Lunedì 13 Maggio 2013 16:54
Scritto da Domenico Bonvegna
Sul numero 366 della rivista Cristianità in un
interessante articolo Francesco Pappalardo formula una singolare tesi secondo
cui il nostro grosso debito nazionale è anche colpa del Regno di Sardegna
fortemente indebitato e che una volta divenuto Regno d'Italia passava il debito
a tutto il Paese. E' una tesi di un economista, uomo politico napoletano, il
barone Giacomo Savarese, ripresa dal Il Sole-24 Ore in occasione del
centocinquantenario dell'Unità d'Italia.“(....) è stato il Regno dei Savoia a
portare nella nascente Italia la cultura del debito facile, della finanza
allegra. Si può trarre la conclusione che per il Regno di Sardegna la creazione
di un'Italia unita fosse anche modo per aggiustare i conti”. (Morya Longo, Nord
“padre” del debito pubblico, in Sole-24 Ore,Milano 17.3.2011). Aggiustare i
conti, naturalmente, secondo Pappalardo, era a danno del reame più ricco,
quello borbonico.
Savarese pubblica un'opera polemica ma ben
documentata in cui compie un breve ma significativo raffronto fra le finanze
dello Stato sardo, fortemente indebitato, e quelle del più virtuoso Regno delle
due Sicilie. Il 17 marzo 1861, il Regno di Sardegna aveva un debito pubblico
pari al 67 per cento del Prodotto Interno Lordo, dilatatosi del 565 per cento,
nel periodo fra il 1847 e il 1859 per le guerre, nuovi balzelli e
l'acquisizione forzata delle proprietà ecclesiastiche. Opposta la situazione
del Regno delle Due Sicilie, che ha un debito pari al 29,6 per cento del PIL e
un bilancio rigoroso.
Tra l'altro, secondo uno studio della
ricercatrice Stéphanie Collet, lo spread,la differenza di rendimento fra i
titoli del debito pubblico degli Stati preunitari, premiava i titoli del Regno
delle Due Sicilie, che pagavano un tasso d'interesse più basso: 4,3 per cento
annuo rispetto al 5,7 per cento di quelli del Regno sardo. Nel 1866 il nuovo
Regno d'Italia aveva raggiunto addirittura il 14 per cento, riprova che i
mercati continuavano a non credere nella tenuta del nuovo regno. La Collet
individua delle analogie fra l'unificazione del debito sovrano degli Stati
italiani preunitari e il tentativo d'integrare le politiche economiche e
fiscali e anche i debiti sovrani, dei Paesi appartenenti all'area dell'euro.
Secondo Pappalardo, lo rileva anche l'economista di fama internazionale Vito
Tanzi: “La costruzione dell'unità europea sta incontrando difficoltà simili a
quelle affrontate centocinquant'anni fa nella penisola italiana, dove gli Stati
preesistenti, caratterizzati da leggi e da sistemi economici e tributari molto
differenti, sono stati messi insieme a tavolino e trasformati quasi
repentinamente in uno Stato unitario”, (F. Pappalardo, “Italica. Costi e
conseguenze dell'unificazione d'Italia”. Una lettura, ott.-dicembre 2012
Cristianità)
L'economista Vito Tanzi ritiene che “l'unificazione
italiana poteva offrire una specie di specchio storico per comprendere il
processo di integrazione europea”, osserva gli avvenimenti risorgimentali,
sotto il profilo dei costi e dei benefici, e avverte che il problema non era
l'unificazione in sé, ma alcune delle decisioni prese nei momenti cruciali da
persone che avevano una limitata conoscenza del Paese e che erano animate da
pregiudizi di natura ideologica. Pertanto, secondo Tanzi, “ (...)bisogna
chiedersi se, il modo in cui l'Italia fu unita era il solo modo possibile di
farlo; e se non c'erano altre scelte migliori, che avrebbero potuto ridurre il
costo, per i cittadini italiani, e specialmente per quelli del Meridione, che
fu pagato”. (V. Tanzi, Italica. Costi e conseguenze dell'unificazione d'Italia,
Grantorino libri, Torino 2012)
Il costo dell'Unità d'Italia è stato elevato,
soprattutto per le popolazioni meridionali che si sono visti appioppare una
serie di gravose misure restrittive di regolamenti amministrativi provenienti
da Roma senza tenere conto delle varie realtà territoriali. Tutto questo
provoca difficoltà e reazioni, fra queste il cosiddetto brigantaggio, una
resistenza armata contro i rappresentanti del nuovo centralismo statale, che
venivano visti come occupanti. “L'occupazione delle forze garibaldine, - scrive
Tanzi - seguita da quelle piemontesi, che, secondo molte testimonianze, fu
pesante, caotica e sicuramente non rispettosa delle tradizioni locali, delle
proprietà pubbliche e private, e di vari diritti dei cittadini, insieme al
peggioramento della situazione economica, che, per molte persone, accompagnò
immediatamente l'unificazione, insieme ad altri fattori, come per esempio
l'attitudine di disprezzo che Vittorio Emanuele (II di Savoia) dimostrò verso i
napoletani, durante la sua breve visita alla città nel 1861, contribuirono,
senza dubbio, ad ingrandire, se non a creare, il fenomeno”. La lotta al
brigantaggio meridionale è stata una vera e propria guerra civile, che ha
provocato decine di migliaia di vittime e che ha aggravato le precarie
condizioni delle finanze pubbliche.
Per maggiori informazioni in merito a quegli anni
in questi giorni ho letto i “Verbali della Commissione parlamentare di
inchiesta sui moti di Palermo del 1866” della Camera dei deputati Segreteria
generale, Ufficio stampa e pubblicazioni del 1981 a cura e con una introduzione
di Magda Da Passano. Un grosso volume di 526 pagine che ho trovato nella solita
outlet del libro milanese. Palermo nella metà del settembre 1866, per una
settimana, fu scossa da sanguinosi moti popolari, che il professore Tommaso
Romano nel suo libro, chiama l'insorgenza palermitana del “Sette e mezzo”. Si
trattò di una rivolta, non più contenibile, fra gli strati più poveri della
popolazione, un malcontento e delusione verso il nuovo ordine di cose, che si
era instaurato dopo l'avventura garibaldina.
A questo riguardo è stata nominata una
“Commissione d'inchiesta sulle condizioni morali ed economiche della provincia
di Palermo”. Nel volume a cura dell'Archivio storico della Camera vengono
interrogati una folla di amministratori locali, piccole autorità militari e di
pubblica sicurezza, uomini d'affari e di legge, artigiani e religiosi. Spiccano
personaggi autori della repressione della rivolta come il questore Felice
Pinna, il prefetto Torelli, il sindaco di Rudinì, il commissario straordinario
del Governo, generale Cadorna. Naturalmente tutti di parte, quella del nuovo
Regno, ma nonostante questo traspare nei loro racconti molte verità, i
siciliani erano stanchi e illusi della nuova amministrazione del nuovo regno
sabaudo. “In quella breve serie di giorni - scrive Magda da Passano- tuttavia
si svolge una storia densa di elementi. Le plebi si sono sollevate
apparentemente senza capi e costituiscono, al momento del breve successo del moto,
i loro Comitati con nomi illustri e di fama per l'isola. L'anarchia dei sette
giorni vista attraverso i documenti sembra essere veramente lo sfogo della
delusione e dell'abbandono, della sfiducia che va radicandosi contro
l'amministrazione centrale ma anche della separazione del moto popolare dalla
classe intellettuale e potenzialmente dirigente, per varie vicende 'lontana' –
e per lunghi esili sofferti e per la sua in parte compiuta
settentrionalizzazione – dalla realtà vera del proprio paese siciliano”. Così
gli stessi deputati siciliani non sembrano inseriti nella società siciliana, al
contrario “del vecchio feudatario borbonico che guarda ironicamente
all'avventura dell'unità d'Italia come a un fatto temporaneo che sarà presto
risolto”.
Una digressione a margine, tra i verbali del
volume della Camera dei deputati c'è quella di un deputato, un certo Castiglia,
a pagina 51 e fa riferimento a Giovanni Interdonato, Procuratore generale della
Corte d'appello a Palermo, a Milano e a Messina, cugino omonimo del patriota
garibaldino di Nizza di Sicilia, recentemente scoperto dagli amministratori
della cittadina del messinese. Ecco cosa si scrive qui nel testo di Interdonato
e di Pinna, “Col loro procedere co' loro soprusi, co' loro arbitri e colle idee
preconcette e false vessarono, destarono malumore, seminarono germi di
disordine, popolarono colle ammonizioni e persecuzioni le campagne di
latitanti(...)Riempirono le carceri con supposti reati e arbitrarie
interpretazioni delle leggi: riempirono le campagne di malcontenti; sommossero
la pubblica opinione”. E ancora nella nota su Giovanni Interdonato, in merito a
un rapporto dei carabinieri del 1861, viene così definito: “E' di colore
repubblicano, protettore dei cattivi, popolare colli accoltellatori, tra i quali
travansi persone anche d'alto ceto, epperciò non gode d'alcuna influenza sulla
popolazione, da cui anzi è detestato”
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