I cialtroni e l'Unità
d'Italia, di Luigi Capozza
Ho letto con partecipazione
e condivisione gli articoli di Franco Federico sulla politica e
l’amministrazione meridionali, comparsi sulle pagine del trisettimanale
ilCrotonese la scorsa estate. Il desiderio è di riprendere il discorso di
Federico, cercando di aggiungere un’ulteriore riflessione di carattere storico,
partendo dall’affermazione di Tremonti che la classe dirigente meridionale sia
composta da cialtroni. Tremonti, come documenta anche Federico, non ha, per
certi versi, tutti i torti; tuttavia gioverà analizzare storicamente il come
mai si sia verificata una simile condizione.
Centinaia
di paesi e città nel Sud, sono state e sono terre di emigrazione; nella sola Calabria,
dall’unità d’Italia in poi, vi sono stati circa due milioni di emigrati, tanti
quanti abitanti attualmente conta la regione; un vero e proprio esodo biblico.
Dai primi anni ’90 del ‘900 ad oggi, come rilevato dalla stampa di ogni
tendenza, da tutto il Sud sono emigrati altri 2 milioni di persone, in assoluta
maggioranza giovani diplomati e laureati. È stato sempre così, o l’esodo è
iniziato proprio con l’Unità?
Ricaviamo
alcuni dati statistici dalla oggi imprescindibile opera di Giuseppe Ressa e
Alfonso Grosso, Il Sud e l’unità d’Italia (compare anche su Internet, sulla
piattaforma Scribd):
1)
«All'epoca di Francesco II, l'ultimo re, l'emigrazione era sconosciuta, le
tasse molto basse come pure il costo della vita, il tesoro era floridissimo. In
campo culturale Napoli contendeva a Parigi la supremazia europea» (ciò lo
riconosceva con molta onestà Paolo Volponi nel suo discorso d’insediamento alla
Camera).
2)
«Come risultò dalla Esposizione Internazionale di Parigi del 1856, le Due
Sicilie erano lo Stato più industrializzato d'Italia ed il terzo in Europa,
dopo Inghilterra e Francia (stessa documentazione fornisce Paolo Granzotto su
numerosi interventi sul Giornale). Dal censimento del 1861 si deduce che, al
momento dell'Unità, le Due Sicilie impiegavano nell'industria una forza-lavoro
pari al 51% di quella complessiva italiana (nonostante avesse 9 milioni di
abitanti su 22). I settori principali erano: cantieristica navale, industria
siderurgica, tessile, cartiera, estrattiva e chimica, conciaria, del corallo,
vetraria, alimentare.
3) «Nei
pressi di Napoli, a Pietrarsa, era attiva la più grande industria
metalmeccanica d'Italia … era l'unica fabbrica italiana in grado di costruire
motrici a vapore per uso navale. A Pietrarsa fu istituita anche la "Scuola
degli Alunni Macchinisti" che permise alle Due Sicilie, unico Stato della
Penisola, ad affrancarsi dalla necessità di disporre di macchinisti navali
inglesi. A Pietrarsa venivano costruiti cannoni ed altri armamenti; venivano
realizzati prodotti meccanici per uso civile, vagoni, locomotive ed i binari
ferroviari (di cui in Italia solo Pietrarsa disponeva della tecnologia
costruttiva). … Accanto a Pietrarsa sorgevano la Zino ed Henry (poi Macry ed
Henry) e la Guppy, entrambe con 600 addetti. … Viceversa al Nord, alla vigilia
dell'Unità, solo l'Ansaldo di Genova era a livello di grande industria (aveva
480 operai contro i 1.000 di Pietrarsa)».
4) « La ferriera di Mongiana sorgeva nei
dintorni di Serra San Bruno … Poco distante, fu più tardi costruita Ferdinandea.
… Il complesso siderurgico calabrese di Mongiana e Ferdinandea era, fino al
1860, il maggiore produttore d'Italia di ghisa e semi-lavorati per l'industria
metalmeccanica. Altri impianti metallurgici erano attivi in tutti il Sud».
5) « Le
Due Sicilie disponevano di una flotta mercantile pari ai 4/5 del naviglio
italiano ed era la quarta del mondo … fu la prima flotta italiana a collegare
l'Italia con l'America ed il Pacifico. … Il primo vascello a vapore del
Mediterraneo fu costruito nelle Due Sicilie nel 1818 e fu anche il primo al
mondo a navigare per mare e non su acque interne … l'Inghilterra dovette
aspettare altri quattro anni per metterne in mare uno, il Monkey, nel 1822. …
Il cantiere diCastellammare di Stabia, con 1.800 operai, era il più grande del
Mediterraneo. Al momento della conquista piemontese stava attrezzandosi per la
costruzione di scafi in ferro. L'arsenale-cantiere di Napoli, con 1.600 operai,
era l'unico in Italia ad avere un bacino di carenaggio in muratura lungo 75
metri. … Sono patrimonio delle Due Sicilie anche: la prima compagnia di
navigazione a vapore del Mediterraneo (1836) … Nel 1847 fu introdotta per la
prima volta in Italia la propulsione a elica con la nave "Giglio delle
Onde".
6)
«Prima dell’Unità il settore cotoniero vantava quattro stabilimenti con 1.000 o
più operai (1425 alla Von Willer di Salerno, 1160 in un’altra filanda della
provincia, 1129 nella filanda di Pellazzano, 2159 in quella di Piedimonte e un
migliaio nella Aninis-Ruggeri di Messina); nello stesso periodo gli
stabilimenti lombardi a stento raggiungevano i 414 operai della filatura Ponti.
… si ebbe dal 1835 un rinnovato sviluppo dell’industria della seta e nuove
filande sorsero in Calabria, in Lucania, in Abruzzo».
Senza
tirarla per le lunghe, diciamo che gli stessi primati su tutto il resto
d’Italia il Sud li vantava, a ridosso dell’Unità, nelle seguenti industrie: a)
cartiere; b) estrattiva e chimica (provenivano dal Sud i 2/3 delle produzioni
chimiche italiane); c) conciaria; d) del corallo; e) saline; f) dei vetri e
cristalli.
7) I
dati indicano che nel 1860 il Sud, che conta il 36.7 % della popolazione
d’Italia, «pur non avendo nulla che si possa paragonare alla pianura padana
produce il 50.4% di grano; l’80.2% di orzo e avena; il 53% di patate; il 41.5%
di legumi; il 60% di olio … Per quanto riguarda l’allevamento, considerando il
numero dei capi, il Sud era in testa in quello ovino, caprino, equino e dei
maiali».
8) «Il
livello impositivo era il più mite di tutti gli Stati Italiani. La contribuzione
diretta era praticamente basata solo sull’imposta fondiaria, quella indiretta
solo su quattro tributi». Il sistema bancario era il migliore che si potesse
desiderare.
Dunque,
il Sud, come risulta da statistiche e dati inoppugnabili, era, fino al 1861, lo
Stato più grande, più ricco e meglio governato dell’intera Penisola, sì da
gareggiare con le maggiori potenze economiche del tempo: Inghilterra e Francia
(sarebbe opportuno leggere tutta l’opera di Ressa e Grosso, che hanno
consultato migliaia di documenti. Bisognerebbe anche leggere o rileggere,
almeno, sia Corrado che Francesco Barbagallo, Einaudi, F. S. Nitti, Salvemini e
Zitara; leggere Simonelli, A. Pellicciari e Veneziani, Aprile e G. Bruno
Guerri, il cui saggio, Il sangue del Sud, uscirà a fine anno).
II
Come è
potuto accadere che il Meridione, già all’indomani dell’Unità, finisse pian
piano per diventare la cenerentola della “Nazione” con un tasso migratorio biblico?
Ci soccorrono per comprendere (e ci scusiamo per le continue, ma
indispensabili, citazioni) due documenti, ma vedremo altre ricostruzioni
storiche, anch’essi inoppugnabili: uno di F. S. Nitti e uno di Luigi Einaudi.
Afferma
F. S. Nitti, nel suo Bilancio dello Stato dal 1862 al 1897: «In quarant’anni il
Sud ha dato ciò che poteva e ciò che non poteva, ha ricevuto assai poco,
soprattutto ha ricevuto assai male”. Insomma, il 65% di tutta la moneta
circolante in Italia era del Sud e in pochi anni, tra tributi per risanare il
deficit del Tesoro dovuto alle guerre (il Meridione con 27% di produzione della
ricchezza dovette pagare il 32% dei tributi), in conseguenza delle nuove
imposte e della vendita dei beni demaniali ed ecclesiali ai latifondisti, il regime
doganale del 1887, il Sud fu privato dei suoi capitali a esclusivo vantaggio
del Nord».
Tale
testimonianza è avvalorata, fin dai primi anni del Novecento, proprio da quello
che fu primo presidente dell’Italia repubblicana, Luigi Einaudi. Luigi Einaudi
ne Il Buongoverno riconosce apertamente che «Sì, è vero, noi settentrionali
abbiamo … profittato di più delle spese dello Stato italiano; è vero, peccammo
di egoismo quando il settentrione riuscì a cingere di una forte barriera
doganale il territorio ed assicurare così alle proprie industrie il monopolio
del mercato meridionale; è vero che abbiamo spostata molta ricchezza dal Sud al
Nord con la vendita dell’asse ecclesiastico e del demanio e coi prestiti
pubblici … È vero che abbiamo ottenuto più costruzioni di ferrovie, di porti,
di scuole e di altri lavori pubblici, ma sono stati duri sacrifici imposti da
circostanze politiche ed economiche … ».
Quello
che è stupefacente, soprattutto in Einaudi, come se non se ne accorgesse, è che
egli dichiara candidamente che la vera Unità è stata fatta per il Nord e che a
questa (presunta) “necessità” si è dovuto sacrificare il Sud. Insomma, il Sud è
stato spogliato, impoverito, ridotto a territorio coloniale per … lo sviluppo
del Nord. Riconosce altresì, Einaudi, e candidamente non lo comprende, che il
Nord era povero e il Sud talmente ricco da “costruire” il Nord (la presunta
vera Italia lavoratrice, direbbero senza vergogna Bossi, Brunetta e Gelmini)
con le sue ricchezze.
III
Ma,
oltre a quanto sopra documentato, che altro è successo? Salvemini è molto
chiaro su questo fatto. Scrive il Nostro in Problemi educativi e sociali
d’Italia: «I governi italiani per avere i voti del Sud concessero i pieni
poteri alla piccola borghesia, delinquente e putrefatta, spiantata, imbestialita,
cacciatrice d’impieghi e di favori personali, ostile a qualunque iniziativa
potesse condurre a una vita meno ignobile e più umana […] Qualunque gruppo di
uomini onesti […] avesse voluto mettere un po’ di freno alla iniquità di una
sola fra le clientele che facevano capo a un deputato meridionale, era sicuro
di trovarsi contro tutta la marmaglia [piccolo borghese] compatta». Giordano
Bruno Guerri rincara la dose: «L’annessione del Sud fu una guerra di annessione
e di conquista, spietata e brutale … il paternalismo (?) borbonico permetteva
pure ai più poveri di vivere decentemente … La vita culturale … dera di tutto
rispetto … Le industrie erano all’altezza – e a volte superiori – a quelle del
Nord. Soprattutto, le casse dello Stato e la circolazione monetaria erano più
ricche che nel resto d’Italia messo assieme. Denaro, terre e industrie facevano
gola ai Savoia … il cui motto era: “L’Italia è un carciofo da mangiare foglia a
foglia”. Infatti l’ex Regno delle Due Sicilie venne depredato di tutto: l’oro
delle sue banche venne per lo più reinvestito al Nord, le industrie smantellate
e trasferite più vicino alle Alpi; le terre … non furono date ai contadini, ma
cedute a basso prezzo alla borghesia settentrionale o agli antichi feudatari
divenuti improvvisamente filounitari. A rimetterci fu il popolo … Il
brigantaggio …, oggi [i briganti] li chiameremmo partigiani …, fu una guerra
civile … Di certo, nascondere quello che avvenne non è servito a una crescita
del Paese e della nostra coscienza nazionale …».
Che
dire di più per spiegare lo sfascio, voluto e programmato, della nostra terra e
il processo migratorio dal Sud al Nord e nel resto del mondo? In effetti, però,
si può dire di più. Come si sa, la Sinistra storica e Giolitti non risolsero
propriamente la cosiddetta “Questione meridionale”; la grande guerra e il dopo
guerra sfasciarono ancor di più l’economia meridionale, privandola dei suoi
capitali e delle sue braccia per sostenere lo sforzo bellico e foraggiare
l’industria di guerra (e qui era già cominciata la trasformazione della mafia
in delinquenza organizzata di tipo moderno attraverso il mercato nero e poi i
fondi per la ricostruzione).
Il
Fascismo – e la crisi di Wall Street –, con la famigerata “Quota 90”, ossia il
pareggio della lira con la sterlina, a voler parlare solo di ciò, finì con lo
buttare sul lastrico migliaia di contadini, artigiani e piccoli imprenditori
debitori delle banche del Sud, le quali, non potendo più riscuotere i prestiti
aumentati a dismisura di valore, fallirono a loro volta.
La
seconda guerra mondiale, se possibile, peggiorò ancor di più le cose nel Sud, mentre l’industria di guerra
dell’Alta Italia marciava a pieno ritmo.
Ancora
una volta, la mafia si ingrassò col mercato nero, l’usura e, avendo bloccato il
Piano Marshall appena a sud di Roma, con, di nuovo, la caotica ricostruzione e
i relativi subappalti, col mercato illegale delle armi invendute, l’incipiente
mercato di droga e fonti energetiche in cambio di prestiti neocoloniali,
tecnologia, prodotti industriali con i popoli sottosviluppati.
Chiuderanno
le chiavi di una spoliazione perfetta: 1) la famigerata Riforma agraria degli
anni cinquanta, che, invece di aiutare la trasformazione del latifondo in
aziendalità e imprenditoria, o, perlomeno, in organizzazione cooperativistica,
suddivise il latifondo in piccoli lotti, con case di “cartapesta” isolate,
privi di qualsiasi strumento meccanico, e la 2) Cassa per il Mezzogiorno (e
Organismi similari), che, coi suoi finanziamenti a pioggia ha favorito, ancora
una volta, attraverso subappalti e altre diavolerie, la mafia, lo scempio
edilizio, le truffe imprenditoriali, l’illegalità diffusa, il clientelismo, il
burocraticismo vessatorio, improvvise fortune politiche, ecc. ecc.
Non
dico che non bisogna accettare ormai l'unità, ma bisognava, dando un senso alla
ribellione dei “briganti”, bilanciare in modo paritario col resto d'Italia la
stessa forma unitaria. Cosa che neanche si sognarono di fare, né se lo sognano,
i nostri intellettuali e politici. Non capirono, e non capiscono. Purtroppo,
come si scriveva sopra, il Meridione fu messo da subito nella condizione di
minorità, complice, allora, anche il grande (?) intellettuale Croce (leggere i
suoi giudizi sulla Destra storica e su Sella) e i suoi salottieri seguaci. Fu
giudicato, il Meridione, dalla
pubblicistica dell'epoca e dai politici interessati, arretrato, barbaro,
mafioso, incapace e analfabeta, non tanto potenzialmente delinquenziale, da
conquistare e liberare (rileggere il Manzoni per capire, invece, che cos'era il
Settentrione spagnolo; e poi francese e poi austriaco). E gli fu assegnato il
ruolo di banca del Nord, di procuratore di manodopera, di bacino elettorale, di
trafficante del mercato illegale, di carne da macello delle varie guerre.
Insomma, fu distrutta la storia e la sua verità, senza le quali nessun popolo
trova identità e può costruire la sua vita e il futuro.
IV
La
solfa continua ancor oggi e non bisogna meravigliarsi che ormai sia lo Stato
ufficiale ad essere, a vivacchiare, nello Stato reale e non viceversa, come si
diceva un tempo, perché lo Stato 'dranghetista-mafioso, un tempo detto
anti-Stato, è il naturale blocco e sbocco collaborativo di uno Stato che di
legale, di ufficiale non ha mai avuto l'ombra.
Come si fa, infatti, da parte del presunto
Stato ufficiale e da parte delle imprese manifatturiere, bancarie e
finanziarie, e dalle conseguenti tasse e spese statali, a rinunciare a 150 miliardi di proventi mafiosi, a 200
miliardi di evasione ed elusione fiscale, a 100 e oltre miliardi di lavoro in
nero e al mercato delle armi e di transazione commerciale di manufatti e
tecnologia e finanze con la droga, ai subappalti edilizi lucrosi, alle rimesse
degli emigranti, al lavoro lucroso degli immigrati, alla prostituzione, tutte
cose in mano pressocché allo Stato
real-mafioso? Sono almeno 1.000.000 di miliardi di vecchie lire, insomma! Che
promettono affari sempre più lucrosi! Se non ci si crede, basta guardare ai
grandi affari che lo Stato ufficiale va facendo nell'area mediterranea, ma da
cui il Meridione è tenuto accuratamente fuori, se non per la questioni
illegali.
Ogni
tanto lo Stato ufficiale interviene, sì (come pomposamente vanta Maroni), ma
per riequilibrare i rapporti tra Stato reale e Stato ufficiale (ossia, per
ri-appropriarsi, questo, della sua parte di proventi). Si volesse risolvere
davvero la situazione, bisognerebbe reinventare un modo nuovo di far politica
unitaria e inviare per qualche anno tutto l'esercito (altro che Afghanistan!)
in assetto di guerra e far amministrare prefetti e generali (sperando che non
colludano) insieme agli amministratori locali. Ma vai a dire queste cose ai
parlamentari, amministratori e imprenditor-finanzieri collusi o che lucrano
sullo status quo, nonché alle anime belle dei "sinceramente
democratici" del garantismo sinistrorso!
Dobbiamo
scrivere, scrive e scrivere noi, lasciando almeno un'eredità spendibile per le
nuove generazioni. E al diavolo i distinguo. È tutta l'Italia che vive
dall'Unità senza storia. Abbiamo distrutto tutta l'eredità urbana e ambientale,
che pur avevamo ed era faro per il mondo almeno dal Medioevo fino all' ' 800.
Non sappiamo ancora dire perché fu scelta quel tipo di Unità, quando
contemporaneamente, per fare un solo un esempio, la Germania poteva dar lezioni
di unità equilibrata e federale.
Non
sappiamo ancora definire il perché, se non in forma demagogico-ideologica,
proprio in Italia si ebbe il più forte partito comunista occidentale (nota bene
che le due maggiori personalità fondative, Bordiga e Gramsci, erano
meridionali), che non consentì la dialettica autentica di maggioranza e
opposizione da Livorno ad oggi. Non sappiamo davvero bene addossare al PSI le
colpe per l’avvento del Fascismo, avendo esso rifiutato per ben due volte
ufficialmente di far parte dei governi Giolitti. Non sappiamo ancora
riconoscere che nel secondo dopoguerra è nata una Repubblica fondata sull'
"Anti", antifascismo, anticomunismo, anti-DC, anti questo e anti
quello, e non una Repubblica in positivo, propositiva. Non vogliamo riconoscere
che, sempre nel secondo dopoguerra, continuò la politica antimeridionalista
dell'Unità. "Anti" anche lo Spirito di un popolo e la sua cultura,
che hanno finito con lo scadere nell'imitazione anglosassone e nel
provincialismo. Ma come, noi, "figli" di Dante, di Machiavelli, di
Michelangelo e di Caravaggio, di Leopardi e di Rosmini, di Giotto e dei grandi
architetti e urbanisti, della Scuola siciliana, per tacere di migliaia di altre
personalità e cose!!!
V
Via!
Non vi può essere riscatto dell'Italia se non vi è riscatto del Meridione.
Mentre Bossi e il Berlusca ritornano ad un federalismo di tipo Comunale e delle
Signorie, cioè quanto di più antitetico rispetto alla concezione di uno Stato
nazionale e perfino della globalizzazione, il Meridione non si pone questo
problema, gli è distante anni luce, ma non perché è corrotto e mira alle
sovvenzioni, ma perché ha nel DNA storico il senso dello Stato, avendo creato
il primo vero Stato moderno fin dai Normanni. E dallo Stato, e dalla nazione
(!), vorrebbe il riconoscimento di questa antica e positiva storia. Basta
pensare che dal Meridione furono arruolati, proprio per il loro alto e sentito
senso dello Stato, le burocrazie, i maestri, i dirigenti del dopo Unità.
Federalismi, sì, ma quello dell’ ‘800, perfino del Cavour del convegno di
Plombières, rivisitato magari secondo le teorie di un Albert Dicey e di un
James Bryce, o di un K.C. Wheare, o, se si vuole salire a livello filosofico,
di un Immanuel Kant. Certo non quello degli antichi Comuni e Signorie
propugnato da un Bossi qualsiasi e seguaci.
Come si
può constatare, la situazione odierna non è gran che cambiata. Come si può
cambiare con le mafie che penetrano violentemente dappertutto, e non basta,
come abbiamo cercato di illustrare, arrestare qualche vecchio boss e incamerare
10/15 miliardi di beni, bisognerebbe assolutamente intervenire, oltre che con
esercito e prefetti, sulle banche e sulle Borse, a livello internazionale,
sulla Banca d’Italia, con la finanza a tappeto, per sequestrare i miliardi
illegali. Come si può creare e costruire una classe dirigente, anche politica,
nuova se negli ultimi 10 anni almeno 700.000 giovani laureati e diplomati sono
emigrati, e nella devastazione attuale, se i politici e i partiti nazionali,
pieni di meridionali, non si danno da fare nel senso del rinnovamento qui
auspicato? Come si può allora far finta, insomma, che la “Questione
meridionale” ormai, essendo storicizzata, in effetti non esiste più, ma che,
addirittura!, esista una questione settentrionale? Insomma, dovremmo accettare
di essere “cornuti e mazziati”? Ma va là! Cialtroni, semmai, saranno Tremonti,
Bossi e chi li segue.
[15.09.2010]
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