Mercoledì 16 Marzo 2011
18:26
Scritto da Antonio Pagano
All'atto della proclamazione
del regno d'Italia vi sono rivolte in tutto il Sud contro gli occupanti
piemontesi. La notizia dei moti di Casalduni, dove in un combattimento contro
gli insorti muoiono 45 soldati piemontesi, arriva anche a San Lupo al liberale
Iacobelli. Costui, alla testa di duecento guardie nazionali bene armate, si
dirige verso la cittadina, ma accortosi che ogni strada è controllata dagli
insorti, devia verso Morcone. Da questo luogo, invia al Cialdini un dispaccio,
che in pratica decreta la fine di Pontelandolfo e Casalduni: «Eccellenza, Quarantacinque soldati, tra i
più valorosi figli d'Italia, il giorno 11 agosto 1861 furono trucidati in
Pontelandolfo. Arrivati sul luogo vennero tenuti a bada dai cittadini fino al
sopraggiungere dei briganti. Giunti costoro, i soldati avevano subito attaccato,
ma il popolo tutto accorse costringendoli a fuggire. Inseguiti si difesero
strenuamente, sempre combattendo, fino a ritirarsi nell'abitato di Casalduni
ove si arresero e passati per le armi. Invoco la magnanimità di sua eccellenza
affinché i due paesi citati soffrano un tremendo castigo che sia d'esempio alle
altre popolazioni del sud»
Il Cialdini ordina allora al
generale Maurizio De Sonnaz che di Pontelandolfo e Casalduni “non rimanesse pietra su pietra”. Costui,
il 13, col 18° reggimento bersaglieri, forma due colonne, una di 500 uomini al
comando del tenente colonnello Pier Eleonoro Negri, che si dirige verso
Pontelandolfo, l’altra di 400 al comando di un maggiore, Carlo Magno Melegari,
che si dirige verso Casalduni. Prima di entrare nei paesi, le colonne si
scontrano con una cinquantina d’insorti, che però sono costretti a fuggire nei
boschi dopo avere ucciso nel combattimento venticinque bersaglieri.
All'alba del 14,
Pontelandolfo è circondata. Dopo che un plotone, accompagnato dal De Marco, ha
contrassegnato le case dei liberali collaborazionisti da salvare, i bersaglieri
entrati in Pontelandolfo fucilano chiunque capiti a tiro: preti, uomini, donne,
bambini. Le case sono saccheggiate e tutto il paese dato alle fiamme e raso al
suolo. Tra gli assassini vi sono truppe ungheresi che compiono vere e proprie
atrocità. I morti sono oltre mille. Per fortuna alquanti abitanti sono riusciti
a scampare al massacro trovando rifugio nei boschi.
Nicola Biondi, contadino di
sessant’anni, è legato ad un palo della stalla da dieci bersaglieri. Costoro ne
denudano la figlia Concettina di sedici anni, e la violentano a turno. Dopo
un'ora la ragazza, sanguinante, sviene per la vergogna e per il dolore. Il
soldato piemontese che la stava violentando, indispettito nel vedere quel corpo
esanime, si alza e la uccide. Il padre della ragazza, che cerca di liberarsi
dalla fune che lo tiene legato al palo, è fucilato anche lui dai bersaglieri.
Le pallottole spezzano anche la fune e Nicola Biondi cade carponi accanto alla
figlia. Nella casa accanto, un certo Santopietro; con il figlio in braccio,
mentre scappa, è bloccato dai militari, che gli strappano il bambino dalle mani
e lo uccidono.
Il maggiore Rossi, con
coccarda azzurra al petto, è il più esagitato. Dà ordini, grida come un
ossesso, è talmente assetato di sangue che con la sciabola infilza ogni persona
che riesce a catturare, mentre i suoi sottoposti sparano su ogni cosa che si
muove. Uccisi i proprietari delle abitazioni, le saccheggiano: oro, argento,
soldi, catenine, bracciali, orecchini, oggetti di valore, orologi, pentole e
piatti.
Angiolo De Witt, del 36°
fanteria bersaglieri, così descrive quell'episodio: «… il maggiore Rossi ordinò ai suoi sottoposti l'incendio e lo sterminio
dell'intero paese. Allora fu fiera rappresaglia di sangue che si posò con tutti
i suoi orrori su quella colpevole popolazione. I diversi manipoli di
bersaglieri fecero a forza snidare dalle case gli impauriti reazionari del
giorno prima, e quando dei mucchi di quei cafoni erano costretti dalle
baionette a scendere per la via, ivi giunti, vi trovavano delle mezze squadre
di soldati che facevano una scarica a bruciapelo su di loro. Molti mordevano il
terreno, altri rimasero incolumi, i feriti rimanevano ivi abbandonati alla
ventura, ed i superstiti erano obbligati a prendere ogni specie di strame per
incendiare le loro catapecchie. Questa scena di terrore durò un'intera
giornata: il castigo fu tremendo…».
Due giovani, salvati dal De
Marco perché liberali, alla vista di tanta barbarie e tanto accanimento contro
i loro compaesani e la loro città, consultatisi col padre, si dirigono verso il
Negri. I due giovani avevano appreso le idee liberali frequentando circoli
culturali a Napoli, sognavano un'Italia una, libera, indipendente; sognavano la
fratellanza. A quelle scene di terrore e di orrore aprono però di colpo gli
occhi. Il più giovane dei due aveva finito da poco gli studi all'Università di
Napoli e si avviava all'avvocatura; il fratello maggiore era un buon
commerciante di Pontelandolfo. I due fratelli sono accompagnati dal De Marco
per protestare contro quel barbaro eccidio. Il Negri per tutta risposta dà
immediatamente ordine di fucilarli tutti. Dieci bersaglieri prendono i Rinaldi,
s’impossessano dei soldi che hanno nelle tasche e li portano nei pressi della
chiesa di San Donato. I due fratelli chiedono un prete per l'ultima
confessione, ma è loro negato. Sono bendati e fucilati. L'avvocato muore
subito, mentre il fratello, pur colpito da nove pallottole, è ancora vivo. Il
Negri lo finisce a colpi di baionetta.
Il saccheggio e l'eccidio
durano l'intera giornata del 14. Numerose donne sono violentate e poi uccise.
Alcune rifugiatesi nelle chiese sono denudate e trucidate davanti all'altare.
Una, oltre ad opporre resistenza, graffia a sangue il viso di un piemontese; le
sono mozzate entrambe le mani e poi è uccisa a fucilate. Tutte le chiese sono
profanate e spogliate. Le ostie sante sono calpestate. Le pissidi, i voti
d'argento, i calici, le statue, i quadri, i vasi preziosi e le tavolette
votive, rubati. Gli scampati al massacro, sono rastrellati e inviati a Cerreto
Sannita, dove circa la metà è fucilata.
A Casalduni la popolazione,
avvisata in tempo, fugge. Rimane in paese solo qualche malato, qualcuno che non
crede ad una dura repressione e qualche altro che pensa di farla franca
restando chiuso in casa. Alle quattro del mattino, il 18° battaglione,
comandato dal Melegari e guidato dal Jacobelli e da Tommaso Lucente di Sepino,
circonda il paese. Il Melegari, attenendosi agli ordini ricevuti dal generale
Piola-Caselli, dispone a schiera le quattro compagnie di cento militi ciascuna
e attacca baionetta in canna concentricamente. La prima casa ad essere bruciata
è quella del sindaco Ursini. Agli spari e alle grida, i pochi rimasti in paese
escono quasi nudi da casa, ma sono infilzati dalle baionette dei criminali
piemontesi. Messa a ferro e a fuoco Casalduni e sterminati tutti gli abitanti
trovati, il Melegari ordina al tenente Mancini di andare a Pontelandolfo per
ricevere istruzioni dal generale De Sonnaz. Dalle alture i popolani osservano
ciò che sta accadendo nei due paesi, ma sono impotenti di fronte a tanto
orrore.
A Pontelandolfo e a
Casalduni, i morti superano il migliaio, ma le cifre reali non sono mai svelate
dal governo. Il “Popolo d'Italia”,
giornale filogovernativo e quindi interessato a nascondere il più possibile la
verità, indica in 164 le vittime di quell'eccidio, destando l'indignazione
persino del giornale francese “La Patrie”
e dell’opinione pubblica europea. Dopo gli eccidi, Pier Eleonoro Negri aveva
telegrafato al governatore di Benevento, Gallarini: "Truppa Italiana Colonna Mobile - Fragneto Monforte lì 14 Agosto 1861
ore 7 a.m. Oggetto: Operazione contro i Briganti: Ieri mattina all'alba
giustizia fu fatta contro Pontelandolfo e Casalduni. Essi bruciano ancora. Il
sergente del 36° Reggimento, il solo salvo dei 40, è con noi. Divido oggi le
mie truppe in due colonne mobili; l'una da me diretta agirà nella parte Nord ed
Est, l'altra sotto gli ordini del maggiore Gorini all'Ovest a Sud di questa
Provincia. Il Luogotenente Colonnello Comandante la Colonna; firmato Negri.".
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