Il 10
luglio del 2011, «La Gazzetta» pubblicava un articolo diffondendo la notizia
che nel Materano, nella piccola cittadina ionica di Nova Siri, era morto a
novantasette anni zio Ciccio (Francesco Corrado), l’ultimo banditore. Anche a
Bari, «u bannetòre» (il banditore) aveva notevole «diritto di cittadinanza». Il
linguista e demologo Alfredo Giovine, trattando più volte codesta figura
mitica, ha raccontato con peculiarità questo agente pubblicitario degli strati
popolari.
Di alcuni di loro vi sono documentazioni storiche negli archivi di San
Nicola, come «Noffre u cìiche» o «Noffre u cecàte» (Onofrio il cieco) il quale,
nella prima metà dell’Ottocento ha svolto le mansioni sia da banditore, sia da
tiramantici dell’organo della Real Basilica di San Nicola accompagnato da un
ragazzo che gli faceva da guida. Del secondo banditore «Giàgheme u tèrte»
(Giacomo lo storpio), si sa poco e niente, ma è realmente vissuto e lo abbiamo
saputo, grazie al poeta dialettale Davide Lopez (1867-1953) in un suo
componimento storico «U colère de Vare du 1886» (Il colera di Bari del 1886):
«Acchie de fronde / Giàgheme u tèrte / Ca scève danne / U-allèrte-allèrte. /
Tutt’ècchie e rrècchie / La gènde stève / Sendènne u bbanne / Ciò cca decève /
Bumm, bumm, bumm… / Bumm, bumm, bumm… / Pabbre, gaddìne, / Vicce e palùmme, / E
ttutte chèdde / Ca dà fetòre / S’av’a levà / Iìnd’a do iòre».
Fra i tanti banditori che giravano
per la città, «Maurùcce» fu colui, che rimase impresso nella memoria di molti
baresi del primo Ventennio del secolo scorso, per essere stato una vera
macchietta popolare. Egli aveva uno spiccato senso dell’umorismo, il lazzo, le
sue bizzarrie e le improvvisazioni condite spesse volte con sagacità, riusciva
a far colpo sull’uditorio formato in prevalenza da donne del popolo e da
ragazzi, mentre gli uomini di mezza età si tenevano un po’ fuori del campo
visivo e verbale del banditore per evitare di essere presi di mira dalla sua
lingua biforcuta. «Maurùcce» non era soltanto il banditore che esaltava la
qualità della merce di un vinaio o annunciava l’apertura di una «pettè»
(bottega), oppure lo smarrimento di un bambino; egli rappresentava l’attore che
seduta stante dava corso a un monologo o a un dialogo con il quale trasformava
la strada in palcoscenico. Annunciava la sua presenza con sonore scampanellate
e, il suo eloquio, era il dialetto condito con frasi e detti gergali a effetto:
«Dlìn, dlìn, dlìn… Uè le fèmmene, assit’e sendìte.
E ppure le seggnùre du prime, du
secònde e du tèrze piàne. Screzzeuàdeve l’ècchie e sfelgìdeve le rècchie do
pedresìne ca tenìte e sendìte. Prime de scì appendà le pecenìnne a la scole
l’avit’a pertà o corpe de uàrdie pe le nzite» (Dlìn, dlìn, dlìn… A voi donne,
uscite e sentite. Mi rivolgo anche ai signori che abitano al primo, secondo e terzo
piano. Stropicciatevi gli occhi e sturatevi le orecchie dal cerume e sentite.
Prima di andare a iscrivere i ragazzi a scuola dovete prima sottoporli alla
vaccinazione antivaiolosa). Poteva rivolgersi anche alle comari uscite «da le
settan’a strate» (bassi che dànno sulla via) o “da le settan’a la preppedàgne”
(locale con muro a un sol filo di tufo)… «Uè le fèmmene s’ha perdùte nu
pecenìnne de trè iànne, ca la mamme u vol’acchiànne. Ci-è ca u-av’acchiàte, o
corpe de uàrdie u pertàsse e iìnd’a l’armàdie non z’u-astepàsse» e veniva fuori
una popolana che lo aveva «trovato» e tenuto in custodia in attesa che qualcuno
ne avesse chiesto notizie.
Oltre, al compito di divulgare le
disposizioni di vari enti, «Maurùcce» principalmente reclamizzava l’arrivo di una
partita di vino buono «che le condramestàzze» (con gradazione alcolica
“esplosiva”) ossia «mìire tèste» (vino di qualità) da sfidare il giudizio degli
adoratori «du triùsche» (vino nostrano). «Dlìn, dlìn, dlìn, e ppòdene sendì
pure, parànghe respètte (parlando con rispetto) le scarpàre (calzolai)», se
vedeva qualcuno fra gli ascoltatori beccandolo con la seguente frase: «U
scarpàre malpiòne / Fasce le scarpe de cartòne / La seggnùre no nge bbate /
Pèrde u tacche pe la strate» (Il calzolaio furbacchione / Fa le scarpe di
cartone / La signora non ci bada / Perde il tacco per la strada).
«Scarpàre» poteva essere
sostituito con un altro nome di artigiano dalla cui citazione era certo poter
trarre motivo di riso. Notava il viso ironico di un barbiere? Ebbene, lo
fucilava con finta indifferenza usando per cartucce le parole: «Ce va n-gase de
varvìire / Nonn-acchie lusce, nè cannelìire» (Se vai in casa di barbieri / Non
ci sono luci, né candelieri). Alla risata generale si accompagnava quella di un
falegname presente? Anche per lui era pronta una saettata: «U mèste d’assce /
Fasce crusce / E ammèn’abbàssce» (Il falegname/ Si fa i segni di croce / E
manda giù - e niente pane -), in pratica: si raccomanda a Dio per poter avere
qualcosa da mettere sotto i denti. Non risparmiava neanche un fornaio con la
tavola del pane sulla testa; non se lo faceva sfuggire bollandolo con la nota
sentenza: «A PPasque e a Natàle / S’arrecchèsscene le fernàre / Passàte ca sò
le fìiste / Vonne cercànne terrìse m-bbrìiste» (A Pasqua e a Natale, / Si
arricchiscono i fornai. / Passate le feste, / Vanno cercando soldi in
prestito). Peggio se notava le ragazze «vacandìne» (nubili). Rivolgendosi prima
con un buffo inchino esplodeva: «Le uaggnèdde d’agguànne, / Sò ttutte gross’e
granne / Se volne maredà / E mmanghe u lìitte sàbbene fà» (Le ragazze d’oggidì,
/ Sono tutte alte e grosse. / Si vogliono maritare, / E neanche il letto sanno
fare). Una di queste, la più disinvolta, gli chiedeva se potesse «trovarle» un
buon partito poiché lui «trovava» i bambini smarriti. «Maurùcce» con prontezza
rispondeva con un dialetto ricco di vocaboli che colpivano nel segno,
specialmente se aveva notato la ragazza con seno prosperoso. «Ah! Nènna Nènne,
/ Trènda chile nu pare de mènne. / Ce iè ca t’ha da spesà, / Chèdde iè la dote
ca da pertà» (Ah! Nenna Nenna, / Trenta chili un paio di mammelle. / Se ti
dovrai sposare, / Quella è la dote che dovrai portare). Al che un’arzilla
vecchietta lo poteva pungere verbalmente: «Maurùcce, Maurùcce, cerveddìne com’o
ciùcce» (Mauruccio, Mauruccio, intelligente come l’asino). Prontamente le
rispondeva con un noto epigramma: «Quanne la fèmmene ha ffatte vècchie /
Aumènde la lèngue e ppèrde la rècchie. / E che la calzètta m-mane, / Va facènne
la reffiàne» (Quando la donna è diventata vecchia / Allunga la lingua e perde
l’udito. / E con la calza in mano, / Va facendo la ruffiana). La vecchietta
risentita si licenziava rimproverandolo: «Sèmme la cap’a la sciòggue tìine»
(Sempre la testa fresca hai).
Lui, con fare di uno che la sapeva
lunga, insisteva usando la lametta verbale: «Ah! Iànna Iànne, / Come tìine u
pabbrasciànne? / U pabbrasciànne tù, / Ha ffatte vècchie e nno mmale cchiù»
(Ah! Anna Anna, / In che stato è il tuo «Papero-Gianni»? (intraducibile), / Il
«Papero-Gianni» tuo, / È diventato vecchio e non serve più). Non sempre però
riusciva a trovare pronta la battuta, soprattutto, quando era colto alla
sprovvista da qualcuno che gli faceva concorrenza in materia di sarcasmo.
Mentre s’impegnava a decantare le virtù di un tipo di merce, partiva al suo
indirizzo una pernacchia disarmante, secca, sonora, veloce come una saetta.
Tutti trasalivano e sbottavano a ridere, ma «Maurùcce» senza scomporsi
rispondeva: «Tìnue apìirte, ca mò vènghe» (…).
E quando non poteva «fulminare»
l’intruso di turno, per non perdere la faccia si licenziava con l’abituale
battuta: «A cci me sènde e a cci m’acchiamènde e a cci fasce finde de non
acchiamendà e de non zendì… Nah!», susseguiva un cenno ingiurioso con il dito
medio di una mano piegando gli altri, oppure facendo le corna e si allontanava
seguito da una coda sghignazzante di popolani che cercavano di non perdere il
seguente spettacolo che certamente “Maurùcce”, avrebbe dato poco distante dal
posto in cui aveva tenuto precedentemente. Col passare degli anni si fece
vedere più raramente, i suoi frizzi avevano perduto l’abituale mordente, ma
ormai viveva con la rendita della sua fama.
Era un «nobile» decaduto e in
breve tempo scomparve in silenzio dalla scena caratteristica della vecchia
Bari. Sempre nei particolari racconti di Alfredo Giovine, l’ultima di queste
figure caratteristiche fu «Pasckàle u nabeldàne» (Pasquale il napoletano)
trapiantato a Bari, di stanza fissa dirimpetto alla chiesa San Ferdinando e
precisamente su tratto prospiciente il negozio di abbigliamento per bambini
«Simone» in Via Sparano. Con il campanello sotto un braccio andava su e giù per
il marciapiede. In effetti, fu nello stesso tempo banditore e imbonitore. Aveva
la musicale parlantina suadente alla napoletana, intrattenendo con «galateo»
popolano i passanti ai quali poter decantare le merci dei negozi dei quali i
proprietari, gli raccomandavano di fare «la rottùre» (l’apertura, la propaganda
per favorire la vendita della merce).
Ed egli attendeva «u u-acìidde de
scèse, chidde c’asscennèvene da la mendàgne o le paisàne» (forestieri) che
arrivavano dalla provincia. Riusciva ad attirare parecchi acquirenti e a essere
simpatico per alcuni frizzi bonari. In seguito, il deciso ridursi
dell’analfabetismo, il rapido sviluppo del cinema, il propagarsi della stampa,
l’avvento della radio, della televisione e il progresso della tecnica,
spazzarono definitivamente questi «mezzi» sorpassati, anche se cari dal lato
romantico e nostalgico di una Bari che fu.
*Centro
Studi “Don Dialetto” - Bari
30
Agosto 2013
http://www.lagazzettadelmezzogiorno.it/bari-quando-l-informazione-era-affidata-al-banditore-no648864
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