domenica 1 aprile 2012

pm1.4.12. I sabaudo-padani hanno le palle in mano, quelle degli altri; e gli altrettano schifosi indiani hanno gia’ scritto la loro lurida sentenza. - La nostra posizione e' molto chiara. I due militari italiani hanno commesso un reato che cade sotto gli effetti della legge indiana e devono quindi affrontare questo processo.

Caso marò, il governo di Kerala: "Devono essere processati qui"
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Barletta. «Tutti i nostri rifiuti potrebbero salvarci basta solo riciclarli»
Ticino. Rompere il tabù dello scambio d’informazioni
Trst, oltrepadania. Il friulano a scuola dal prossimo anno
Caso marò, il governo di Kerala: "Devono essere processati qui"
Nuova Delhi, 1 apr. - (Ign) - Si complica la vicenda dei due marò italiani in carcere in India con l'accusa di aver ucciso due pescatori. Secondo quanto scrive l'agenzia di stampa statale indiana Pti, il 'chief minister' dello Stato indiano del Kerala, Oommen Chandy, ha definitivamente escluso che i due militari possano essere processati in Italia.
"La nostra posizione e' molto chiara. I due militari italiani hanno commesso un reato che cade sotto gli effetti della legge indiana e devono quindi affrontare questo processo''. Chandy ha assicurato che la giustizia indiana "è molto equa, molto aperta e molto indipendente'' ribadendo che l'Italia e' un paese amico. E proprio dall'Italia, è partito in missione il sottosegretario agli Esteri italiano, Staffan de Mistura, che torna in India per occuparsi della vicenda che coinvolge Massimiliano Latorre e Salvatore Girone.
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Barletta. «Tutti i nostri rifiuti potrebbero salvarci basta solo riciclarli»
di GIUSEPPE DI MICCOLI
BARLETTA - «La prossima volta che tornerò a Barletta mi auguro di poter vedere il rudere della distilleria come un luogo dove i giovani, gli adulti e i politici possano discutere di questioni ambientali e non solo». Èun vero piacere parlare con Paul Connett - professore emerito dell'Università di San Lawrence nello stato di New York e docente di chimica generale ambientale e tossicologia - indomito combattente che tiene a cuore «le sorti ambientali del pianeta».
Personalità mondiale nel campo della teoria dei «Rifiuti Zero» espone il suo credo, sempre, con garbo ma soprattutto con dati scientifici che fanno riflettere anche i più riottosi all’argomento.
Il professore, instancabile giramondo, ieri è stato ospite del Collettivo Exit e dell'associazione “Beni Comuni” all’interno del Laboraorio urbano “Gos” dove ha tenuto una conferenza divulgativa in merito alla strategia «Rifiuti Zero» di cui è padre fondatore.
Ad ascoltarlo, con interesse e partecipazione attiva, cittadini e politici tra cui il sindaco Nicola Maffei e l’assessore regionale Maria Campese. «La strategia “Rifiuti zero” è un diverso modo di affrontare la gestione dei rifiuti che, se considerata attentamente, produrrebbe tanti vantaggi per tutto l’ecosistema. Purtroppo troppo spesso questo discorso non viene compreso dai politici essendo interessati ad ottenere consenso immediato e a non interessarsi dello sviluppo futuro dei territori», ha detto il professore gustando un caffè.
«Tutti gli abitanti del pianeta devono convincersi sempre di più che i rifiuti rappresentano una risorsa sempre e comunque. Pertanto mi piace precisare che quando si costruisce un inceneritore si investono molti capitali in macchinari estremamente complicati che, tra l’altro, creano pochissimi posti di lavoro. Al contrario penso che se si inculcasse una mentalità che tenga conto degli innumerevoli vantaggi di concetti, tanto semplici quanto naturali, come riciclaggio e riutilizzo tutti vivremmo molto meglio con prospettive ben più rosee», ha proseguito il cattedratico.
Prima di congedare il cronista l’appello: «Cambieremo la nostra esistenza solo se capiremo che i rifiuti devono essere una materia da trattare con attenzione e non come un business che produce ricchezza per pochi e morte per tanti».
«Come sempre il professor Connett ha offerto ragioni sacrosante. Speriamo che il sindaco Maffei e tutti i consiglieri, nel prossimo consiglio comunale monotematico, tengano conto che non è possibile praticare altre inutili strade», hanno dichiarato gli organizzatori Alessandro Zagaria e Sabrina Salerno.

Ticino. Rompere il tabù dello scambio d’informazioni
di Generoso Chiaradonna - 03/31/2012
La partita a scacchi tra Svizzera e resto del mondo per rendere la piazza finanziaria svizzera compatibile con i nuovi e più trasparenti standard internazionali continua. E i tavoli da gioco sono più di uno.
Uno di questi è la Convenzione siglata con Gran Bretagna e Germania. Un modello che ha il pregio di essere molto pragmatico. Con l’imposta liberatoria per regolare il passato e tassare i redditi futuri secondo le aliquote dei Paesi di ‘provenienza’ di questi capitali si cerca di ottenere due obiettivi: calmare gli appetiti ‘fiscali’ di questi due Stati e di quelli che lo vorranno, e allo stesso tempo continuare a mantenere l’anonimato dei clienti esteri delle banche svizzere. In poche parole soldi certi e in breve tempo invece di informazioni che per dettagliate e numerose possano essere, richiederebbero comunque tempo, denaro e lunghi contenziosi giudiziari per dare i frutti sperati e cioè individuare e sanzionare gli evasori fiscali.
Quelle svizzere dovrebbero quindi suonare come proposte allettanti alle orecchie dei ministri delle Finanze europei. E lo sono talmente tanto che – come dimostrano in questi giorni i Länder tedeschi contrari all’accordo – si chiede ancora di più e il Consiglio federale è disposto anche a fare ulteriori concessioni affinché quella Convenzione diventi legge.
Proposte che con gli Stati Uniti (seconda scacchiera) non sono nemmeno state avanzate. Le autorità fiscali americane volevano informazioni e non soldi. E così è stato. Prima con Ubs, poi con l’altro drappello di banche svizzere cascate nella rete, tra cui la Wegelin, hanno insistito e ottenuto quello che desideravano: informazioni. I soldi sono poi arrivati e sono stati una conseguenza di quei dati meticolosamente raccolti durante la loro ultima amnistia fiscale del 2009. Un provvedimento per nulla anonimo che prevedeva – per ottenere il ‘perdono’ – che l’evasore penitente raccontasse vita, morte e miracoli del suo capitale nascosto all’estero. Come l’aveva trasferito, dove l’aveva trasferito e soprattutto chi lo aveva aiutato. Notizie che messe una dietro l’altra hanno permesso alle autorità americane di far scoppiare i recenti casi Wegelin, Credit Suisse e degli altri comprimari e che hanno costretto il Consiglio nazionale a rivedere in corso d’opera la Convenzione contro la doppia imposizione appena firmata e ratificata. In quanto a pragmatismo agli americani non bisogna insegnare nulla.
La Commissione europea – e siamo al terzo tavolo da gioco – non ha ancora chiarito se gli accordi che Germania e Gran Bretagna hanno firmato con la Svizzera siano o meno eurocompatibili. A Berna giurano di sì, ma i dubbi permangono visto che non più tardi di due settimane fa lo stesso Manuel Barroso, presidente della Commissione europea, ha ribadito che per quanto riguarda la fiscalità del risparmio ‘fuggito illegalmente all’estero’ bisogna trovare un accordo quadro in sede europea e non sono ben accette fughe in solitaria.
Infine ci sono altre tre scacchiere: il G20, l’Ocse e il Gafi e tutte e tre queste organizzazioni puntano a una maggiore trasparenza e cooperazione per quanto riguarda la lotta alla frode e all’evasione fiscale. Per non parlare delle posizioni di Italia e Francia e che si sono dette contrarie ad accordi separati.
Se dovesse tramontare definitivamente l’accordo con la Germania, la Svizzera si troverebbe nuovamente in una situazione difficile e la ‘Weissgeldstrategie’ difficilmente implementabile.
A questo punto vengono in mente le parole pronunciate all’inizio di marzo da Pierin Vincenz, il Ceo di Raiffeisen Svizzera e salvatore di quel che resta di Wegelin diventata nel frattempo Notenstein. E cioè che la Svizzera dovrebbe incominciare a pensare di adottare il principio dello scambio automatico d’informazioni. Un’affermazione che è suonata come una bestemmia in chiesa, ma è probabilmente l’approdo ultimo e non dichiarato della Weissgeldstrategie.
Senza segreto bancario istituzionalizzato la piazza finanziaria svizzera non sarà né migliore e né peggiore delle altre.

Trst, oltrepadania. Il friulano a scuola dal prossimo anno
Maggioranza divisa ma Molinaro difende la scelta: «L’inserimento negli istituti avverrà comunque con gradualità»
di Gianpaolo Sarti
TRIESTE. Zaino, merenda e friulano. Ora è realtà. In Friuli Venezia Giulia il prossimo anno scolastico la lingua approderà in classe assieme all’italiano, alla matematica e alla geografia. Dunque direttamente nell’orario curriculare, per le famiglie che ne faranno richiesta, e non più soltanto nei progetti formativi extra. Per i bambini che non parteciperanno sono previste altre attività. Così come avviene di norma con la religione.
La questione, inevitabilmente, riscalda gli animi e agita i campanili. «Una marchetta elettorale, roba da sagra», s’infervora il Pdl triestino.
La decisione della giunta regionale interessa tutte le scuole d’infanzia e le elementari dei Comuni del Friuli Venezia Giulia appartenenti all’area friulanofona: provincia di Udine, gran parte della provincia di Gorizia e della provincia di Pordenone. Per quanto riguarda le medie, per il momento, si continua con i percorsi a progetto. «Siamo finalmente riusciti a dare attuazione alla legge – spiega l’assessore all’Istruzione Roberto Molinaro (Udc) – ma l’inserimento negli istituti scolastici dovrà avvenire con una certa gradualità. Da una parte per una questione di costi (sono fondi regionali, ndr) dall’altra perché dobbiamo tenere conto degli insegnanti a disposizione. Quando avremo un quadro generale potremo estendere l’insegnamento alle scuole medie».
L’onda friulana, dunque, non si ferma qua. Piero Camber e Maurizio Bucci, due dei quattro consiglieri regionali del Pdl triestino, cercano di dare fondo alla diplomazia per commentare. Ma non ce la fanno proprio. «Ma stiamo scherzando? Non bastavano le provocazioni di Violino su Barcolana e vino? – si arrabbia Bucci – ora anche il friulano di Molinaro nelle classi. Basta, è un campanilismo sfacciato. Ma a cosa serve il friulano? A trovare lavoro forse? Ma dai. Ovviamente nelle scuole di Trieste non ci sarà nessun riscontro su questa decisione della giunta, perché qui da noi si insegnano lingue utili: l’inglese o una seconda e una terza lingua, comprese quelle slave visto che siamo una regione di confine. Insegnare il friulano a scuola non serve a niente – riflette il consigliere – è una marchetta elettorale a qualcuno. Una marchetta da sagra di paese».
Piero Camber è preoccupato: «Forse è solo un modo per creare posti di lavoro. Ma ricordiamoci che questo è un autentico danno che stiamo facendo ai nostri figli. I soldi li mette la Regione, ricordiamolo, e potrebbero essere impiegati molto meglio. Per studiare altre materie, altre lingue. Non ho niente in contrario nei confronti del friulano – osserva ancora il consigliere triestino del Pdl – però credo che questa lingua, così come i dialetti, si debbano imparare in famiglia, non in classe. Sono tradizioni che si tramandano a casa, in teatro, nella produzione letteraria. A scuola si devono insegnare bene l’inglese e le materie utili per l’ingresso nel mondo del lavoro e nella società, oramai globale. Non di certo il friulano».

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