamento anno dopo anno.
 È da notare che si è giunti a questa conclusione senza ricorrere a ciò che Paul Krugman ed altri hanno beffardamente definito "Fata fiducia". Negli Usa, non sarebbe effettivamente sensato aspettarsi che un disavanzo inferiore si traduca in un premio di rischio più basso - per la semplice ragione che il Governo americano paga già tassi di interesse estremamente bassi.
 Ma, anche senza l'effetto fiducia, il bipartisan Ufficio bilancio del Congresso è arrivato alla conclusione che, seppure la decurtazione del deficit statunitense abbassi la domanda, ciò comporta anche la riduzione dell'indebitamento in modo stabile. Tutto questo dovrebbe essere tanto più vero per i Paesi della zona euro, come l'Italia e la Spagna, che al momento pagano un premio di rischio superiore al 3-4%. Per questi Paesi la Fata fiducia si è trasformata in un mostro.
 La domanda cruciale allora diviene: conta di più l'effetto della riduzione del disavanzo nel rapporto debito/Pil nel breve periodo o a lungo termine?
 I potenziali acquirenti di titoli italiani a dieci anni dovrebbero tener conto dell'impatto a lungo termine della riduzione del deficit sul livello del debito, che quasi certamente è positivo. Naturalmente, alcuni partecipanti al mercato potrebbero non essere razionali, e richiedere un premio di rischio più elevato in seguito al peggioramento dell'indebitamento nel breve periodo. Ma quanti concentrano la loro attenzione sul breve termine rischiano di perdere il loro denaro, perché il premio di rischio alla fine è destinato a diminuire nel momento in cui cambierà il rapporto del debito.
 Abbandonare le politiche di austerità per paura che i mercati agiscano in modo miope vorrebbe dire solo rimandare il giorno della resa dei conti, in quanto nel lungo periodo il debito è destinato ad aumentare. Inoltre, è altamente improbabile che un Paese come l'Italia, per esempio, possa pagare un premio di rischio più basso se continua ad ampliare il proprio disavanzo. Sarebbe pericoloso per i Paesi della zona euro fortemente indebitati abbandonare ora l'austerità. Qualsiasi Paese entri in una fase di accresciuta avversione al rischio con un debito di dimensioni eccessive si trova di fronte solo a brutte scelte. La messa in atto di programmi di austerità credibili rappresenta il male minore, anche se ciò può aggravare la recessione ciclica a breve termine.
 Daniel Gros
 (Traduzione di Roberta Ziparo)

Perché lo spread conta (ma da solo non basta)
di Donato Masciandaro
In questi giorni si osserva con generale grande soddisfazione la riduzione dello spread dell'Italia, arrivato a quota 375, duecento punti sotto il picco del novembre scorso. Ma che cosa è oggi lo spread?
Quando un termometro nato per indicare un rischio economico futuro diventa invece un segnale di crisi politica imminente, dobbiamo continuare a utilizzarlo come se niente fosse accaduto, ovvero interrogarci su come migliorarlo?
Un effetto generale e pervasivo della crisi dei debiti sovrani europei avviatasi dal 2010 è il tracimare – anche nel linguaggio comune – del termine spread.
I l significato del sostantivo spread ha subito una rapida evoluzione proprio a partire da quel momento. Lo spread BB10 di cui parliamo è la differenza tra il rendimento di un titolo italiano (BTp) e quello di un titolo tedesco (Bund) su uno stesso orizzonte temporale: dieci anni. Ma lo spread si può calcolare anche per Paesi diversi dall'Italia. In generale perciò la differenza tra i due rendimenti ci dà la misura di un rischio futuro: se lo spread è nullo, vuol dire che la probabilità che tra dieci anni uno stato - per esempio quello italiano - onori il suo debito è identica a quella dello stato tedesco.
Al crescere dello spread attribuiamo allora il significato di una maggiore probabilità futura di fallimento dello stato in questione.
Ma da che cosa dipende lo spread? In situazioni normali, lo spread dipende di solito da quanto un Paese è indebitato, rispetto alle sue capacità di generare reddito; quindi si guarda il rapporto tra il totale del debito di quel Paese ed il suo prodotto interno; chiamiamolo debito ponderato. Ma qui nasce il primo problema: il termometro dello spread nell'Unione Europea non ha funzionato.
Se infatti si guardano gli anni che vanno dal 2000 al 2008 si scopre che gli spread dei vari Paesi appartenenti alla zona Euro non hanno affatto seguito il profilo dei rispettivi debiti ponderati. Gli spread erano molto simili tra di loro - tendenzialmente nulli - nonostante i debiti ponderati fossero molto diversi, passando da livelli del 20% ad oltre i 110% (pensiamo all'Italia e alla Germania, ma non solo). Dunque per i Paesi ad alto debito ponderato lo spread sottostimava il rischio fallimento.
Ad uno stesso debito ponderato corrispondeva un valore più alto o più basso dello spread, a seconda che il Paese fosse fuori o dentro l'area Euro. Conosciamo la ragione: i mercati ritenevano credibile il principio di solidarietà europea, per cui difficoltà di un Paese ad alto debito relativo sarebbero state affrontate anche dagli altri Paesi. Ma rimane il fatto che il termometro ha funzionato in modo anomalo, visto che l'ammontare del debito veniva completamente trascurato per i paesi Euro, mentre qualcosa contava per i Paesi non Euro.
Il termometro spread ha funzionato però anche peggio a partire dal 2010, quando sono iniziati e poi diffusi - vertice dopo vertice - gli scricchiolii del principio di solidarietà europea, poi definitivamente infranto con la dichiarazione di Dauville di ottobre, che ha aperto l'inedita possibilità che i privati detentori dei titoli greci subissero ingenti perdite.
Da quel momento il termometro per l'area Euro è impazzito: l'ammontare del debito è improvvisamente diventato molto rilevante, forse troppo. I rendimenti a dieci anni dei paesi ad alto debito ponderato sono schizzati a livelli non giustificabili, se non dal fatto che tali paesi fossero membri dell'area euro. Nulla di tutto questo è accaduto per i paesi ad alto indebitamento fuori dall'area euro.
Nei casi più eclatanti - Grecia, Portogallo e Irlanda - le salite dei rendimenti si sono rinforzate in sequenza temporale, rinforzando il loro sganciamento dai valori "normali". Allo stesso modo, sono divenuti ingiustificabilmente bassi i rendimenti a dieci anni dei paesi a basso debito ponderato, sempre dell'area Euro. È stato calcolato che in generale l'aumento degli spread è stato sei volte maggiore di quello spiegabile guardando al debito ponderato. Insomma: il termometro non è più affidabile.
Ma c'è di più: lo spread è diventato nel linguaggio comune sinonimo di indicatore di costo di indebitamento tout court. Per cui ogni aumento dello spread viene interpretato come un aumento dei costi del debito, che per un Paese ad alto debito significa che il momento del default è più vicino. Più lo spread si allarga più il rischio default si avvicina. Quindi il problema non riguarda più un lontano governo, ma l'Esecutivo che è in carica in quel Paese. Lo spread si è trasformato da indicatore di rischio economico futuro a quello di rischio politico presente. Ne sanno qualcosa i governi di Grecia, Spagna ed Italia. Il termometro ha cambiato natura.
Il punto è questo: un termometro mal tarato e dal significato ambiguo può essere molto dannoso. Anche a voler accettare l'idea che spread sia divenuto un termometro del rischio politico, quindi del costo dell'indebitamento allora modifichiamolo da almeno due punti di vista. In primo luogo, se siamo interessati al costo di indebitamento in termini assoluti, smettiamola di guardare solo ai titoli a dieci anni, e consideriamo tutte le scadenze.
A titolo di esempio, ieri i rendimenti a 10 anni sono scesi al 5,63%, ma in realtà è tutta la curva che ha beneficiato della cura Monti: a 5 anni i rendimenti sono al 4,25%, a 2 anni al 3,01%. Il termometro, con più informazioni, è più veritiero. In secondo luogo, se ci interessano anche il costo relativo, perché continuare ad utilizzare come parametro i titoli tedeschi, che hanno destini intrecciati - ancorchè speculari - con gli altri? Prendiamo un Paese ad alta credibilità esterno all'area euro (può essere la Svizzera, o la Svezia, o altri ancora). Si noti che questo non significa scegliersi il parametro più comodo: ieri lo spread rispetto alla Svizzera era 490, rispetto alla Svezia 380. Dunque, perché rassegnarsi ad usare un termometro ambiguo?
 4 febbraio 2012

Veneto, padania. Il governo impugna Statuto e legge elettorale
Bocciati l’autonomia finanziaria e il numero dei consiglieri. Si andrà alla Corte costituzionale. Reazione furiosa di Lega e Pdl, che minacciano una «marcia su Roma»
VENEZIA — Per il senatore leghista Paolo Franco siamo di fronte ad «un govero fascista». Il capogruppo del Pdl Dario Bond ed il suo vice Piergiorgio Cortelazzo si dicono pronti a «marciare su Roma». Il vice governatore Marino Zorzato parla di «un intollerabile passo indietro nel rapporto tra la Regione e lo Stato», il presidente della commissione Statuto Alberto Tesserin di «una decisione scandalosa e vergognosa», quello del consiglio Valdo Ruffato sospetta «un dispetto ad una terra governata da un partito che è all’opposizione nella capitale». E i venetisti si preparano a scendere in piazza. Nessuno se l’aspettava. E invece è successo. Al termine del consiglio dei ministri di venerdì il governo Monti ha deciso di impugnare di fronte alla Corte costituzionale il nuovo Statuto del Veneto e la legge elettorale che ne è seguita. Rimettendo così in discussione il lavoro, durato oltre un anno e mezzo, di una commissione chiamata a rinnovare l’architettura istituzionale della Regione, ormai datata 22 maggio 1971, culminato all’inizio di quest’anno in una Carta approvata all’unanimità. Una decisione che apre una nuova, profonda crepa tra il Veneto e Roma. Ormai sempre più lontana.
L’autonomia finanziaria
Non il «Prima i veneti» che tanto ha agitato i sonni della politica di qui, non l’autonomia di Belluno, che pure qualche perplessità aveva sollevato nei giorni scorsi. A spingere il governo al ricorso alla Consulta sono tre righe tre al comma 4 dell’articolo 30, intitolato «Autonomia finanziaria»: «La Regione, d’intesa con il Consiglio delle autonomie locali, adatta i vincoli posti dalla legislazione statale in materia di coordinamento della finanza pubblica alle specifiche esigenze del Veneto». Un passaggio anonimo, che mai prima d’ora aveva destato attenzione, e che però il governo ritiene lesivo dell’articolo 119 comma 2 della Costituzione. In sintesi, il governo teme che la Regione, modulando l’applicazione delle tasse in base alle sue specificità territoriali, possa finire con l’aprire pericolosi spiragli all’evasione ed all’elusione fiscale. La norma statutaria, però, appare perfettamente in linea con la legge delega sul federalismo fiscale del 2009 ed i successivi decreti attuativi.
Il numero dei consiglieri
Il secondo punto contestato riguarda invece la legge elettorale, impugnata in quanto provvedimento che dà efficacia all’articolo 34 comma 2 dello Statuto, quello per cui d’ora in avanti verranno eletti un consigliere ogni centomila abitanti, fino ad un massimo di 60 consiglieri, oltre al presidente ed il più votato dei suoi sfidanti. Al momento, posto che in Veneto si contano 4 milioni 948 mila abitanti, i consiglieri sarebbero in tutto 51. In futuro, però, potrebbero aumentare al crescere della popolazione, finendo così per violare il limite imposto da un decreto del governo Berlusconi, che fissa un tetto invalicabile, per le Regioni fino a 6 milioni di abitanti, proprio in 51 consiglieri.
Il retroscena
Lo stupore con cui la decisione del governo è stata accolta in Veneto si spiega anche con la trattativa riservata condotta in queste settimane sull’asse Venezia- Roma. Alla fine, rivelano fonti in laguna, si era arrivati ad una sorta di gentlemen’s agreement per cui il governo avrebbe dato via libera allo Statuto, impugnando però la legge elettorale, che in effetti era già stata contestata in sede di dibattito a Palazzo Ferro Fini. In quel caso la Regione avrebbe accettato la reprimenda di buon grado, procedendo alla correzione. E invece, nonostante i dubbi sugli articoli più delicati fossero stati superati, il consiglio dei ministri ha deciso di trascinare comunque davanti alla Consulta anche la Carta, puntando sull’articolo 30. Sorpresa dell’ultimo minuto.
Gli scenari
Il governatore Zaia ha già fatto sapere di voler lottare in sede giudiziale, mettendo tutto nelle mani degli avvocati. L’alternativa, al momento non contemplata, prevede il ritorno dello Statuto e della legge elettorale in consiglio, per apportare le modifiche chieste dal governo. A Venezia, però, si fa strada anche una terza opzione, clamorosa: lasciare tutto così com’è. Lo Statuto resterebbe quello del 1971 e si continuerebbe a votare con l’attuale legge elettorale, che com’è noto prevede la bellezza di 60 consiglieri. In questo caso, è vero, si violerebbe il decreto Berlusconi. Ma le sanzioni previste all’epoca da Tremonti per chi non si fosse adeguato al taglio sono state nel frattempo eliminate dal governo Monti. E senza sanzioni, campa cavallo.
Le reazioni
Dalla Lega al Pdl, le forze di maggioranza sono in fibrillazione e pronte ad azioni «anche clamorose ». Si segnala però il commento del presidente del consiglio Valdo Ruffato (Pdl) che prima dice di temere un dispetto di Monti ad un partito, la Lega, «che non solo non appoggia il Governo, ma lo osteggia in modo talora persino plateale» e quindi avverte: «Attenzione a non prestare il fianco, con dichiarazioni e comportamenti che rischiano di apparire talora più provocatori che di sostanza, ad un rapporto conflittuale con lo Stato». Anche la capogruppo del Pd Laura Puppato va controcorrente e nonostante il suo partito abbia contribuito ad approvare lo Statuto, stiletta: «Il Veneto sta impugnando tutto quello che sta facendo il governo, quindi dovevamo aspettarci una particolare attenzione verso chi si considera all’opposizione. Insomma, chi la fa l’aspetti».
Ma.Bo.

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