lunedì 13 febbraio 2012

News.pm_13.2.12. Grecia=Italia: i deputati non hanno votato no per non perdere il seggio. - Patrizio Nissirio: Il drammatico voto (199 Sì, 74 No, con 278 deputati presenti) al termine di ore di dibattito, è avvenuto in un edificio assediato da migliaia di manifestanti e da violentissimi scontri tra polizia e gruppi di Black Bloc, che nel corso della protesta hanno dato alle fiamme palazzi, cinema, bar e banche. Mai ad Atene, una città che ha conosciuto molte dimostrazioni violente, una protesta aveva avuto conseguenze così devastanti. I palazzi ardevano ancora, a notte tarda.---Il ministro dell'Economia tedesco, il liberale, Philipp Roesler sostiene che il voto di ieri del Parlamento greco e' "solo un passo avanti nella giusta direzione". Insomma, l'approvazione dei nuovi tagli va bene, ma non basta per ottenere i 130 miliardi di euro di aiuti internazionali.---Marco Di Blas: Anche l’Austria tira la cinghia. In questo fine settimana il governo Spö-Övp ha varato una manovra finanziaria di 26,5 miliardi, spalmata fino al 2016. Anche se diluita in 5 anni (ma il 2012 non si conta ormai) comporta un impegno notevole per un Paese il cui bilancio si aggira sui 140 miliardi all’anno.

LA NUOVA SARDEGNA - Economia: Le imprese: «Investitori sempre lontani dall’isola ma non per l’articolo 18»
LA NUOVA SARDEGNA - Economia: C’è la super tassa, gli yacht fuggono
Foggia sommersa dai rifiuti al quartiere «Martucci» situazione insostenibile
Maltempo, Confagricoltura: “al mercato volano i prezzi, nei campi scendono addirittura”
La lezione del «Made nel mondo»
Grecia: Parlamento vota austerita', guerriglia ad Atene
Grecia: Roesler, voto parlamento solo un passo avanti
Crisi: Grecia, Gravi danni ad Atene
In Austria via alla manovra da 26,5 miliardi
Bce:depositi banche risalgono a 500 mld
Svizzera. Bce e interessi particolari



LA NUOVA SARDEGNA - Economia: Le imprese: «Investitori sempre lontani dall’isola ma non per l’articolo 18»
13.02.2012
CAGLIARI. Un tunnel lungo dieci anni. È il periodo buio della Sardegna che nell’ultimo decennio non solo non è cresciuta ma ha perso ricchezza. «Con l’articolo 18 non si attirano investimenti», ha detto Monti, ma nell’isola la convinzione è un’altra: gli investitori non ci sono perché mancano infrastrutture e c’è una burocrazia che ostacola le imprese. I dati diffusi all’inizio dell’anno dagli organismi più diversi, (Ocse, Svimez, Banca d’Italia), testimoniano che si è allargata la forbice tra ricchi e poveri: i redditi dei lavoratori dipendenti sono fermi mentre crescono quelli dei lavoratori autonomi. Complessivamente, però, le cose vanno male per tutti i sardi: il reddito è sceso, nel periodo 1991-2011, così tanto che la Sardegna si trova oggi al posto numero 197 nella classifica delle 271 regioni europee. Non va meglio al sistema produttivo: 234º posto sempre su 271 regioni. Non è un caso che in un decennio l’isola abbia perso tante posizioni: il lavoro col settore pubblico rappresenta il settanta per cento del Pil e su cento buste paghe la predominanza è sempre del pubblico. «Ci sono troppe lacune nel sistema e i casi della grande industria (che fugge dall’isola) non devono far credere che ci possa essere un futuro senza industria», afferma Massimo Putzu, presidente della Confindustria regionale, «da questo punto di vista è chiaro che la flessibilità del lavoro è importante ma ci devono essere a monte delle precondizioni: avere delle infrastrutture che ci consentano di competere». E di ridurre i ritardi che l’isola ha accumulato: per molti indici infrastrutturali è all’ultimo posto in Italia. «Quello che serve alla Sardegna è sotto gli occhi di tutti», afferma Francesco Lippi, presidente della Confapi, (l’associazione delle piccole e medie imprese), «dobbiamo realizzare una serie di infrastrutture a supporto di tutto il sistema economico. È l’unico modo per poter garantire gli investimenti. Assieme a questo, occorre ridurre i tempi della burocrazia. Si deve arrivare a poter attirare gli investitori dicendo loro: venite in Sardegna e avrete tutte le autorizzazioni nel giro di trenta giorni». Sarebbe un gran risultato giacché ancora oggi ci sono imprese che faticano ad avere persino la corrente in tempi accettabili. E si continua a discutere di industrie energivore mentre il metanodotto Galsi che potrebbe dare un impulso all’economia sarda, va a rilento. «Altro che articolo 18! Gli investitori non vengono da noi perché ci sono situazioni da terzo mondo», spiega Enzo Costa, segretario generale della Cgil; «prendiamo la zona industriale di Bolotana, ci sono imprenditori che non hanno nemmeno l’Adsl». Per capire quanto influisca poco la questione dell’articolo 18 basta prendere la dichiarazione con cui Alcoa ha aperto la procedura di mobilità e ha salutato la Sardegna. «Alcoa in quella lettera», afferma Enzo Costa, «attesta che non ci sono in Sardegna le condizioni per produrre alluminio e tra le negatività cita il costo dell’energia, più alto rispetto alle altre regioni, e aggiunge che, dovendo importare ossido d’alluminio, aumentano i costi perché la banchina d’attracco non è adatta, possono arrivarci solo le navi più piccole, con costi superiori». L’articolo 18? «È una provocazione, i nodi strutturali sono altri e sarebbe importante finalizzare ogni euro pubblico investito alla creazione di posti di lavoro». La Giunta Cappellacci - conclude Costa - si appresta a finanziare i Consorzi fidi come previsto dall’accordo raggiunto nel convento di Vallermosa, «ma anche in quel caso di occupazione non se n’è parlato. Diverso il punto di vista degli artigiani ma c’è sempre un filo rosso che lega la crescita alle infrastrutture e alla burocrazia: «Ci sono imprese che non lavorano per le difficoltà a effettuare gli investimenti di base e poi c’è un’enorme difficoltà a trovare la manodopera adeguata anche a fronte di una domanda mirata», afferma Filippo Spanu della Confartigianato. «Su questo è evidente che bisogna rivedere il percorso della formazione professionale legata all’istruzione tecnica». Per gli artigiani, forse anche più degli altri, sono fondamentali i tempi dei pagamenti: «Le piccole imprese che lavorano col pubblico hanno bisogno di certezze». Questi sono i veri problemi, non l’articolo 18, mentre tutti sono d’accordo sulla necessità di mettere ordine al mercato del lavoro. Con esigenze diverse: oggi più di prima ogni categoria pretende equità. I giovani chiedono di combattere il precariato, le imprese esigono flessibilità. Filippo Spanu immagina una riforma che cammini su tre gambe per limitare la babele dei contratti: «Puntiamo sull’apprendistato e poi sarebbe utile un contratto a garanzie crescenti». La terza gamba è quella della flessibilità, (più costosa per le aziende), da applicarsi magari alle imprese che hanno esigenze stagionali.

LA NUOVA SARDEGNA - Economia: C’è la super tassa, gli yacht fuggono
13.02.2012
CAGLIARI. Stazionamento qui sta per tempesta, come il vento che soffia dopo l’imposizione di qualunque tassa. Questa volta l’Eolo-statale ha scelto le barche, quelle oltre i dieci metri, a vela e a motore, indigene e straniere, private e charter. Tutte. Così ha voluto il Governo «Salva-Italia», per stanare gli evasori fiscali e far cassa. Ma chi da maggio dovrà pagare la tassa di stazionamento è insorto: «È una follia. Spazzerà via cantieri, porti, turisti e lavoro». La nuova tassa a pelo d’acqua non fa differenze. Non guarda il censo e neanche la nazionalità dello skipper, farà testo solo lo «spazio» occupato dalle barche all’ormeggio e in navigazione. Si salveranno solo se saranno puntellate sul piazzale o parcheggiate in qualche cantiere, ma è una scorciatoia che fa inorridire il mondo della nautica. Che invece si sente aggredito, con quel tanto da pagare a metro e al giorno, o in un’unica soluzione annuale. È questo il sacrificio chiesto da Monti a chi ha la fortuna di avere un cabinato. Chiaramente se finora è stato onesto e dichiarato quanto doveva al Fisco, ha diritto di protestare. Ma s’è stato disonesto, adesso non avrà più scampo: sarà costretto a gettare la maschera, almeno questo dice l’Erario. Il fatto è che la guerra, giusta e santa, contro gli evasori ha finito per far di tutta la nautica - dai dieci metri in su - una presunta flotta malandrina ed è stata proprio la generalizzazione ad aver provocato l’immediata levata di scudi. Il velista dell’anno, Andrea Mura, è stato uno dei primi. Premiato per la vittoria con «Vento di Sardegna» nella transoceanica «Route du Rhum» 2010, ha scritto di recente sulla Rete: «È una tassa iniqua e sproporzionata. Noi sul mare fondiamo la nostra ricchezza e ora a tutti noi arriva sulla schiena questo colpo folle e durissimo». Un altro veterano delle «solitarie», Giovanni Soldini, gli è andato dietro e scrutato l’orizzonte, ha detto: «L’aria è brutta. Chi potrà, scapperà all’estero». Nell’Adriatico l’esodo verso la Croazia è già cominciato, nell’alto Tirreno da settimane sono in contatto con gli amici francesi, cercano rifugio da quelle parti, mentre i diportisti del Nord Sardegna sono decisi a chiedere asilo alla vicina Corsica. Restano gli skipper del Sud dell’isola: non c’è storia, loro saranno costretti a pagare. Non hanno scampo, gli unici porti franchi a ridosso del Cagliaritano (si fa per dire) sono quelli sulla costa africana, dove soffia ben altra burrasca e dunque poco raccomandabili. Al di là dell’inevitabile batosta sulla flotta nostrana, a spaventare il mondo della nautica sono gli effetti della gabella sul turismo, visto che gli stranieri non saranno esentati dal pagare lo «stazionamento» quando navigheranno in acque italiane. Per Franco Cuccureddu, presidente della Rete regionale dei porti, il vero contraccolpo sarà nel fatturato finora garantito dai forestieri: «Nessuno verrà più in Italia - dice - Avremo un buco del 95 per cento sui bilanci degli approdi. La prima botta c’è già stata: lo straniero che oggi ha la barca ormeggiata a Sanremo o a Castelsardo, vuole trasferirla in Francia, Spagna, Malta o Croazia. Dunque, perderemo immediatamente una valanga di soldi e sulle nostre banchine sarà il deserto». È un calcio in faccia, così lo chiama, soprattutto per la Sardegna: «In Italia, siamo la seconda regione per numero di porti, perché negli ultimi anni abbiamo investito molto proprio sul turismo nautico. Ebbene, la tassa provocherà, ad esempio a Porto Rotondo, una perdita immediata del 50 per cento negli approdi annuali». Andrà molto peggio d’estate, stagione clou: «Le disdette - annuncia Cuccureddu - per giugno, luglio e agosto arrivano ogni giorno a mazzi. In una frase sola: i nostri ventunmila posti barca sono destinati a restare vuoti. Le stime dicono che fra qualche mese il buco diventerà voragine, con un meno 84 per cento». Annunciato lo sfacelo, la Rete dei porti si è messa subito al comando della controffensiva e conta anche sul sostegno della Regione, che in più occasioni ha criticato il provvedimento Monti: «Sarà una sciagura per il turismo nautico», sono state le parole del governatore Cappellacci. dunque, tutti all’attacco e di recente, a Cagliari, la Rete ha convocato il direttivo degli associati: «Abbiamo ipotizzato delle contromisure e confermato - dice Cuccureddu - il ricorso alla Commissione Europea e alla Corte di giustizia europea se il governo non cambierà la filosofia della tassa. Proprio lì, a suo tempo, abbiamo vinto la battaglia contro le tasse di Soru e lì giocheremo anche la sfida col governo dei professori. Nessuno, ripeto nessuno, può imporre vincoli alla libera circolazione, mentre lo stazionamento è nei fatti una barriera. E nessuno può neanche alterare il mercato, con l’imposizione di una tassa che graverà solo sui charter italiani, mentre sulle altre società di noleggio dell’Unione non peserà alcun pedaggio. È evidente, a questo punto, che ci sarà una concorrenza sleale a danno delle nostre imprese. Concorrenza che invece è inammissibile in Europa». Nella stessa riunione, la Rete dei porti ha pensato anche a una soluzione d’emergenza: non scaricare il peso della tassa sui diportisti. «Per non fa fuggire gli stranieri - aggiunge Cuccureddu - abbiamo ipotizzato che a pagarla sia il porticciolo di attracco, mentre per sostenere i diportisti locali abbasseremo i costi di rimessaggio». Un’altra ipotesi, ancora più suggestiva, è quella dei punti franchi portuali, presentata ancora da Franco Cuccureddu, stavolta nella veste di consigliere regionale del Movimento per le autonomie, e dal capogruppo di Sel, Luciano Uras. «Per i nostri approdi, dobbiamo puntare alla fiscalità di vantaggio - dice Uras - che libererebbe la Sardegna dal vincolo dello stazionamento». L’ipotesi è suggestiva, ma a decidere sarà il governo, che martedì scorso si è aperto al confronto. La via d’uscita, com’è scritto in un emendamento firmato insieme da Pd e Pdl, prevede la trasformazione da tassa di stazionamento in accise o tassa di proprietà, che dunque non sarebbe a carico degli stranieri. «Speriamo che questa correzione passi in Parlamento - dice Franco Cuccureddu - Sarà comunque difficile da digerire, ma almeno ha un senso. Altrimenti ad affondare saranno solo i diportisti e con loro un mondo che in Sardegna dà lavoro a quattromila persone».

Foggia sommersa dai rifiuti al quartiere «Martucci» situazione insostenibile
FOGGIA - Le proteste? Servono a poco. Svuotati i cassonetti, ed è già una fortuna, il resto dei rifiuti continua a rimanere abbandonato intorno ai cestoni in attesa di essere raccolto. L’Amica ha la bellezza di 370 dipendenti, più o meno, ed una flotta di mezzi che - a sentire l’azienda - è stata nuovamente rimessa sul campo, e cioè in strada, ma da ormai un mese, e cioè dal giorno della mobilitazione sciopero dei dipendenti di Amica e Daunia ambiente, poco o nulla è stato fatto per ripulire la città e tenerla in ordine, almeno al minimo sindacale.
Soltanto l’altro ieri la protesta dell’associazione «Movimento di idee» che, appunto, aveva raccolto l’amarezza dei residenti del rione Martucci, a due passi dal villaggio artigiani: sono trascorse 24 ore e non è accaduto nulla. I cumuli di rifiuti continuano a rimanere abbandonati intorno ai cassonetti e lo saranno anche oggi. Bisogna sperare in lunedì, ammesso che non succeda qualche altra cosa visto che dal giorno del fallimento all’Amica è accaduto di tutto: prima la rottura del trituratore che ha bloccato nei fatti l’impianto di trattamento dei rifiuti; poi la pala meccanica che sposta i rifiuti in tilt per via di due gomme rimaste a «terra»; poi il blocco dei mezzi per un intervento dell’ispettorato per la sicurezza sul lavoro dell’azienda sanitaria locale; risolto questo problema si è presentato quello delle assicurazioni ai mezzi dell’azienda rimasti bloccati per un giorno e mezzo per cercare una compagnia (in questo caso non era un problema di euro, sia chiaro, ndr); infine il cavo tranciato all’impianto di triturazione dei rifiuti (poi riparato) con tanto di indagine questa volta affidata alla Digos che ha in mano anche una perizia tecnica.
Problemi che al pari delle legittime preoccupazione dei lavoratori sul loro futuro (il 16 torna a riunirsi il tavolo tecnico al Comune tra sindacati, amministrazione comunale e il manager Raphael Rossi), continuano a tenere la città in una emergenza rifiuti strisciante ma anche non più tollerabile, visto che i cittadini comunque pagano la Tarsu e chiedono un «corrispettivo».
Ai soliti problemi segnalati dai rioni periferici e dal villaggio artigiani, ieri si sono aggiunti quelli che vivono lungo gli ingressi del capoluogo dauno (sono tredici, tra principali e secondarie, le strade di accesso a Foggia), con rifiuti in parte non raccolti ed in parte abbandonati per strada nell’impunità più assoluta, perché al di là dei disservizi di Amica, chi smaltisce in modo fraudolento non viene punito né dalla Polizia provinciale (che ha competenze in materia ambientale) né dalla Polizia municipale. Chi deve intervenire per sbloccare questa situazione?
Filippo Santigliano

Maltempo, Confagricoltura: “al mercato volano i prezzi, nei campi scendono addirittura”
Roma – MENTRE l’ondata di gelo polare sta avviandosi alla fine, l’agricoltura fa il suo doloroso elenco dei danni, che hanno già superato i 500 milioni di euro. Ma bisogna fare anche altri conti: quelli sui rincari, che da qualche giorno stanno facendo impazzire i prezzi di frutta e verdura sui banchi dei mercati e sugli scaffali della grande distribuzione. “E’ il copione di un film già visto troppe volte – dicono al Centro Studi di Confagricoltura -. Il gelo ha colpito alcune produzioni come indivia, radicchio e cavolfiori, con una conseguente diminuzione dell’offerta. Ma i rincari al consumo non riguardano che minimamente gli incassi delle aziende agricole”.
In altre parole, i prezzi di frutta e verdura, nei casi in cui sono aumentati per i consumatori, hanno determinato per gli agricoltori variazioni in positivo assolutamente marginali e solo per i prodotti colpiti da forti cali produttivi, mentre per la frutta le variazioni sono praticamente nulle.
 Il Centro Studi di Confagricoltura ha preso a riferimento i prezzi all’origine Ismea di alcuni ortofrutticoli dell’ultima settimana disponibile (5° settimana del 2012 che va dal 29 gennaio al 5 febbraio) e li ha confrontati con quelli della settimana precedente e della corrispondente settimana 2011. Ecco i risultati.
 Per gli ortaggi, i maggiori rincari riguardano i prodotti più colpiti dal gelo (radicchio, indivia e cavolfiori). Per questi prodotti i rincari su base settimanale sono anche “a doppia cifra” (+22,4% per il radicchio, +13-14% per l’indivia e cavolfiori, +12% per finocchi e peperoni etc.) ma si tratta di rincari che in assoluto sono nell’ordine di qualche centesimo per chilogrammo! Stiamo parlando di 10-12 centesimi in più per un kg di radicchio o di peperoni, addirittura solo 2-4 centesimi in più a chilo per indivia, finocchi, lattuga e cavolfiori. Certo un aggravio che non può pesare più di tanto sul carrello della spesa dei consumatori. Evidentemente i rincari sono frutto di altri fattori e non certo dell’aumento dei prezzi all’origine.
 Per alcuni prodotti orticoli le quotazioni all’origine sono ferme (pomodori in serra e ciliegini) e per altri, come le tanto “chiacchierate” zucchine, addirittura si registra un calo delle quotazioni all’origine, che sono arrivate a meno di un euro a kg con una riduzione di 14 centesimi per chilogrammo, quotazione pari al 12,5% in meno rispetto alla settimana precedente e leggermente inferiore a quella della stessa settimana dello scorso anno.
 Non solo le zucchine ma anche altri prodotti oggi costano all’origine meno (anche considerevolmente in percentuale) di quanto accadeva un anno fa. L’indivia -6%; i finocchi -9% ed i peperoni -22%. Per ciliegini e patate comuni il calo è addirittura del 30 per cento. Per le cipolle le quotazioni sono inferiori di oltre il 47% rispetto al 2011.
 Per quanto riguarda la frutta, i prezzi sono praticamente fermi rispetto alla settimana precedente (e la cosa si giustifica anche considerando che a parte gli agrumi la fase di raccolta è già da tempo conclusa) e tutti in calo, anche fortemente (ad es. actinidia: -12,8%; mandarini: -17,4% e pere: -43,3%), rispetto alle quotazioni all’origine dello scorso anno.
 “In conclusione – sottolinea l’analisi di Confagricoltura – se ci sono particolari rincari al consumo degli ortofrutticoli questi non dipendono dai produttori agricoli, che invece confermano, evitando eccessivi aumenti dei prezzi all’origine, il ruolo antinflattivo del settore a vantaggio dei consumatori. Questo anche se il reddito degli agricoltori è pregiudicato sia dalle minori entrate (influenzate dal calo di produzione dovuto al gelo) sia dai maggiori costi (collegati ai rincari energetici)”.
 Redazione Stato

La lezione del «Made nel mondo»
L'economia italiana è un'anatra zoppa. Il Made in Italy, la zampa robusta, va forte anche quando il terreno è accidentato, vuoi per le buche scavate dalla crisi che per gli sconvolgimenti degli spazi economici internazionali. Gracile è invece la zampa delle imprese integrate globalmente: dalle multinazionali mutate in ecosistemi imprenditoriali alle startup frutto della rivoluzione digitale.
Tra le altre anatre zoppe dell'eurozona, l'Irlanda può insegnarci qualcosa sul come irrobustire la zampa debole. È il 1990 quando Fruit of Loom approda nell'isola per produrre T-shirt. Venti anni dopo, intorno all'arpa celtica si è formata un'orchestra di imprese globali (molte vi hanno impiantato laboratori di R&S e centri decisionali europei) del calibro di Intel e Pfizer, Google e Merck, Apple e Siemens, Ibm e Microsoft. Fino alle più recenti ondate imprenditoriali di reti sociali che portano i nomi di Facebook, LinkedIn e Twitter. Complessivamente, l'Irlanda ospita nove delle dieci maggiori imprese tecnologiche mondiali. Pro capite, attira investimenti diretti dall'estero dieci volte di più rispetto a noi.
La classe dirigente italiana ha sposato il pessimismo dei critici delle multinazionali. Troppo capital-intensive, avare nel creare lavoro, pronte a scappare al primo stornir di foglie, veicolo di export non così efficace. Perdendo purtroppo di vista la loro trasformazione. Dai bachi delle multinazionali sono uscite le farfalle delle imprese globali, quelle che costruiscono ecosistemi in grado di nutrire le nuove generazioni di imprenditori e che a noi sono sfuggite perché privi di retini per catturarle.
L'Irlanda, al contrario, di retini ne ha avuto uno in dotazione (la lingua inglese) e almeno altri tre li ha fabbricati con cura: la tassazione generosa verso le imprese globali; una forza lavoro relativamente giovane, adattabile, istruita e con marcate competenze tecnologiche; e una burocrazia tanto leggera da facilitare l'atterraggio di imprese estere e l'avvio di nuove. Nonostante le forti turbolenze cui l'economia è andata incontro nell'ultimo quinquennio, con il debito netto che in rapporto al Pil ha fatto un salto in alto di 93 punti percentuali, il risultato è che oggi a Dublino si investe sugli imprenditori nascenti, generatori di occupazione, e sugli ecosistemi mondiali che li allevano. Basti ricordare i nuovi investimenti di Intel per 500 milioni di dollari destinati a un nuovo impianto di produzione di chip e la decisione presa da Twitter di stabilire a Dublino la propria sede internazionale.
L'Italia non è una piccola Irlanda. I pesi medi e massimi del Made in Italy si muovono dal quadrato dei distretti industriali per inanellare record nei mercati dei paesi emergenti. Tuttavia, il loro futuro non è in un "Made" nazionale. È in formazione una geografia imprenditoriale senza confini che porta a valorizzare il "Made nel Mondo". I campioni mondiali colgono le eccellenze ovunque siano disponibili, e tessono reti internazionali di talenti. Si trasformano in comunità imprenditoriali integrate globalmente. Al crescere del numero dei clienti, soprattutto tra le nuove classi agiate - dalla Cina all'India, dalla Turchia al Brasile - il "Made-in" nazionale cede il passo al "Made nel Mondo", formato da tanti centri "in" di eccellenza (dal design alla logistica). È proprio per cogliere le opportunità offerte da questa trasformazione che bisogna agire sulla zampa gracile. Tanti sono i muscoli da rafforzare, come mostra un rapido confronto con la piccola Irlanda.
Per fare business e avviare nuove imprese, il contesto italiano è un terreno ostile. Nella graduatoria della Banca Mondiale sulla facilità di sviluppare un'attività imprenditoriale e avviarne di nuove, l'Irlanda è, rispettivamente, al 10° e al 13° posto. L'Italia, in 87ª e 77ª posizione. Angusta è la visione di un futuro imprenditoriale in cui un mix di italiani e stranieri possa creare nel nostro Paese startup internazionali con probabilità di successo molto più alte rispetto alle nuove imprese fondate solo da connazionali. Per quella cruna dell'ago nessuna città italiana riesce a passare per poi potersi immettere, come Dublino, nel crocevia della circolazione internazionale dei talenti. Ci manca un catalizzatore che, al pari dell'agenzia Enterprise Ireland, attiri decine di milioni di euro da destinare agli imprenditori nascenti. Scontiamo un deficit di classe creativa (i professionisti dell'economia della conoscenza) - siamo dieci punti sotto l'Irlanda (13 contro 26% sull'occupazione totale, secondo le stime di Richard Florida).
Abbiamo accumulato un pesante ritardo nell'istruzione superiore. Tra i 24-65enni, il 54% ha conseguito un diploma di scuola media secondaria contro il 72% in Irlanda. E il divario resta notevole anche tra i più giovani (nella classe di età 25-34 anni, 70% in Italia, 86% in Irlanda). Stiamo nelle posizioni di retroguardia per le lauree in matematica, scienze e informatica. Sono questi i diplomi che secondo, l'annuario 2010 dell'Eurostat, vedono i giovani irlandesi tra i 20 e i 29 anni piazzarsi al terzo posto nell'Unione europea. Per ultimo, ma forse il fattore più critico giacché riguarda l'attitudine delle nuove generazioni che forgeranno il futuro del paese, non riusciamo a liberarci dalla sindrome della garanzia statale del valore dei titoli rilasciati dalle università. Quel valore legale che, come Luigi Einaudi osservava già cinquanta anni fa, «è un concetto del tutto ignoto nei Paesi a tipo anglosassone».
Capita così che in Irlanda gli studenti aspirino a formare il nuovo ceto imprenditoriale e per questo fine creino una grande organizzazione, il Trinity Economic Forum, che possa contribuire a plasmare il futuro orientamento della politica economica nazionale. Mentre da noi, frammentati in mille gruppuscoli, gli universitari vivono tra la contestazione al ministro di turno e l'angoscia della disoccupazione intellettuale, avendo il valore legale del titolo prodotto aspettative disattese di ingresso nel pubblico impiego o in un ordine professionale.
Non ci è dato trapiantare sulla nostra anatra zoppa la zampa forte dell'Irlanda. Dalla quale, però, possiamo imparare per fare esperienza sul come rafforzare la nostra tanto gracile.
 13 febbraio 2012

Grecia: Parlamento vota austerita', guerriglia ad Atene
Passa piano tra offensiva black bloc e palazzi in fiamme
13 febbraio, 09:36
(dall'inviato Patrizio Nissirio) (ANSAmed) - ATENE - Mentre Atene era in fiamme, il Parlamento ellenico ha votato stanotte a favore della legge che introduce le nuove, durissime misure di austerità ed apre la strada a un nuovo prestito da 130 miliardi di euro concordato con la troika, vitale per salvare l'economia ellenica dal collasso. Il drammatico voto (199 Sì, 74 No, con 278 deputati presenti) al termine di ore di dibattito, è avvenuto in un edificio assediato da migliaia di manifestanti e da violentissimi scontri tra polizia e gruppi di Black Bloc, che nel corso della protesta hanno dato alle fiamme palazzi, cinema, bar e banche. Mai ad Atene, una città che ha conosciuto molte dimostrazioni violente, una protesta aveva avuto conseguenze così devastanti. I palazzi ardevano ancora, a notte tarda.
 Il voto era stato preceduto dagli interventi dei massimi leader politici, da Giorgos Papandreou (Pasok) a Antonis Samaras (Nea Dimokratia), che avevano lanciato forti appelli alla compattezza e al Sì alla legge che contiene i tre articoli (misure di austerità, via libera a negoziato per riduzione debito, ok alla richiesta del prestito). E che, al termine della votazione hanno 'cacciato' 40 dei loro parlamentari che non hanno aderito all'appello. A chiudere il dibattito, prima del voto, era stato il premier Lucas Papademos, che ha innanzitutto condannato le violenze affermando che "il vandalismo e la distruzione non hanno un posto nella democrazia", ha invitato tutti alla calma. "E' l'ora delle decisioni", ha poi affermato il premier, aggiungendo che "abbiamo davanti un piano che ci aiuterà ad uscire dalla crisi economica". Il premier aveva ripetuto che una decisione sbagliata del voto sul piano avrebbe portato a un "catastrofico default, all'isolamento e all'uscita dall'euro". Papademos aveva quindi notato che "la ragione principale di questa crisi è che lo Stato greco, per molti anni, ha speso più di quel che incassava". Negli ultimi due anni, ha quindi aggiunto, la Grecia ha riguadagnato un terzo della produttività che aveva perso negli ultimi dieci anni. E ha ribadito che, se verranno attuate le misure e avviate le riforme, la Grecia dovrebbe tornare a crescere nella seconda metà del 2013.
 Intanto nella capitale greca si rincorrono voci su un possibile, imminente, rimpasto di governo. Il voto è giunto al termine di una giornata segnata dalle violenze, ma anche dalla protesta di decine di migliaia di persone di ogni settore della società greca contro i nuovi tagli nella piazza Syntagma ma anche altrove nel Paese. La situazione è precipitata attorno alle 17, una colonna di manifestanti attrezzati con passamontagna e maschere antigas, che issavano le bandiere rosse e nere degli anarchici (nessuno qui li chiama Black Bloc, ma si somigliano in tutto e per tutto), è arrivata lungo la centralissima via Stadiou e ha puntato diretta al cordone di polizia. E' stato il pandemonio, violentissimo, nel giro di pochi minuti. Ordigni artigianali fatti con bombolette di gas e molotov sono volati contro gli agenti, un attacco contro il quale la polizia ha risposto con cariche e lacrimogeni. La piazza è stata scossa da boati che venivano uditi anche all'interno del Parlamento, dove a un certo punto è entrato anche il fumo acre dei gas. La folla si è in gran parte spostata dalla piazza, dove in serata è però tornata (nel bel mezzo degli scontri è stata anche notata la presenza del compositore ed attivista politico Mikis Theodorakis, 88 anni, che ha detto che Il Parlamento "sta votando la morte della Grecia)), mentre gli scontri si frammentavano. Battaglie corpo a corpo nella via dello shopping Ermou, fuochi in terra ovunque, scontri nella parte di Syntagma più lontana dal Parlamento, fermate dei bus date alle fiamme in via Panepistimiou, bloccata da ogni sorte di oggetto, poi dato alle fiamme. I feriti, secondo fonti ospedaliere, sono stati una sessantina, tra dimostranti ed agenti. Non è stato precisato il numero degli arrestati, si parla di una quarantina di persone. Poi, gli incendi, mentre continuavano gli scontri nel centro cittadino.
 Non sono note nel dettaglio le misure di austerità: nel piano ci sono di certo il taglio di 15.000 addetti nel settore pubblico, liberalizzazioni delle leggi sul lavoro e taglio dello stipendio minimo da 751 a 600 euro al mese, mandato per il negoziato con le banche per il taglio del debito. Il voto apre la strada a quei 130 miliardi, senza i quali la Grecia non potrebbe pagare il prossimo 20 marzo gli interessi sul debito, che ammontano a 14,5 miliardi. Ma anche alla possibilità di usufruire di 35 miliardi di prestiti dal fondo temporaneo salva-Stati Efsf, che andranno ad aggiungersi ai 4,5 miliardi dei ricavi dalle privatizzazioni e ai risparmi.(ANSAmed).

Grecia: Roesler, voto parlamento solo un passo avanti
11:01 13 FEB 2012
 (AGI) - Berlino, 13 feb. - Il ministro dell'Economia tedesco, il liberale, Philipp Roesler sostiene che il voto di ieri del Parlamento greco e' "solo un passo avanti nella giusta direzione". Insomma, l'approvazione dei nuovi tagli va bene, ma non basta per ottenere i 130 miliardi di euro di aiuti internazionali. Per il via libera dell'Europa, secondo Roesler, manca ancora l'ok della troika. "va bene che le leggi siano passate - dice il ministro - con una larga maggioranza ma quello che serve e' l'implementazione delle riforme strutturali". "Abbiamo fatto un passo nella giusta direzione - aggiunge - ma siano ancora lontani dall'obiettivo". Roesler ricorda che alcune leggi di riforma fiscale sono state approvate dal Parlamento ma non sono mai state sufficientemente implementate.

Crisi: Grecia, Gravi danni ad Atene
68 poliziotti e 70 dimostranti feriti, 137 tra arresti e fermi
13 febbraio, 11:31
(ANSA) - ATENE, 13 FEB - Atene fa la conta dei danni e ripulisce le macerie, il giorno dopo le violenze e gli incendi che hanno accompagnato il voto del Parlamento sul pacchetto austerità. Per il sindaco della città Giorgos Kaminis, che stamattina ha fatto un sopralluogo agli edifici andati a fuoco, 45 tra negozi e uffici sono stati distrutti. Ha definito il danni "irreparabili". Secondo la polizia, 68 agenti e 70 dimostranti sono rimasti feriti negli scontri, e ci sono stati 137 tra arresti e fermi.

In Austria via alla manovra da 26,5 miliardi
I nostri vicini di casa diluiscono tagli e tasse in cinque anni, la manovra comporta un impegno notevole per un Paese il cui bilancio si aggira sui 140 miliardi all’anno
di Marco Di Blas
 VIENNA. Anche l’Austria tira la cinghia. In questo fine settimana il governo Spö-Övp ha varato una manovra finanziaria di 26,5 miliardi, spalmata fino al 2016. Anche se diluita in 5 anni (ma il 2012 non si conta ormai) comporta un impegno notevole per un Paese il cui bilancio si aggira sui 140 miliardi all’anno.
 Il provvedimento è giunto come uno scossone, dopo tre anni di stallo politico dovuto ai veti reciproci permanenti tra socialdemocratici e popolari (è un invenzione italiana che i governi di “grande coalizione” in Austria e in Germania siano modelli da seguire). A determinarlo è stato sicuramente il declassamento di Standard & Poor, che ha tolto all’Austria la tripla A e che ha convinto il governo della necessità di risanare i conti pubblici, il cui deficit supera largamente il 3% di Maastricht.
 Dei 26,5 miliardi del “pacchetto”, 7,5 sono dovuti a nuove imposte e il resto (il 70%) a tagli della spesa. I risparmi maggiori sono previsti nelle pensioni (7,3 miliardi) e nel settore pubblico (2,5 miliardi). Ulteriori risparmi per 5,2 miliardi verranno dai Länder, con cui il governo deve ancora avviare le trattative, trattandosi di Stato federale.
 I risparmi sul fronte dei dipendenti pubblici avverrà grazie a un congelamento degli stipendi fino al 2013 e aumenti dell’1% negli anni successivi, a prescindere dall’inflazione. L’apparato burocratico, inoltre, verrà snellito attraverso una serie di interventi particolari (dall’unificazione tra l’Archivio di Stato e il Museo dell’esercito, fino alla chiusura dei Tribunali minori e degli ospedali militari). Il taglio maggiore dei costi è previsto nel campo delle pensioni, che venivano adeguate annualmente al tasso di inflazione, mentre fino al 2013 il tasso sarà ridotto di un punto percentuale e poi di 0,8 punti. Un drastico provvedimento è stato preso nei confronti delle pensioni anticipate, che saranno consentite soltanto a chi ha almeno 40 anni di contributi (finora bastavano 37,5). Addio alle pensioni di invalidità, diffusissime. Per usufruirne, si dovrà avere più di 50 anni.
 L’operazione varata prevede altri risparmi nella sanità e dei finanziamenti pubblici, dove spesso si sovrappongono interventi nazionali e regionali, con doppioni di spesa.
 La manovra del governo austriaco assomiglia più a quelle di Tremonti che non a quella di Monti, nel senso che essa prevede entrate di cui almeno un terzo più che certe sono sperate o sono costituite soltanto da “titoli”, il cui contenuto deve essere ancora scritto. Per esempio, è prevista un’imposta sulle transazioni finanziare (la famosa Tobin tax), che dovrebbe fruttare 1,5 miliardi, ma si tratta di un tributo che deve essere deciso dall’Ue e di cui per ora non si è ancora discusso. Altri 1,1 miliardi dovrebbero essere recuperati dagli euro austriaci depositati clandestinamente in Svizzera. Se funzionerà, nel 2016 l’Austria raggiungerà il pareggio di bilancio. Tre anni dopo l’Italia.

Bce:depositi banche risalgono a 500 mld
Prestiti marginali in calo a 1,2 mld
13 febbraio, 10:17
(ANSA) - ROMA, 13 FEB - I depositi overnight delle banche dell'eurozona presso la Bce sono risaliti a quota 500 miliardi: venerdi' sera - comunica l'istituto di Francoforte - i depositi sono stati pari a 507,9 miliardi dai 496,1 miliardi del giorno prima. I prestiti marginali sono calati a 1,2 miliardi dai 1,6 miliardi precedenti(ANSA).

Svizzera. Bce e interessi particolari
di Joseph Stiglitz - 02/13/2012
Nulla meglio del dibattito sulla ristrutturazione del debito sovrano greco può illustrare le controtendenze politiche, gli interessi particolari e la miope economia che sono ora in gioco in Europa. La Germania insiste su una ristrutturazione profonda – che preveda almeno una decurtazione del valore delle obbligazioni in mano agli investitori privati del 50% – mentre la Banca centrale europea insiste sul fatto che qualsiasi ristrutturazione debba essere volontaria. In passato – pensiamo alla crisi debitoria dell’A-merica latina scoppiata negli anni Ottanta – fu possibile mettere i creditori, soprattutto le grandi banche, in una stanza per elaborare un accordo, grazie anche all’opera di persuasione o alle pressioni fatte dai governi e dagli enti di vigilanza desiderosi che le cose procedessero senza difficoltà. Ma con l’avvento della cartolarizzazione dei debiti, i creditori sono diventati oltremodo numerosi e includono hedge fund e altri investitori su cui gli enti di vigilanza e i governi hanno una scarsa influenza.
L’“innovazione” portata nei mercati finanziari ha reso possibile che i possessori di titoli venissero assicurati, e che quindi avessero un “posto a tavola” senza rischiare alcunché. Dietro a tale mossa esistono ovviamente degli interessi: l’obiettivo è riscuotere il pagamento dell’assicurazione, così che la ristrutturazione diventi un “evento creditizio” – che equivale a un default.
L’insistenza della Bce su una ristrutturazione volontaria – per evitare un evento creditizio – ha messo i due fronti ai ferri corti.L’ironia è che gli enti di vigilanza hanno acconsentito alla creazione di questo sistema disfunzionale.
La posizione della Bce è singolare. Le banche avrebbe potuto gestire il rischio di default sui bond in portafoglio acquistando una copertura assicurativa. E qualora l’avessero acquistata, l’ente di vigilanza responsabile della stabilità sistemica avrebbe dovuto garantire che l’assicuratore pagasse in caso di perdita. Ma la Bce vuole che le banche soffrano una perdita del 50% sulle proprie obbligazioni, senza rimetterci i “benefici” dell’assicurazione.
I motivi che spiegano la posizione della Bce sono tre e nessuno fa onore all’istituzione e alla sua condotta in fatto di regolamentazione e supervisione.
Il primo è che le banche non hanno, di fatto, acquistato una copertura, facendo in alcuni casi della speculazione. In secondo luogo, la Bce sa che il sistema finanziario non è trasparente – e che gli investitori sanno di non poter valutare correttamente l’impatto di un default involontario, che potrebbe causare un congelamento dei mercati creditizi. innescando quanto avvenuto dopo il crac Lehman Brothers del 2008. Infine, la Bce vorrebbe tentare di proteggere le poche banche che hanno sottoscritto un’assicurazione.
Nessuna di queste spiegazioni rappresenta una scusa adeguata all’opposizione della Bce alla profonda ristrutturazione involontaria del debito greco. La Bce avrebbe dovuto insistere su una maggiore trasparenza, anche a fronte di quanto già vissuto nel 2008. Gli enti di vigilanza non avrebbero dovuto permettere alle banche di speculare come hanno fatto; o per lo meno, avrebbero dovuto spingerle ad acquistare una copertura e insistere su una ristrutturazione tale da garantire la liquidazione dell’assicurazione.
Non sono molte le prove a dimostrazione che una ristrutturazione involontaria sarebbe in qualche modo più traumatica di una ristrutturazione volontaria di pari livello. Insistendo sulla volontarietà, la Bce cerca di garantire che la ristrutturazione non sia profonda; in questo caso mette però gli interessi delle banche davanti a quelli della Grecia, per la quale una ristrutturazione profonda è fondamentale per uscire dalla crisi. La Bce sta mettendo gli interessi delle tante banche che hanno sottoscritto credit default swaps davanti a quelli della Grecia, dei contribuenti europei e dei creditori che hanno agito con prudenza e si sono tutelati con una copertura assicurativa.
L’ultima stranezza in merito alla posizione della Bce riguarda la governance democratica. La decisione sulla presenza o meno di un evento creditizio è lasciata a una commissione segreta della International Swaps and Derivatives Association, un gruppo di settore che ha un interesse personale nell’esito. Se le notizie riportate dai giornali sono corrette, alcuni membri della commissione starebbero usando il proprio ruolo per promuovere negoziazioni più accomodanti. Appare insensato che la Bce deleghi a una commissione segreta, fatta di partecipanti al mercato utilitaristi, il diritto di decidere cosa sia una ristrutturazione di debito accettabile.
L’unica argomentazione che sembra, almeno superficialmente, mettere l’interesse pubblico davanti a tutto è che una ristrutturazione involontaria potrebbe provocare un contagio finanziario, mettendo le grandi economie dell’Eurozona come Italia, Spagna e Francia di fronte a un brusco, e forse proibitivo, aumento dei costi di indebitamento. Per quale motivo, però, una ristrutturazione involontaria dovrebbe portare a un contagio peggiore rispetto a una ristrutturazione volontaria di pari densità? Se il sistema bancario fosse ben regolamentato, e le banche in possesso di debito sovrano fossero dotate di una copertura, una ristrutturazione involontaria dovrebbe turbare meno i mercati finanziari.
C’è poi chi sostiene che se la Grecia se la cavasse con una ristrutturazione involontaria, altri potrebbero seguire il suo esempio. I mercati finanziari, preoccupati di questa situazione, alzerebbero immediatamente i tassi di interesse su altri Paesi a rischio dell’Eurozona, siano essi grandi o piccoli.
Ma i Paesi maggiormente a rischio sono già stati tagliati fuori dai mercati finanziari, quindi la possibilità di una reazione di panico appare remota. Altri potrebbero essere tentati di imitare la Grecia se il Paese ellenico ne uscisse effettivamente meglio con una ristrutturazione che non in caso contrario. Questo è vero, ma si sa già.
Il comportamento della Bce non dovrebbe sorprendere: come abbiamo visto altrove, le istituzioni che non sono democraticamente responsabili, tendono ad essere catturate da interessi particolari. E così è stato prima del 2008; sfortunatamente per l’Europa, e per l’economia globale, da allora il problema non è mai stato adeguatamente affrontato.
© Project Syndicate, 2012

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