venerdì 30 agosto 2013

Bari, quando l'informazione era affidata... al banditore

Gigi De Santis*
Il 10 luglio del 2011, «La Gazzetta» pubblicava un articolo diffondendo la notizia che nel Materano, nella piccola cittadina ionica di Nova Siri, era morto a novantasette anni zio Ciccio (Francesco Corrado), l’ultimo banditore. Anche a Bari, «u bannetòre» (il banditore) aveva notevole «diritto di cittadinanza». Il linguista e demologo Alfredo Giovine, trattando più volte codesta figura mitica, ha raccontato con peculiarità questo agente pubblicitario degli strati popolari.


Di alcuni di loro vi sono documentazioni storiche negli archivi di San Nicola, come «Noffre u cìiche» o «Noffre u cecàte» (Onofrio il cieco) il quale, nella prima metà dell’Ottocento ha svolto le mansioni sia da banditore, sia da tiramantici dell’organo della Real Basilica di San Nicola accompagnato da un ragazzo che gli faceva da guida. Del secondo banditore «Giàgheme u tèrte» (Giacomo lo storpio), si sa poco e niente, ma è realmente vissuto e lo abbiamo saputo, grazie al poeta dialettale Davide Lopez (1867-1953) in un suo componimento storico «U colère de Vare du 1886» (Il colera di Bari del 1886): «Acchie de fronde / Giàgheme u tèrte / Ca scève danne / U-allèrte-allèrte. / Tutt’ècchie e rrècchie / La gènde stève / Sendènne u bbanne / Ciò cca decève / Bumm, bumm, bumm… / Bumm, bumm, bumm… / Pabbre, gaddìne, / Vicce e palùmme, / E ttutte chèdde / Ca dà fetòre / S’av’a levà / Iìnd’a do iòre».

 Fra i tanti banditori che giravano per la città, «Maurùcce» fu colui, che rimase impresso nella memoria di molti baresi del primo Ventennio del secolo scorso, per essere stato una vera macchietta popolare. Egli aveva uno spiccato senso dell’umorismo, il lazzo, le sue bizzarrie e le improvvisazioni condite spesse volte con sagacità, riusciva a far colpo sull’uditorio formato in prevalenza da donne del popolo e da ragazzi, mentre gli uomini di mezza età si tenevano un po’ fuori del campo visivo e verbale del banditore per evitare di essere presi di mira dalla sua lingua biforcuta. «Maurùcce» non era soltanto il banditore che esaltava la qualità della merce di un vinaio o annunciava l’apertura di una «pettè» (bottega), oppure lo smarrimento di un bambino; egli rappresentava l’attore che seduta stante dava corso a un monologo o a un dialogo con il quale trasformava la strada in palcoscenico. Annunciava la sua presenza con sonore scampanellate e, il suo eloquio, era il dialetto condito con frasi e detti gergali a effetto: «Dlìn, dlìn, dlìn… Uè le fèmmene, assit’e sendìte.

 E ppure le seggnùre du prime, du secònde e du tèrze piàne. Screzzeuàdeve l’ècchie e sfelgìdeve le rècchie do pedresìne ca tenìte e sendìte. Prime de scì appendà le pecenìnne a la scole l’avit’a pertà o corpe de uàrdie pe le nzite» (Dlìn, dlìn, dlìn… A voi donne, uscite e sentite. Mi rivolgo anche ai signori che abitano al primo, secondo e terzo piano. Stropicciatevi gli occhi e sturatevi le orecchie dal cerume e sentite. Prima di andare a iscrivere i ragazzi a scuola dovete prima sottoporli alla vaccinazione antivaiolosa). Poteva rivolgersi anche alle comari uscite «da le settan’a strate» (bassi che dànno sulla via) o “da le settan’a la preppedàgne” (locale con muro a un sol filo di tufo)… «Uè le fèmmene s’ha perdùte nu pecenìnne de trè iànne, ca la mamme u vol’acchiànne. Ci-è ca u-av’acchiàte, o corpe de uàrdie u pertàsse e iìnd’a l’armàdie non z’u-astepàsse» e veniva fuori una popolana che lo aveva «trovato» e tenuto in custodia in attesa che qualcuno ne avesse chiesto notizie.

 Oltre, al compito di divulgare le disposizioni di vari enti, «Maurùcce» principalmente reclamizzava l’arrivo di una partita di vino buono «che le condramestàzze» (con gradazione alcolica “esplosiva”) ossia «mìire tèste» (vino di qualità) da sfidare il giudizio degli adoratori «du triùsche» (vino nostrano). «Dlìn, dlìn, dlìn, e ppòdene sendì pure, parànghe respètte (parlando con rispetto) le scarpàre (calzolai)», se vedeva qualcuno fra gli ascoltatori beccandolo con la seguente frase: «U scarpàre malpiòne / Fasce le scarpe de cartòne / La seggnùre no nge bbate / Pèrde u tacche pe la strate» (Il calzolaio furbacchione / Fa le scarpe di cartone / La signora non ci bada / Perde il tacco per la strada).

 «Scarpàre» poteva essere sostituito con un altro nome di artigiano dalla cui citazione era certo poter trarre motivo di riso. Notava il viso ironico di un barbiere? Ebbene, lo fucilava con finta indifferenza usando per cartucce le parole: «Ce va n-gase de varvìire / Nonn-acchie lusce, nè cannelìire» (Se vai in casa di barbieri / Non ci sono luci, né candelieri). Alla risata generale si accompagnava quella di un falegname presente? Anche per lui era pronta una saettata: «U mèste d’assce / Fasce crusce / E ammèn’abbàssce» (Il falegname/ Si fa i segni di croce / E manda giù - e niente pane -), in pratica: si raccomanda a Dio per poter avere qualcosa da mettere sotto i denti. Non risparmiava neanche un fornaio con la tavola del pane sulla testa; non se lo faceva sfuggire bollandolo con la nota sentenza: «A PPasque e a Natàle / S’arrecchèsscene le fernàre / Passàte ca sò le fìiste / Vonne cercànne terrìse m-bbrìiste» (A Pasqua e a Natale, / Si arricchiscono i fornai. / Passate le feste, / Vanno cercando soldi in prestito). Peggio se notava le ragazze «vacandìne» (nubili). Rivolgendosi prima con un buffo inchino esplodeva: «Le uaggnèdde d’agguànne, / Sò ttutte gross’e granne / Se volne maredà / E mmanghe u lìitte sàbbene fà» (Le ragazze d’oggidì, / Sono tutte alte e grosse. / Si vogliono maritare, / E neanche il letto sanno fare). Una di queste, la più disinvolta, gli chiedeva se potesse «trovarle» un buon partito poiché lui «trovava» i bambini smarriti. «Maurùcce» con prontezza rispondeva con un dialetto ricco di vocaboli che colpivano nel segno, specialmente se aveva notato la ragazza con seno prosperoso. «Ah! Nènna Nènne, / Trènda chile nu pare de mènne. / Ce iè ca t’ha da spesà, / Chèdde iè la dote ca da pertà» (Ah! Nenna Nenna, / Trenta chili un paio di mammelle. / Se ti dovrai sposare, / Quella è la dote che dovrai portare). Al che un’arzilla vecchietta lo poteva pungere verbalmente: «Maurùcce, Maurùcce, cerveddìne com’o ciùcce» (Mauruccio, Mauruccio, intelligente come l’asino). Prontamente le rispondeva con un noto epigramma: «Quanne la fèmmene ha ffatte vècchie / Aumènde la lèngue e ppèrde la rècchie. / E che la calzètta m-mane, / Va facènne la reffiàne» (Quando la donna è diventata vecchia / Allunga la lingua e perde l’udito. / E con la calza in mano, / Va facendo la ruffiana). La vecchietta risentita si licenziava rimproverandolo: «Sèmme la cap’a la sciòggue tìine» (Sempre la testa fresca hai).

 Lui, con fare di uno che la sapeva lunga, insisteva usando la lametta verbale: «Ah! Iànna Iànne, / Come tìine u pabbrasciànne? / U pabbrasciànne tù, / Ha ffatte vècchie e nno mmale cchiù» (Ah! Anna Anna, / In che stato è il tuo «Papero-Gianni»? (intraducibile), / Il «Papero-Gianni» tuo, / È diventato vecchio e non serve più). Non sempre però riusciva a trovare pronta la battuta, soprattutto, quando era colto alla sprovvista da qualcuno che gli faceva concorrenza in materia di sarcasmo. Mentre s’impegnava a decantare le virtù di un tipo di merce, partiva al suo indirizzo una pernacchia disarmante, secca, sonora, veloce come una saetta. Tutti trasalivano e sbottavano a ridere, ma «Maurùcce» senza scomporsi rispondeva: «Tìnue apìirte, ca mò vènghe» (…).

 E quando non poteva «fulminare» l’intruso di turno, per non perdere la faccia si licenziava con l’abituale battuta: «A cci me sènde e a cci m’acchiamènde e a cci fasce finde de non acchiamendà e de non zendì… Nah!», susseguiva un cenno ingiurioso con il dito medio di una mano piegando gli altri, oppure facendo le corna e si allontanava seguito da una coda sghignazzante di popolani che cercavano di non perdere il seguente spettacolo che certamente “Maurùcce”, avrebbe dato poco distante dal posto in cui aveva tenuto precedentemente. Col passare degli anni si fece vedere più raramente, i suoi frizzi avevano perduto l’abituale mordente, ma ormai viveva con la rendita della sua fama.

 Era un «nobile» decaduto e in breve tempo scomparve in silenzio dalla scena caratteristica della vecchia Bari. Sempre nei particolari racconti di Alfredo Giovine, l’ultima di queste figure caratteristiche fu «Pasckàle u nabeldàne» (Pasquale il napoletano) trapiantato a Bari, di stanza fissa dirimpetto alla chiesa San Ferdinando e precisamente su tratto prospiciente il negozio di abbigliamento per bambini «Simone» in Via Sparano. Con il campanello sotto un braccio andava su e giù per il marciapiede. In effetti, fu nello stesso tempo banditore e imbonitore. Aveva la musicale parlantina suadente alla napoletana, intrattenendo con «galateo» popolano i passanti ai quali poter decantare le merci dei negozi dei quali i proprietari, gli raccomandavano di fare «la rottùre» (l’apertura, la propaganda per favorire la vendita della merce).

 Ed egli attendeva «u u-acìidde de scèse, chidde c’asscennèvene da la mendàgne o le paisàne» (forestieri) che arrivavano dalla provincia. Riusciva ad attirare parecchi acquirenti e a essere simpatico per alcuni frizzi bonari. In seguito, il deciso ridursi dell’analfabetismo, il rapido sviluppo del cinema, il propagarsi della stampa, l’avvento della radio, della televisione e il progresso della tecnica, spazzarono definitivamente questi «mezzi» sorpassati, anche se cari dal lato romantico e nostalgico di una Bari che fu.

*Centro Studi “Don Dialetto” - Bari
30 Agosto 2013



Nessun commento: