venerdì 18 marzo 2011

Federali-Sera. 18 marzo 2011. Tutti vogliono distinguersi dai leghisti. Sui balconi delle case sbocciano i tricolori e alle edicole gli statali in pensione che leggono Repubblica e il Fatto quotidiano guardano storto chiunque compri il giornale sbagliato (sono profondamente sbagliati tutti i giornali sconsigliati da Roberto Saviano) e non porti all'occhiello una spilletta tricolore e neppure partecipi alle risse per procurarsi una delle bandiere allegate alla Stampa di Torino. La giornata di ieri ha aiutato gli italiani a conoscere meglio se stessi. Il Grano duro e il pomodoro sono saliti dal sud al nord Italia come Garibaldi. Sarebbe bene che tutti ne fossero convinti. Applausi. Sopra tutti un tripudio di gigantesche bandiere tricolori.

Quarta Elementare, forse Quinta:
17 marzo 2011: il messaggio del presidente Berlusconi.
Un nuovo patriottismo per ridare l'Italia agli italiani.
Per il 45% degli italiani la pasta al sugo è il nostro simbolo
Unità d'Italia, la Lega si sfila: solo in sei in Aula per Napolitano
San Lorenzo (Rc): il 1° comune dello stivale a proclamare l'Unità d'Italia
Bossi vuol festeggiare il cinquantenario della Padania
L'Italia resta un paese minorenne, nonostante la sua età.
Il passato si è preso il presente.
Il Carroccio disunito.

Landeshauptmann Luis:
Bozen. Sexgate bolzanino: «Pronta a costituirmi e a raccontare tutto».
Bozen. Alto Adige, niente inno di Mameli prima della partita: multato il presidente del Naturno.
Trento. Poveri aumentati del 4%. A Pergine ricchezza al top.
Belluno. Lega e Pdl d’accordo: «Italia unita e federale».
Belluno. Alpini del 7° Reggimento: la comunità bellunese abbraccia i suoi eroi.
Udin. Unità d’Italia, i padani a Coseano per ricordare il no al plebiscito

Padani gialli:
Venetia. L'avanzata dei cinesi nel cuore di Venezia.



17 marzo 2011: il messaggio del presidente Berlusconi. 18 Marzo 2011. "Senza la memoria del nostro passato, della nostra storia, della nostra cultura, senza la memoria delle vicende storiche che hanno portato all'unità d'Italia, saremmo tutti più deboli, poveri e soli di fronte al futuro". Il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi - nel messaggio inviato alla vigilia dell'anniversario dell'Unità d'Italia - ha sottolineato che "la nostra storia è unica perché da un lato, dall'antica Roma, dal cristianesimo, fino al Rinascimento e all'umanesimo, la nostra storia è una storia dai significati e dagli influssi universali, e dall'altro lato, la caratteristica del nostro Paese è di avere storie diverse, tradizioni diversificate e multiformi". Ed è "questa ricchezza incredibile di storie, che hanno prodotto il patrimonio culturale e artistico per cui siamo ammirati nel mondo, e che hanno reso grande l'Italia".
Abbiamo le qualità e le risorse - continua il messaggio - che ci fanno guardare con fiducia al futuro. Siamo legati da indissolubili vincoli di storia, di tradizioni e di lingua. Siamo accomunati dai valori della democrazia e della libertà.
Infine, conclude nel messaggio il premier "siamo orgogliosi di essere italiani ed abbiamo deciso di proclamare Festa nazionale il 17 marzo del 2011, in concomitanza con il 150° anniversario dell'unità d'Italia".

Un nuovo patriottismo per ridare l'Italia agli italiani. di Stefano Folli. La giornata di ieri ha aiutato gli italiani a conoscere meglio se stessi. Li ha incoraggiati a riscoprire un po' di orgoglio nazionale, che vuol dire fiducia nelle proprie capacità, ottimismo sul futuro e rinuncia a quel tratto di autolesionismo che tende spesso ad affiorare nel carattere collettivo. Se questo risultato è stato ottenuto, lo si deve allo spirito con cui si sono celebrati i 150 anni dell'Unità. Cento anni fa (1911) e cinquant'anni fa (1961) era tutto più facile: in entrambi i casi la nazione era al culmine di una stagione di espansione economica, sullo sfondo di una crescente presenza internazionale. Era più semplice allora rispecchiarsi nel passato e credere nel futuro.

Oggi guardare al Risorgimento come «fonte dell'orgoglio nazionale» e quindi di una salda identità storica - parole di Giorgio Napolitano - richiede molta tenacia e una più salda passione civile.

Ecco perché la giornata poteva sfociare in un fallimento, o per meglio dire in una serie di cerimonie prive di anima; come tali incapaci di toccare i sentimenti popolari, ma solo di riflettere la realtà di un paese sfilacciato e distratto. Il rischio c'era e l'atteggiamento insofferente di alcuni ambienti leghisti verso i simboli dell'Unità (l'inno di Mameli, il Tricolore) ne era la conferma. Viceversa, una volta tanto siamo stati illuminati da una sorpresa positiva. Le città si sono riempite di cittadini partecipi e festanti, la notte tra il 16 e il 17 è stata memorabile e si è visto che il sentimento nazionale è più diffuso e meno superficiale di quanto talvolta si creda.

Di chi è il merito? Senza dubbio della lunga seminagione a cui si sono dedicati gli ultimi due presidenti della Repubblica. Carlo Azeglio Ciampi fece della riscoperta del «patriottismo repubblicano» la missione del suo settennato. Giorgio Napolitano si batte ogni giorno per inserire la prospettiva federalista dentro la cornice di una solida coesione nazionale, così da renderla fattore di dinamismo e di vitalità per l'intero paese. Entrambi nel corso degli anni hanno fatto più volte riferimento a Giuseppe Mazzini, a quelle tre parole («l'Italia è una») che spezzano sul nascere qualsiasi velleità secessionistica e ogni grottesco revisionismo anti-unitario.

Ma se parliamo di meriti, bisogna riconoscerne uno speciale all'attuale capo dello Stato: aver voluto le celebrazioni dei 150 anni in questa forma e con questa scansione. In primo luogo, l'omaggio senza precedenti reso al Pantheon da un presidente della Repubblica alla tomba del primo re d'Italia; poi il ricordo della Repubblica Romana al Gianicolo.

E mai c'era stato tanto slancio da parte delle istituzioni davanti a quei giovani martiri e alla loro straordinaria quanto effimera Costituzione (oggi scolpita nella pietra a poche decine di metri dal monumento a Garibaldi). Infine l'ottimo discorso di Montecitorio di fronte alle Camere riunite. Napolitano ha saputo legare questi tre momenti come altrettanti passaggi di un percorso storico e anche morale volto a ribadire le ragioni della coesione nazionale. Una coesione che è premessa di sviluppo («senza unità saremmo spazzati via») e alveo irrinunciabile per accogliere la nuova Repubblica delle autonomie che si va delineando. E il cui orizzonte coincide con l'Europa integrata, secondo il grande sogno risorgimentale sopravvissuto al secolo dei nazionalismi.
Rispetto a questo scenario, il partito di Bossi ha voluto distinguersi in modo tanto netto quanto goffo. Solo cinque parlamentari leghisti presenti alla Camera (i ministri Bossi, Calderoli, Maroni, un sottosegretario e un deputato), oltre alle piccole provocazioni messe in atto al Nord. L'obiettivo evidente era sottolineare che la Lega è "un'altra cosa" rispetto alla corsa di tutti gli altri a stringersi in un abbraccio retorico. Ma per una volta il Carroccio ha sbagliato i conti. Primo, perché lo schema offerto da Napolitano (unità nazionale più forte per un federalismo pienamente realizzato) è il più adatto a stimolare le ambizioni di Bossi. Non capirlo, o forse non riuscire a superare le resistenze e i pregiudizi di una base irrequieta, consegna la Lega alla prospettiva di un federalismo provinciale e di corto respiro. Può darsi che questo atteggiamento serva a prendere qualche voto in più alle prossime amministrative, ma di sicuro impoverisce il respiro strategico del movimento e ne mette in luce il malessere di fondo.

L'altro episodio-chiave della giornata sono stati i fischi al presidente del Consiglio, che lo hanno obbligato, fra l'altro, a uscire da una porta secondaria al termine della messa officiata dal cardinal Bagnasco in Santa Maria degli Angeli. È chiaro che un uomo politico è sempre esposto a tali rischi. Tuttavia colpiva la contraddizione tra gli applausi tributati a Napolitano nelle varie tappe cittadine (e a Ciampi, all'ingresso in Parlamento) e i borbottii riservati al premier. Qualcuno vi legge un risentimento per il "caso Ruby" e le pesanti imputazioni dell'inchiesta di Milano. Può darsi. Ma l'impressione in questo caso è un'altra. La giornata di ieri ha visto il presidente della Repubblica parlare a nome della nazione come garante dell'unità. È il suo ruolo, si dirà. Certo, tuttavia era fin troppo chiara la distanza fra lo spirito nazionale incarnato dal Quirinale e un potere esecutivo defilato sullo sfondo, prigioniero delle sue incertezze: prima fra tutte l'incapacità, o la non volontà, di impedire a un partito alleato, qual è la Lega, di assumere iniziative che intendono svilire il concetto stesso di patria.

Siamo una nazione in cui l'unità non è pienamente compiuta. In cui c'è tanto da fare per ricostruire un tessuto civile, ridurre le distanze fra Nord e Sud, rafforzare l'etica pubblica. Ma questo grande compito, che significa anche individuare e attuare con coraggio e fantasia nuove sintesi nazionali, non sempre è svolto dal governo con la necessaria tempestività. Che un importante partito come la Lega si consideri rappresentante di un segmento del territorio italiano, sia pure il segmento più ricco e produttivo, è pericoloso, o almeno ambiguo. Ed è ancora più pericoloso dare l'idea che di fronte a questo andazzo ci sia quasi rassegnazione, nel timore di veder messo in crisi l'esecutivo.

Questo spiega forse il perché di quei fischi. Il Centocinquantenario dovrebbe invece insegnare a tutti, alla maggioranza come all'opposizione, che la coesione è un bene troppo prezioso per sacrificarlo al piccolo cabotaggio quotidiano. Il Risorgimento non è un evento stucchevole da celebrare una volta ogni cinquant'anni magari pensando ad altro. È parte di un passato che interpella le classi dirigenti e le richiama al loro dovere verso l'Italia unita. Sarebbe bene che tutti ne fossero convinti.
18 marzo 2011

Per il 45% degli italiani la pasta al sugo è il nostro simbolo
Coldiretti: «Il Grano duro e il pomodoro sono saliti dal sud al nord Italia come Garibaldi»
Fonte: © COLDIRETTI.it - Pubblicata il 17/03/2011
ROMA - Per quasi la metà degli italiani (45 per cento) la pasta al sugo di pomodoro è il simbolo culinario dell’Unità d’Italia che accumuna gli italiani a tavola del sud, del centro e del nord. Ben 9,8 milioni consumano infatti pasta tutti i giorni a pranzo. E’ quanto emerge da un sondaggio condotto sul sito www.coldiretti.it divulgato nell’ambito dei festeggiamenti per il 150 anni dell’Unità di Italia per evidenziare il contributo che hanno dato l’agricoltura e la cucina alla crescita di una identità comune diventando simbolo e traino del Made in Italy nel mondo. La pasta al pomodoro batte di poco la pizza che - sottolinea la Coldiretti - raggiunge il 39 per cento delle preferenze mentre percentuali residuali raggiungono altri cibi che si sono affermati nella tradizione culinaria Made in Italy come il gelato, la bruschetta con l’olio extravergine d’oliva e il minestrone di verdure che non superano la soglia del 3 per cento e l’insalata caprese con appena l’uno per cento.

Il legame storico della pizza con l’Unità d’Italia – ricorda la Coldiretti - è rimasto - nel nome della sua preparazione più classica e nota nel mondo, quella «Margherita» che venne così chiamata dal pizzaiolo partenopeo Raffaele Esposito che dedicò alla Regina d’Italia in visita a Napoli nel 1889 la pizza dai colori dell’italico vessillo, fatta con la classica base di acqua e farina, con il pomodoro, la mozzarella, la fragranza del basilico e un filo d'olio. Senza entrare nell’annosa questione se gli spaghetti siano originari della Cina o del nostro Paese, la realtà è che il consumo della pasta si è sviluppato in Italia proprio a cavallo dell’unità d’Italia, quando si è registrata una impennata in tutte le regioni anche grazie al salto di qualità fatto da mugnai e negozianti che hanno allargato i loro orizzonti e sono passati dal locale al regionale e al nazionale. Va dal 1824 al 1886, infatti, la nascita dei più prestigiosi marchi pastai italiani con i primi stabilimenti che sono sorti a macchia di leopardo percorrendo tutta l’Italia: da Imperia, a Parma, a Fara San Martino (Abruzzo) a Gragnano (Napoli). Ma la scelta del piatto simbolo dell’Unità d’Italia è anche giustificata dai suoi ingredienti principali quali il grano duro e il pomodoro che hanno risalito l’Italia come Garibaldi e oggi sono quasi equamente coltivati nelle campagne del centro nord e del sud Italia. Il 41 per cento della produzione di grano italiano per la pasta è coltivato – conclude la Coldiretti - al centro nord mentre il 59 nel sud Italia mentre il 59 per cento del pomodoro da conserva e coltivato al centro nord ed il 41 per cento nel Mezzogiorno.

IL PIATTO PIÙ RAPPRESENTATIVO DELL’UNITA’ D’ITALIA
La pasta al pomodoro 45%
La pizza 39%
La bruschetta con l’olio d’oliva 3%
Il minestrone di verdure 3%
Il gelato 3%
L’insalata caprese 1%
Altro 6%
Fonte: Sondaggio www.coldiretti.it

Unità d'Italia, la Lega si sfila: solo in sei in Aula per Napolitano
Nessun battimani dal Carroccio al presidente della Repubblica, applaudito solo quando cita Benedetto XVI
Roma, 18 mar (Il Velino) - Applausi per Giorgio Napolitano, ma solo quando cita Benedetto XVI. Nel giorno delle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità, nonostante l’“attenzione” generale sulla sua condotta dopo gli annunci sull’intenzione di non festeggiare la ricorrenza, il Carroccio tira dritto, indifferente delle polemiche. E se a Milano il capogruppo in consiglio comunale mette la sua scrivania davanti a Palazzo Marino per dimostrare di essere al lavoro, alla Camera per il discorso del Capo dello Stato, la Lega si presenta in formazione estremamente ridotta, con appena sei parlamentari (quattro dei quali, peraltro, membri del governo): Umberto Bossi, Roberto Maroni, Roberto Calderoli, il sottosegretario all'Interno Michelino Davico, Sonia Viale (sottosegretario all'economia) e il deputato Sebastiano Fogliato. Dai membri del Carroccio nessun movimento di labbra al momento dell’Inno di Mameli, nessun applauso al presidente della Repubblica quando fa riferimento all’importanza della “Patria una”. Bossi si limita, in un paio di casi, a battere il pugno sul tavolo del governo, secondo sua abitudine, e neppure a fine del discorso di Napolitano si unisce all'applauso del collega di partito e ministro dell’Interno, Roberto Maroni.

E così l’unico momento in cui tutto il Carroccio si unisce all’Aula e al governo avviene quando Napolitano cita il pontefice: “…un rapporto altamente costruttivo e in una ‘collaborazione per la promozione dell’uomo e il bene del paese’, anche attraverso il riconoscimento del ruolo sociale e pubblico della Chiesa cattolica e, insieme, nella garanzia del pluralismo religioso. Questo rapporto si manifesta oggi come uno dei punti di forza su cui possiamo far leva per il consolidamento della coesione e unità nazionale. Ce ne ha dato la più alta testimonianza il messaggio augurale indirizzatomi per l’odierno anniversario, e lo ringrazio, dal papa Benedetto XVI”. Applausi. Lega compresa. (red) 18 mar 2011 08:32

San Lorenzo (Rc): il 1° comune dello stivale a proclamare l'Unità d'Italia
Giovedì 17 Marzo 2011 07:00. di  Carmelo Bagnato - storico e studioso - Per ovvi motivi,  diremmo di stampa, nella titolazione dell’articolo non riportiamo letteralmente quanto in locuzioni varie ci è pervenuto, riferito all’evento storico del 18 Agosto 1860, a San Lorenzo, sulla proclamazione della  dittatura di Giuseppe Garibaldi in sostituzione del governo borbonico dichiarato decaduto, intendendo esprimerci nella sostanza, in considerazione anche dell’auspicato felice esito dell’impresa.
I prodromi  dell’evento hanno inizio nello stesso paese allorquando Bruno Rossi, liberale, massonico, nei giorni precedenti si era recato in Sicilia per incontrare Garibaldi e allestire i dispositivi perché i Mille fossero pronti ad attraversare lo stretto e approdare in Calabria. E perché ciò fosse attuabile, erano indispensabili azioni dimostrative da parte del popolo onde giustificare e rendere doveroso l’intervento, perchè fosse o comunque apparisse “liberatore”  assecondando così le esigenze dei rapporti internazionali del Piemonte. Ed infatti, il Rossi, rientrato dall’isola, si reca in Aspromonte, con tanti altri esponenti della provincia, al fine di scegliere il luogo più appropriato, dove stabilire il concentramento dei volontari del territorio, e istituire un collegamento con i garibaldini provenienti dall’isola.
Rientrato da queste missioni, riceve l’invito dal sindaco precedente Giuseppe Curatola, di recarsi a Reggio dall’Intendente Spanò Bolani per prestare giuramento, dovendo assumere egli l’amministrazione del comune. Lui, scrive nelle memorie, si recò  a Reggio con il proposito di rifiutare l’incarico, e che poi lo accettò per le insistenze dello stesso Bolani, per non parlare di perentorietà dello stesso.  Il rifiuto, da parte sua, era motivato dalla propria posizione politica, che gli impediva ovviamente di assumere cariche in un regime che riteneva tirannico nel mentre si stava prodigando per la sua caduta. Anche se, l’accettazione come quella di tanti altri nelle sue posizioni, caso emblematico del nuovo sindaco di Melito Antonio Amato, che per le rivolte del 1847/48, era stato condannato a morte per motivi politici, significò più possibilità di lotta contro la stessa monarchia borbonica.  Questo, purtroppo, tardivo comportamento del governo napoletano, era frutto della concessione, o meglio, la riedizione resa operativa della Costituzione concessa un tempo dal padre dell’attuale sovrano, e mai applicata.
Quindi ora da sindaco, Bruno Rossi, potendo disporre anche della Guardia Nazionale, anch’essa da poco ricostituita, può camuffare, il reclutamento, tra San Lorenzo e Bagaladi, di circa duecento uomini e con questi ed il sacerdote Pannuti  avviarsi verso l’Aspromonte nel luogo predisposto al raduno, già numeroso. Trovarono qui anche i garibaldini scampati, provenienti dal Faro di Messina che avevano tentato di occupare il forte di Altafiumara, e che, non riusciti per diverse impreviste circostanze, inseguiti dai soldati borbonici, trafelati, erano giunti qui congiungendosi agli altri volontari in attesa.

Dopo diverse discussioni per il luogo da scegliere, atto altresì, a contattare il dittatore ancora nell’isola, sconoscendo peraltro ancora il punto ove sarebbe sbarcato, ed escludendo Bova, perché borgo decisamente sconsigliato dal barone Pasquale Nesci, con la spiacevole espressione, “che le rivoluzioni nella nostra provincia non possono riuscire mai, e che il meglio era”, addirittura, “sciogliersi, perché era assolutamente impossibile la proposta di occupare Bova” che chiariva la propria posizione di ardente Murattiano, per cui,  evidentemente, poco gradiva il verso preso dagli eventi, si decise per San Lorenzo, proposto e caldeggiato dal suo nuovo sindaco, che oltre la posizione topografica, sosteneva l’amministratore, c’era la possibilità di vitto e alloggio per tutti con tante sue disponibilità, ed era, quindi, il più adatto alle circostanze, essendo anche non lontanissimo dal mare, per una malaugurata ritirata verso l’altra sponda. E’ decisa così la partenza immediata verso questo paese di tutto il contingente, seguito, a poche ore di distanza dal un drappello di bersaglieri comandati dal tenente Golini.
A San Lorenzo sono accolti festosamente, dal decurionato e da tutta la popolazione al suono di tamburo e dalla periferia approdano in piazza ai piedi dell’olmo, plaudendo a Garibaldi.

Qui trovano alloggio presso tutte le famiglie abbienti e personalità del paese, con vitto in abbondanza. Così rifocillati dopo il lungo peregrinare, stanchi e tranquilli possono riposare senza trascurare tuttavia le sentinelle distribuite i tutti i punti possibili di accesso, anche se il Missori, dopo un giro di perlustrazione, soddisfatto, dice che da “quì ci si può difendere anche con le pietre, per almeno un mese”.

Il 18 è il fatidico giorno della riscossa: Il sindaco Bruno Rossi, circondato dal decurionato, a suon di tamburo e con il popolo acclamante, dal balcone del municipio, proclama la caduta del governo borbonico, sostituito dalla dittatura del generale Garibaldi! Era il primo comune del continente ad osare tanto, col pericolo, non  remoto, nel caso gli eventi fossero andati diversamente, di subire indicibili rappresaglie. Ma questo coraggioso e indomito popolo evidentemente era convinto della vittoria, con la speranza che con la garanzia di Garibaldi, molte cose sarebbero cambiate, soprattutto per il ceto che da tempo si nutriva o meglio, sopravviveva con “ festa, farina e forca”, subendo anche le conseguenze cui alla citazione di Ferdinando II :” Più il paese è pezzente e abietto, meglio si governa”.  Da non sottovalutare il risvolto politico di questo gesto, col destare nei cittadini consci di essere tali, la consapevolezza che il rischio fa parte della vita che vuole giungere alla valorizzazione di se stessa, e che dal giogo è possibile uscire, poiché l’esercizio del potere in maniera egemonica attraverso la violenza ed il dispotismo, ha il limite che il popolo stesso gli stabilisce.
A tarda sera giunge nel borgo, anche il drappello dei bersaglieri , soffermandosi però  all’inizio del paese, forse a Ndilirò, escludendo Zacalaria perché sembra impossibile che quei bersaglieri, da questo luogo, abbiano potuto udire gli applausi della proclamazione, come riferisce il comandante, dal centro del paese, sotto il secolare olmo. Alla notizia giunta da Melito, il 19 successivo, dell’arrivo di Garibaldi, altre emozioni ed altri applausi seguirono, questa volta assaporando meglio i venti di libertà, rinfrancati anche per lo scampato pericolo di vendetta  del vecchio regime. Sulle disposizioni impartite, riportiamo quanto è scritto da Morabito-De Stefano,in  pag. 85, nota 10:” In quanto alle circolari mandate dal Musolino in tutte le città e borgate furono spedite da San Lorenzo e non da Pedavoli come lo attesta il documento pubblicato”. E’ inspiegabile come sia stato possibile tale errore, considerato che Pedavoli è ricordato semplicemente, oltre che per il pranzo offerto dal sindaco ai Garibaldini e dopo qualche giorno ai soldati borbonici, per l’assassinio e decapitazione di Domenico Romeo di Santo Stefano,da parte del capo urbano Carbone.

Segue la partenza per Melito, per congiungersi all’eroe e proseguire alla conquista di Reggio, ove Garibaldi trionfante entra montando il cavallo di Bruno Rossi. Questo cavallo è immortalato da un dipinto del famoso pittore e patriota Benassai, che trovasi nel Municipio del nostro amato paese, San Lorenzo.

Bossi vuol festeggiare il cinquantenario della Padania
Mentre la sinistra, che non ha mai amato il tricolore, ora lo sventola con entusiasmo.di Diego Gabutti. Non sventoleranno mai il tricolore. Ai leghisti l'Italia non è mai piaciuta e non gli piacerà neppure quando sarà diventata federale. Vero che non si capisce più, a questo punto, perché vogliano il federalismo (oggi fiscale, domani si vedrà) se poi non giocano più, come bambini antipatici, quando qualcuno pronuncia la parola «nazione» o, peggio ancora, «Italia». Deve pure avere un nome la federazione, e ci si deve pure federare con qualcuno quando si è federalisti! Non c'è altro modo, del resto, di capire i leghisti. Si capisce qualcosa della Lega solo quando si riconosce di non capirne nulla, salvo che la sua leadership (sulla breccia ormai da trent'anni, e quasi pronta per festeggiare il cinquantenario dall'invenzione della Padania) continua a sognare la secessione. Idem la base militante del partito nordista e buona parte del suo elettorato.

Non torneranno sui loro passi. Torneranno al governo, un governo italiano, ogni volta che ne avranno l'occasione. Ma questo è tutto. Non concederanno di più. Continueranno a cantare fino a sgolarsi che la bandiera d'un solo colore, il verde genepy, è sempre stata la più bella e che loro vogliono sempre quella, «noi vogliam la libertà». È così che si guadagnano da vivere fin dall'inizio degli anni ottanta dello scorso secolo, quando Umberto Bossi e Roberto Maroni, pagando la vernice spray di tasca propria, scrivevano «Roma ladrona» sui muri. Schiava di Roma sarà tua sorella, mugugnano da allora i leghisti (i più educati sottovoce, Mario Borghezio a voce alta e accompagnandosi col gesto dell'ombrello). Sono fatti così, e non cambieranno. Diserteranno le cerimonie ufficiali, o parteciperanno controvoglia, perfettamente indifferenti alle occhiatacce che il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, un altro che ai suoi tempi preferiva le bandiere d'un solo colore, il rosso sangue proletario, riserva ai nemici del Risorgimento.

Persino il Vaticano, che pure è quel che resta del Regno della Chiesa invaso ed espropriato dai Savoia, è diventato italianista. Italianisti e addirittura prosabaudi sono diventati anche i marxleninisti di scuola gramsciana che un tempo definivano il Risorgimento una «rivoluzione mancata». È italianista tutta l'opposizione, dipietristi, magistrati democratici e futuristi in testa, perché è passata chissà come l'idea che anche Silvio Berlusconi, come chi impara a zoppicare frequentando gli zoppi, sia diventato un pericoloso nemico dell'unità nazionale per avere invitato troppe volte a cena, oltre a Emilio Fede e alle sgarrettate che sappiamo, anche il Senatur. Ti guardi intorno e non vedi che emuli di Silvio Pellico, di Carlo Pisacane e di Roberto Benigni, eroe del Risorgimento ad honorem. Anche se talvolta l'effetto che fanno certe professioni di fede risorgimentalista pura e dura, come per esempio gli editoriali di Aldo Cazzullo sul Corriere della sera, è più da Fratelli Marx che da Fratelli Bandiera. Adesso poi, sempre sul Corriere, ci si è messo anche Ernesto Galli Della Loggia, che l'altro giorno ha definito Marzo 1821, la solita infilata manzoniana di rime imbarazzanti da Corriere dei piccoli, «la più bella poesia del Risorgimento».

Tutti vogliono distinguersi dai leghisti. Sui balconi delle case sbocciano i tricolori e alle edicole (ci risiamo) gli statali in pensione che leggono Repubblica e il Fatto quotidiano guardano storto chiunque compri il giornale sbagliato (sono profondamente sbagliati tutti i giornali sconsigliati da Roberto Saviano) e non porti all'occhiello una spilletta tricolore e neppure partecipi alle risse per procurarsi una delle bandiere allegate alla Stampa di Torino. Già antipatica per conto suo, la sinistra ha ormai trasformato in odiosa e anche un po' repellente ogni cosa che tocca, prima la questione sociale, poi la cosiddetta questione morale (che ormai si è ridotta a contare gl'incontri galanti del Cavaliere con Ruby Rubacuori_ sarebbero tredici, o sedici, se non ricordo male) e adesso anche l'unità nazionale. Non stupisce che Bossi sorrida.

L'Italia resta un paese minorenne, nonostante la sua età. C'è persino un deputato che ritiene che il primo re d'Italia sia stato Vittorio Emanuele I. di Massimo Tosti. Centocinquant'anni, e non li dimostra. È ancora un Paese minorenne, il nostro, malgrado l'età. L'esame di maturità di una Nazione non può essere fatto se non valutando il grado di preparazione dei suoi cittadini. È pur vero che la televisione ci mostra autentici mostri che (tanto per proporre un esempio rassicurante) conoscono a memoria le date di nascita di tutti i calciatori, come è accaduto qualche giorno fa con un concorrente beneventano in un programma di quiz.

Ma poi entrano in scena le Iene che, alla vigilia stretta del nostro compleanno nazionale (di cui siamo tutti profondamente orgogliosi, con coccarda tricolore sul bavero e intonazione in coro dell'Inno di Mameli), si appostano davanti alla Camera dei Deputati per qualche domandina di storia ai rappresentanti del popolo, quelli che (con ossequio di stampo borbonico) siamo tenuti a chiamare «onorevoli». Non sul calcio, mascalzoni, ché magari qualche super-esperto l'avrebbero anche trovato. Sulla storia patria, materia oscura e controversa (mai digerita, fin dai tempi della scuola dell'obbligo) che manda in crisi i migliori di noi, quelli che sono stati prescelti (dai loro capi, non da noi poveri elettori) per legiferare e contribuire in tal modo a incidere sul destino comune.

La malizia delle Iene si eleva (o si abbassa: decidete voi) alle vette (o nelle voragini) del qualunquismo classico. Le domande sono impietose. Perché mai festeggiamo l'Unità d'Italia il 17 marzo? Oppure: come si chiamava il primo re d'Italia? O, ancora, quando Roma divenne capitale? O addirittura (somma perfidia) perché Garibaldi era chiamato l'Eroe dei Due Mondi, e quando e dove si incontrò con Vittorio Emanuele II? Come se avessero chiesto a un meccanico a che cosa serve il carburatore, a un pasticcere se lo strudel si fa con le mele o con pistacchio, a un sacerdote che cos'è l'Eucarestia, e a un pastore se le pecore hanno quattro o due zampe.

Le risposte sono state disarmanti. Rosi Bindi rideva disinvolta, ammettendo di non sapere che c'azzecca il 17 marzo. Roberto Formigoni era convinto che si alludesse alle Cinque Giornate di Milano (in fondo, lui, di quello si occupa come governatore della Lombardia), pur ammettendo che forse la gloriosa cacciata di Radetzky risaliva a qualche anno prima dei 150 in questione, Nunzia Di Girolamo se la cavava invitando l'intervistatrice a rivolgersi a Roberto Maroni che, in quanto ministro dell'Interno è pratico di quegli argomenti. La Santanchè, fedele alla propria immagine di contro-iena (più crudelia dell'interlocutrice) si rifiutava semplicemente di rispondere (un po' come Eugenio Scalfari che non parlerebbe mai con Giuliano Ferrara perché non è un suo pari grado).

E poi c'erano quelli delle classi differenziate. Uno di Futuro e Libertà che pensava che il 17 marzo si rievocasse Porta Pia (forse, non so, ma potrebbe), che il primo re d'Italia fosse Vittorio Emanuele I, e che nel regno delle Due Sicilie sul trono ci fossero i Savoia. Uno del Pd convinto, invece, che il primo re fosse Umberto I e uno dei Responsabili che puntava invece su Emanuele III. Un deputato del Pdl si esibiva invece con tre affermazioni lapidarie: che il Regno delle Due Sicilie fosse caduto nel 1945, che Vittorio Emanuele e Garibaldi non si fossero mai incontrati e che quest'ultimo si fosse guadagnato il titolo di Eroe dei Due Mondi per aver unificato il nord e il sud d'Italia.

Se il parroco si dimostrasse ignorante sull'Eucarestia, lo scomunicherebbero. E nessuno di noi resterebbe cliente di un meccanico che confonda il carburatore con la marmitta e a un gelataio che faccia lo strudel con il pistacchio. Prima della maturità, studiavamo di notte per colmare le lacune. Prima del centocinquantesimo, gli onorevoli avrebbero potuto fare altrettanto. Tirate voi le conclusioni.

Il passato si è preso il presente. 18/03/2011 di FRANCO LARATTA
Centocinquant’anni! Il passato si è preso il presente. Si è mangiato un tempo che non c’è più, e che forse non c’è mai stato. Centocinquant'anni. Nel parlamento in seduta comune, l'unico che ne esce vittorioso, vivo, forte è il presidente Napolitano. Con il suo ingresso lieve e solenne, salutato da un’autentica ovazione dei parlamentari e delle più alte cariche dello stato. Tutti in piedi per lui, simbolo di una patria rinata. Molti di noi si sono commossi nell’ascoltare il presidente. Nessun altro come Napolitano, uomo del passato, appare come un eroe del presente. Anzi, solo un altro uomo, anche lui appartenente al passato, ha meritato ieri sera un autentico e sentito trionfo alla Camera: Carlo Azeglio Ciampi, il vecchio e malato presidente, il viso stravolto dalla malattia che lo tiene da almeno 3 anni lontano dalle scene pubbliche. Il suo ingresso barcollante ha commosso l’aula del Parlamento. A lui ogni onore per essere stato il presidente che ha riportato in alto i valori della patria e della Bandiera. Il passato, con Napolitano, Ciampi, Oscar Luigi Scalfaro, si è ripreso la rivincita su questo strano presente in eterna transizione. Le toccanti e forti parole di Napolitano per i 150 anni dell'Unità, cozzano terribilmente con il presente di un Berlusconi in affanno, contestato al mattino davanti all'Altare della Patria, contestato nel pomeriggio in almeno altre due occasioni solenni. E sempre il solito urlo dalla folla: «Vattene, dimettiti.»! Segni di un tempo che sta drammaticamente consumandosi. Ma qualcuno non vuole capirlo. Il presente è anche quello della stupidaggine della Lega Nord-Padania, apparsa improvvisamente così vuota, così rozza, così insopportabile. Tanto che ovunque, soprattutto al Nord, le bandiere tricolore sventolavano contro i volti rabbiosi dei leghisti: contro quello del presidente piemontese Cota, rimasto in Regione “a lavorare”, mentre tutti i torinesi erano in piazza a festeggiare. E sventolavano contro i deputati e senatori del Carroccio rimasti a casa mentre il Parlamento celebrava l’Unità del Paese; contro i consiglieri regionali leghisti che nelle diverse regioni uscivano fuori mentre in aula suonava l’Inno d’Italia. La Lega da oggi è chiaramente la forza più arretrata e pericolosa del Paese. Com’è brutto questo nostro presente, fatto di uomini sempre più inadeguati, superati, autori di grandi inganni politici, che hanno prodotto fallimenti economici, crisi insopportabili, immoralità galoppante, corruzione devastante. La prima Repubblica è sempre più viva e forte, davanti a una sedicente seconda Repubblica fatta da piccoli uomini. Davanti ad un Paese sottomesso alle voglie del padrone e ai suoi volgari Bunga Bunga, emerge forte la personalità del presidente della Repubblica, nel giorno in cui il tricolore sventola su quasi tutti i luoghi del Paese: ne ho visto uno perfino in una chiesa romana, la chiesetta storica di San Nicola in via dei Prefetti. Un tricolore, che sventola in una chiesa cattolica di Roma, beh! è davvero una bella immagine. Centocinquant’anni dell’Unità d’Italia. Un solo colore: il tricolore che sventola in tutta Italia. Un grande simbolo di unità del Paese: il presidente della Repubblica, l’anziano comunista che tutta l’Italia ama e apprezza. E poi l’Inno di Mameli: faceva effetto vedere ieri in Parlamento lo storico leader leghista costretto ad alzarsi mentre la banda dei carabinieri intonava le prime note dell’Inno. Sopra di lui il presidente della Repubblica. Sopra tutti un tripudio di gigantesche bandiere tricolori.

Il Carroccio disunito. MICHELE BRAMBILLA. I leghisti hanno boicottato le celebrazioni o vi hanno partecipato obtorto collo. Era scontato. Molto meno scontato, però, era che la Lega desse una prova di disunità non solo d’Italia, ma anche di partito.

Contrariamente alla loro tradizione, infatti, dirigenti e militanti non si sono presentati compatti all’appuntamento. Già nei giorni scorsi c’erano stati alcuni segnali. Ad esempio a Milano, nel consiglio regionale, i lumbard se n’erano andati al bar mentre suonava l’inno di Mameli; però il leghista Davide Boni, che è presidente di quella assemblea, era rimasto in aula: con l’entusiasmo di chi deve pagare una cambiale, ma c’era rimasto.

Ieri poi un po’ tutto il partito ha dato l’impressione di non saper tenere la barra dritta. A Montecitorio s’è presentato un solo parlamentare leghista, tale Sebastiano Fogliato. Però i membri del governo c’erano tutti. Maroni a domanda sulla sua presenza aveva risposto «lasciatemi in pace», mostrando un certo nervosismo: però c’era. Bossi, che negli anni passati ci aveva fatto sapere quale uso avrebbe fatto del tricolore, c’era anche lui. Non ha applaudito il discorso di Napolitano, però ha detto che Napolitano ha fatto un buon discorso. Mentre suonava l’inno s’è messo a parlare con Tremonti, però si è alzato in piedi.

E ancora. Il quotidiano La Padania ieri titolava «150 anni di centralismo, che guasti», però il governatore del Veneto Luca Zaia ha partecipato alle celebrazioni con la coccarda tricolore. A Torino nessun leghista era presente in piazza Castello all’alzabandiera, però a Varese all’alzabandiera il sindaco Attilio Fontana (che è un fedelissimo di Maroni e il leader dei sindaci leghisti) c’era, e aveva perfino la fascia tricolore. Il presidente della Provincia di Bergamo Ettore Pirovano, padano e discendente di uno dei Mille, ha detto che «l’unità non può essere imposta», ma un altro importante amministratore locale della Lega, il sindaco di Verona Flavio Tosi, ha anch’egli partecipato all’alzabandiera indossando la fascia tricolore. Borghezio ha detto che le celebrazioni di ieri sono «soldi buttati» e che presto «ci saranno due Italie», ma sul balcone della sede della Lega di Varese – che del movimento di Bossi è la culla – qualcuno ha messo un tricolore.

Potremmo andare avanti a lungo. Non vogliamo dire che tutto questo dimostra una spaccatura interna sull’idea che i leghisti hanno dell’Italia. Probabilmente, anzi quasi sicuramente, alla stragrande maggioranza la secessione farebbe ancora più piacere che il federalismo. No, la spaccatura non è stata sulla linea ma su come mostrarsi, come manifestarsi al Paese e alla politica in un giorno come quello di ieri.

O meglio: più che di una spaccatura, si tratta di un disorientamento. La Lega, sempre molto abile nel fiutare i sentimenti popolari, forse non si aspettava che la festa dei 150 anni avrebbe così tanto risvegliato l’amor patrio degli italiani. Già i venti milioni di spettatori per Benigni a Sanremo erano stati un segnale. Adesso sono arrivate le feste di piazze, le città imbandierate, lo straripante affetto mostrato al presidente Napolitano. Chi ha avuto modo di vedere Torino in queste ultime ore non può non essere rimasto colpito dalla partecipazione popolare al centocinquantenario. Anche in quartieri multietnici come San Salvario il tricolore era ovunque.

Di fronte a questo imprevisto, di fronte alla sorprendente constatazione che il sentimento per l’Italia non era morto ma solo sopito, la Lega s’è trovata disorientata e non ha saputo presentarsi con il consueto celodurismo. E così ha probabilmente scontentato tutti: i non leghisti, che si aspettavano un atteggiamento più dignitoso, e la sua base, che se ne aspettava uno più bellicoso.

Viceversa il presidente Napolitano è arrivato in questi giorni a livelli di consenso e credibilità pari, se non superiori, a quelli di cui godeva Pertini. E se dopo tanta politica greve, volgare e priva di contenuti gli italiani si mettono a seguire un uomo come Napolitano, forse vuol dire davvero che qualcosa sta cambiando. Di tutte le riforme, questa sarebbe quella di cui abbiamo più bisogno.

Bozen. Sexgate bolzanino: «Pronta a costituirmi e a raccontare tutto». Baby prostitute: la marocchina ricercata potrebbe fare i nomi di quasi 50 clienti. di Mario Bertoldi
BOLZANO. Il sesso muove il mondo, recita un antico adagio. I nuovi particolari che emergono dall'inchiesta sulla prostituzione minorile a Bolzano si stanno rivelando una precisa conferma. Tra i professionisti al di sopra di ogni sospetto coinvolti negli incontri a luci rosse a pagamento con due marocchine minorenni, c'è anche un direttore di banca. Per ottenere un incontro con una delle ragazzine avrebbe concesso un prestito di 26 mila euro (senza adeguate garanzie) alla donna di 25 anni che avrebbe controllato il giro delle due baby-squillo e che ora è ricercata per effetto di un ordine di cattura internazionale. La rivelazione è stata fornita dalla stessa venticinquenne che proprio qualche giorno fa ha avuto in incontro in una località segreta con unn giornalista del quotidiano in lingua tedesca «Tageszeitung». La donna, S.N., marocchina di 25 anni, a Bolzano da oltre 20 anni, sa perfettamente di essere ricercata ed avrebbe deciso di costituirsi entro pochi giorni. «Mi presenterò agli inquirenti - assicura - non intendo assolutamente correre il rischio di pagare per tutti e, magari, di essere ricacciata in Marocco. Sono pronta a presentarmi al pubblico ministero Donatella Marchesini in compagnia del mio avvocato. Farò chiarezza su tutto». Sono in molti a non dormire sonni tranquilli a Bolzano. Cosa significa fare chiarezza? Anche rivelare chi fossero i clienti abituali delle due minorenni che lei però nega di aver gestito direttamente. Una è sua cugina, l'altra è un'amica di quest'ultima. Sono arrivate a Bolzano poco meno di due anni fa quando di anni ne avevano appena 16. Non sarebbero state portate qui allo scopo di farle prostituire ma sarebbe stata proprio la 25enne a permettere alle due giovanissime di fare le prime conoscenze nel giro dei clienti. In poche settimane in parecchi sarebbero entrati in possesso dei loro numeri telefonici e le due ragazzine avrebbero deciso autonomamente di «fare la vita» nella consapevolezza che avrebbero guadagnato molto bene. S.N. è ora disposta a raccontare quello che sa al sostituto procuratore Donatella Marchesini con riferimento proprio ai suoi clienti abituali che avrebbero avuto contatti sessuali a pagamento con le due ragazzine minorenni. L'elenco preannunciato dalla donna è decisamente più corposo di quello attualmente in mano alla Procura della Repubblica in relazione al numero degli indagati. «Sono più di 20 e meno di 50» si è lasciata sfuggire la donna che potrebbe inguaiare non poche persone. La venticinquenne sembra molto quotata tra le prostitute di un certo livello. Di aspetto piacente, avrebbe deciso di prostituirsi all'età di 17 anni, dopo che la famiglia l'aveva costretta a sposare un marocchino spacciatore di droga, arrestato e rispedito a casa sua. «Sono state le difficoltà economiche e la necessità di far fronte anche alle esigenze di mio figlio a spingermi a vendere sesso - racconta - Quello che guadagnavo facendo la cameriera nei bar era troppo poco. E così quasi casualmente ho iniziato a far quadrare i conti in altro modo sino a quando mi sono abituata ad un certo livello di introiti». Poi alcuni clienti - racconta - quasi casualmente l'hanno visto in compagnia delle due minorenni. Qualcuno ha perso la testa ed è iniziato il tam tam nel giro della clientela che ha portato le due diciassettenni a vendersi. «Qualcuno si è anche innamorato» racconta. Un professionista bolzanino avrebbe riempito di regali una delle due ed avrebbe annunciato in famiglia l'intenzione di andarsene non ave no mai saputo e capito il vero lavoro esercitato dalla giovanissima nell'appartamento di via Resia.

Bozen. Alto Adige, niente inno di Mameli prima della partita: multato il presidente del Naturno. Il dirigente della società calcistica meranese aveva cambiato idea all'ultimo istante: deferito dall'arbitro. BOLZANO. Nel campionato di Eccellenza, il giudice sportivo ha inflitto una multa di 100 euro al Naturno «per aver disatteso (domenica scorsa, ndr) la disposizione che prevedeva l'esecuzione dell'inno nazionale in onore del 150esimo anniversario dell'Unità d'Italia. Vengono inoltre, con iter adeguato, inviati alla Procura Federale i documenti arbitrali perché vengano accertati, in capo al Presidente della società Naturno, Dietmar Hofer, eventuali comportamenti lesivi dell'onorabilità dell'arbitro».
Dietmar Hofer è stato al centro di una vicenda grottesca. Alla vigilia della partita in casa con la trentina (e italiana) Comano, aveva annunciato che, lui, sudtirolese, avrebbe fatto suonare l'inno di Mamemli, come indicato dal Coni e dalla Federazione italiana gioco calcio.
«Rispetterò le direttive nazionali - aveva giurato qualche giorno prima -: ho procurato l'impianto e mi sono pure scaricato l'inno di Mameli da internet».
La notizia viene pubblicata dall'Alto Adige: Hofer in qualche modo sfida il Landeshauptmann Luis Durnwalder e il diktat: «non festeggiare». Hofer si discosta dalla posizione della stragrande maggioranza delle società sportive tedesche che non ci pensano nemmeno a far risuonare sui campi «Fratelli d'Italia». Dimostra una certo coraggio e la sua decisione fa notizia. Ma come si sa la notte poi, porta consiglio e le cose possono essere cambiate in pochi istanti.
Ed infatti tra sabato e domenica, Hofer cambia idea. Non è chiaro se di testa sua o per pressioni subite. La domenica mattina, sul campo del Naturno, niente inno italiano.
Contrordine kameraden, marcia-indietro, retromarsch. Le pressioni, unite alla preoccupazione di essere una mosca bianca tra i presidenti delle squadre sudtirolesi, hanno prevalso su qualsiasi altra considerazione. Hofer è sceso in campo, ha parlato con l'arbitro - a cui aveva in precedenza comunicato l'esecuzione dell'inno - ha spiegato di aver cambiato e idea.
L'arbitro ha preso nota, ed ha mandato una segnalazione alla federazione calcio. Ieri il pronunciamento del giudice sportivo. Domanda: perché è stato multato solo Hoferma, visto che sono decine in Alto Adige, le società che tra venerdì e domenica hanno fatto altrettanto?
La sanzione sarebbe scaturita proprio dal comportamento contraddittorio del presidente del Naturno.
Hofer ha annunciato ufficialmente all'arbitro la volontà di eseguire l'inno. L'arbitro è stato quindi «costretto» a segnalare alle autorità sportive il mancato rispetto di un impegno preso dalla società tramite il suo presidente. Sugli altri campi della periferia il problema non si è posto semplicemente perché a nessuno è mai passato per il cervello di eseguire l'inno di Mameli. E nessun arbitro ha ritenuto opportuno segnalarlo.

Trento. Poveri aumentati del 4%. A Pergine ricchezza al top. 18/03/2011 08:40TRENTO - Aumentano i ricchi, ma crescono di numero anche i poveri e si assottigliano alcune delle fasce di reddito intermedie. La fotografia delle dichiarazioni fiscali 2010 sui redditi 2009 mostra come anche in Trentino la crisi colpisce soprattutto il ceto medio-basso. Nelle cinque maggiori città, Trento, Rovereto, Pergine, Arco e Riva del Garda, i contribuenti con entrate sotto i 10 mila euro sono aumentati in due anni del 3,8%, con un reddito medio di meno di seimila euro annui, in calo di oltre il 3%. Sono invece scesi dell'1,7% i contribuenti con redditi tra 10 mila e 26 mila euro, che sono la maggioranza del totale. I più ricchi tra quelli con oltre 100 mila euro di reddito, invece, si scoprono essere i cittadini di Pergine, dove però si registra anche una crescita consistente di poveri.

Il reddito dichiarato complessivamente dai 125 mila contribuenti delle maggiori città trentine ammonta a 3,2 miliardi di euro, l'1,9% in più dell'anno prima e il 4,5% in più del 2007. Le famiglie con reddito fino a 10 mila euro sono 12.591, quasi 500 in più di due anni prima, il 10% del totale. Il reddito complessivo è rimasto praticamente uguale e quindi le entrate pro capite scendono da 6.193 a 5.980 euro annui. L'incremento dei più poveri è pari al 3,6% a Trento, con punte del 33% nella fascia di reddito da 3.000 a 4.000 euro, dell'1,3% a Rovereto, ma del 5,6% a Pergine, del 6,6% ad Arco, del 4,6% a Riva. Le dichiarazioni di redditi tra 10 e 26 mila euro sono invece il 57% del totale, 71.144 in tutto. Ma diminuiscono sia rispetto al 2008 che rispetto al 2007. E il reddito complessivo dei contribuenti di questa fascia, pari a 1,2 miliardi, scende in due anni di 12,7 milioni, passando dal 41 al 39% del totale.

Belluno. Lega e Pdl d’accordo: «Italia unita e federale». Belluno in festa per il 150esimo. Folla in piazza. BELLUNO — Un’Unità d’Italia ripercorsa per intero nel comune capoluogo, durante le celebrazioni del 150esimo. Sono stati ricordati i patrioti delle guerre d’indipendenza, tutti coloro che hanno combattuto nei conflitti mondiali fino ai partigiani della Resistenza. Per arrivare al disequilibrio di trattamento con le aree confinanti «che non è più tollerabile», come ha detto chiaramente il sindaco Antonio Prade, che ha concluso il suo discorso con un «Viva l’Italia unita e federalista». La cerimonia è cominciata alle 11 in piazza dei Martiri, davanti all’alzabandiera. Moltissimi i partecipanti. Tanti i bambini vestiti con il tricolore a mo’ di mantella che hanno cantato l’Inno di Mameli con la banda, con gli alpini del settimo reggimento e con tutta la popolazione. Gli onori ai caduti di guerra e poi la deposizione della corona al monumento dei «martiri» della Resistenza. Sono stati ricordati i quattro partigiani impiccati dai nazisti il 17 marzo 1945. Oltre al prefetto Maria Laura Simonetti, c’era il sindaco di Belluno con molti consiglieri e assessori, il presidente della provincia, Gianpaolo Bottacin e il suo vice, Michele Carbogno. L’onorevole leghista Franco Gidoni, le massime autorità militari, i gonfaloni del Comune e della Provincia, nonché molti labari delle associazioni combattentistiche. La cerimonia si è conclusa con la scopertura della targa dedicata al 150˚ dell’unità d’Italia, che recita: «Memore degli ideali e dei sacrifici di coloro che hanno reso possibile 150 anni di unità d’Italia. La città di Belluno grata ricorda».

Il sindaco Prade ha quindi pronunciato il suo discorso. Ha sottolineato «l’intima unione, storica, di valori, oltre che di eroismo personale, fra Unità d’Italia e Resistenza », ricordando la coincidenza con i 17 marzo del 1861, data dell’unità d’Italia con quello del 1945, dell’impiccagione dei partigiani. Ha proseguito citando le vie che ricordano i 150 anni di storia a Belluno: «Via IV Novembre, via Garibaldi, Piazza Mazzini, Via Psaro, Ponte della Vittoria, via Tilman, Caserma Fantuzzi. Mi piace ricordarlo, il generale Fantuzzi, combattente gli austriaci, con alle sue dipendenze il capitano Ugo Foscolo! Cosa daremmo per ascoltarli, la sera, mentre si parlano dell’Italia che è stato il loro grande ideale», ha sottolineato il sindaco. Nel ricordare i sacrifici delle guerre mondiali, c’è stata una digressione per i duemila soldati dell’Apelnvorland di Brixen, che non giurarono fedeltà al Fürer. Infine l’attualità. «Noi bellunesi sopportiamo ogni giorno un disequlibrio con le nostre aree confinanti che non è più tollerabile». Concetti ripresi dal presidente della Provincia ieri sera al teatro comunale, durante lo spettacolo: l’Italia va in scena. Gianpaolo Bottacin ha cominciato il suo discorso con un inaspettato « Viva l’Italia! Una, unita e federale. L’Italia che vorrei, ma che non c’è», proseguendo con lo specificare che Italia: «quella "giovine" di Mazzini, quella dei "tre regni" di Cavour, quella "federalista" di Cattaneo ». Un’Italia che, come ha detto il presidente, ha «voluto e dovuto auto-celebrarsi per ritrovarsi ». Bottacin ha concluso il suo intervento con una considerazione. «E dunque viva l’Italia! L’Italia che "riconosce e promuove le autonomie locali"; che "tutela le minoranze linguistiche"; che ha l’obiettivo di "rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona". Per farlo c’è bisogno di fiducia, di coraggio, di orgoglio da ritrovare».
Federica Fant

Belluno. Alpini del 7° Reggimento: la comunità bellunese abbraccia i suoi eroi. Oggi la cerimonia di conferimento della cittadinanza onoraria ai militari. BELLUNO. I gruppi alpini del Veneto si stringono oggi attorno al Settimo reggimento, di ritorno dall'Afghanistan dopo sei mesi di duro lavoro di mediazione. Un'impresa che è costata tanto, in termini di vite umane: cinque i caduti (quattro ad ottobre ed uno il 31 dicembre), oltre a numerosi feriti. Ana Belluno. Questa mattina, piazza dei Martiri diventa teatro di partecipazione e solidarietà: ad attendere il rientro della bandiera di guerra e dei militari, in prima fila ci sono gli alpini in congedo. «E' giusto - commenta Arrigo Cadore presidente Ana Belluno - testimoniare la nostra partecipazione e il nostro coivolgimento ad un reggimento segnato dalla tragedia e che ha dato il maggior contributo in termini di perdita di vite umane». Cadore ci tiene a sottolineare l'importanza del calore e della vicinanza in momenti particolari come questo. «La nostra presenza - prosegue - vuole essere motivo di forza per questi ragazzi che hanno dato tanto alla causa dell'Afghanistan, testimoniando nel mondo i valori che ci contraddistinguono da sempre. Siamo orgogliosi di quello che hanno fatto». Alpini in armi e alpini in congedo oggi non intendono festeggiare, ma ricordare l'impresa e soprattutto i loro morti, caduti per la pace e la democrazia, valori nei quali credevano. Il vertice di Ana Belluno si spinge a parlare della Libia e ad escludere che gli alpini possano intervenire anche lì. «E' una mia opinione personale - tiene a precisare. Non credo sia ipotizzabile un intervento degli alpini in Libia, almeno in questo particolare momento. La situazione è molto diversa rispetto a quella afgana». Le istituzioni. Ad attendere i militari questa mattina, ci sono anche i rappresentanti delle istituzioni bellunesi. «Belluno e gli alpini hanno da sempre la stessa anima». Lo dice sempre il presidente della Provincia di Belluno, Gianpaolo Bottacin: «Belluno sono gli alpini e viceversa. La comunità si stringe oggi attorno a questi ragazzi, non solo perchè la rappresentano nel mondo, ma perchè sono testimonianza dei valori fondanti della democrazia». La cittadinanza onoraria. Ha il sapore del «pagamento di un debito morale», il riconoscimento della cittadinanza onoraria che la città conferisce oggi al Settimo alpini. «Il loro lavoro - commenta il sindaco Antonio Prade - ci onora, perchè porta soluzioni ai problemi internazionali e rende Belluno protagonista delle operazioni di sostegno all'ordine internazionale. Il nostro è un sentimento di gratitudine nei confronti del reggimento, patrimonio tangibile e presenza integrante della comunità». E sull'ipotesi Libia Prade commenta: «Sono certo che se gli alpini dovessero essere coinvolti non si tirerebbero certo indietro». La cerimonia si conclude alle 12 con la sfilata dei reparti lungo le strade del centro fino alla caserma Salsa-D'Angelo. E' prevista anche la presenza del sottosegretario di Stato alla difesa, l'onorevole Giuseppe Cossiga e del comandante delle truppe alpine, generale di corpo d'armata Alberto Primicerj. Belluno ha ormai assunto il ruolo di testa nelle attività di pacificazione internazionale. di Silvia Siano

Udin. Unità d’Italia, i padani a Coseano per ricordare il no al plebiscito
di Greta Sclaunich
I leghisti friulani si radunano a Coseano che nel 1866 disse no all’unificazione. Al sindaco consegnata una targa che rievoca l’unico rifiuto unanime all’annessione al Regno. Il coordinatore Alessandro Ciani: "I fatti parlano chiaro: 150 anni fa il Friuli non era ancora Italia"
COSEANO. Una targa per ricordare il “no di Coseano” al plebiscito del 1866 e per sottolineare che ieri, in Friuli, non c’era alcun 150enario da festeggiare. I Giovani Padani della provincia di Udine hanno scelto il 17 marzo, festa del Tricolore, per consegnare al sindaco di Coseano Valerio Del Negro una targa commemorativa dei 25 votanti che il 21 e 22 ottobre 1866 dissero no alla neonata Italia. Quella votazione passò alla storia come il “no di Coseano”.

Un no che il movimento giovanile della Lega Nord oggi ripete davanti a chi considera il 17 marzo una sorta di compleanno dell’Italia: «La storia si scrive coi fatti e non con la retorica, come abbiamo ricordato nella targa – spiega Alessandro Ciani, coordinatore provinciale del gruppo –. I fatti parlano chiaro: 150 anni fa il Friuli non era Italia». La consegna della targa è avvenuta davanti al municipio di Coseano intorno alle 12, presenti una cinquantina di Giovani Padani. Il sindaco Del Negro, che era già stato avvertito della consegna, «si è limitato a prenderne atto e ci ha ringraziato. Non ha fatto trasparire nulla: non abbiamo capito se gli ha fatto piacere oppure no», racconta Ciani.

Del resto il sindaco, come ricorda ancora Ciani, si è presentato alle elezioni comunali del 2009 con una lista civica: difficile capire se sostiene o meno le posizioni della Lega Nord. Il primo cittadino del centro in provincia di Udine non ha, però, specificato «dove avrebbe messo la targa, speriamo in Comune. In fondo, quello dei cittadini di Coseano è stato un atto di grande coraggio: nelle votazioni del 1866 le scatole erano due, una per il no e una per il sì, era quindi impossibile mantenere il segreto su cosa si era votato». Nella provincia di Udine, che allora comprendeva anche il territorio dell’attuale provincia di Pordenone, i voti a favore furono 140.988 secondo quanto riporta il saggio Albori di vita politica in Friuli di Tiziano Tessitori. Di “no” ce ne furono 36, 25 dei quali a Coseano che votò contro il plebiscito all’unanimità.

Se la targa ricorda l’episodio, accenna anche in maniera non troppo velata alle polemiche che nei giorni precedenti alla festa del Tricolore hanno contrapposto la Lega Nord al resto del governo. Alessandro Ciani ci tiene a sottolinearlo: l’idea della targa «è venuta al movimento giovanile, il partito non c’entra».

Alla Lega, però, l’iniziativa è piaciuta. E infatti alla consegna della targa erano presenti anche l’assessore regionale all’agricoltura Claudio Violino e il segretario provinciale Matteo Piasente. La manifestazione di Coseano, come precisa un comunicato diffuso dal Carroccio, vuole «solo porre l’attenzione su un avvenimento storico spesso trascurato».

La scelta della data di consegna non è però casuale: «In questo modo ricordiamo che il 17 marzo 1861 il Friuli ancora non era Italia. Una parte lo divenne con il plebiscito del 1866 e poi il resto nel 1918: quindi oggi (ieri per chi legge) noi non abbiamo proprio nulla da festeggiare», conclude Ciani.

Venetia. L'avanzata dei cinesi nel cuore di Venezia. "Dopo borse e guanti, "presa" anche lo storica pasticceria d'Europa in calle dei Fabbri, tra le più chic della città. di Manuela Pivato
VENEZIA. Hanno iniziato con le borse, poi sono passati all'abbigliamento griffato per bambini e ora, nel volger di una notte, si sono presi anche la storica pasticceria d'Epoca. Dietro il banco, a servire il caffè, da qualche giorno c'è una ragazza con gli occhi a mandorla. Calle dei Fabbri come Chinatown, a due passi da Piazza San Marco, dove gli affitti viaggiano sui 3 mila euro al mese per meno di quaranta metri quadrati. Famiglia dopo famiglia, inglobando parenti, amici e conoscenti, lavorando quindi senza assumere personale e fino alle dieci di sera festivi e domeniche inclusi, la comunità cinese del centro storico si è impossessata di una buona parte della calle.

L'ultimo «acquisto» riguarda la storica pasticceria vicino al ponte della Pignatte che per oltre cinquant'anni ha sfornato paste, pizzette, torte e che era un punto di riferimento per i veneziani della zona, un po' come Marchini in campo San Luca. Dopo aver cambiato due volte gestione, è passata in mani cinesi senza nemmeno modificare una vetrina. I titolari se ne sono andati la sera e, la mattina seguente, una graziosa signora cinese aveva già preso il loro posto, abbassando lievemente i prezzi. Due euro per un cappuccino e un croissant al posto di due euro e venti centesimi. I primi clienti, naturalmente, sono stati i cinesi della calle. Quelli che proprio a fianco, qualche mese fa, avevano aperto una boutique per bambini con abiti firmatissimi (e prezzi in proporzione).

Quelli che l'anno scorso avevano preso il posto del negozio di articoli per la casa Epicentro, migrato in Frezzeria anche per via dell'assedio orientale, e hanno aperto una bottega di guanti. Quelli che ogni mattina alzano la sarcinesca sulla sfilza di negozi di borse e scarpe dai dieci euro in su. «Una volta i cinesi si fermavano in periferia anche perchè gli affitti del centro erano troppo cari per loro - fa notare il presidente di Confesercenti, Piergiovanni Brunetta - adesso sono ovunque e sempre più spesso in zone di pregio, come per l'appunto calle dei Fabbri o calle dei Fuseri. Per fermarli non si può far niente se non attenti controlli fiscali. Ormai siamo al paradosso di vedere nei bar i cinesi che servono cicchetti veneziani». Calle dei Fabbri è diventata un caso emblematico anche per la velocità di espansione del commercio cinese.

Iniziò tutto qualche anno fa, quando al posto dell'antiquiario all'inizio della calle arrivò il primo cinese di borse. Poi ne seguirono altri. Quindi il salto di qualità, con l'apertua di tre bar, uno in fila all'altro. Dai bar alle piccole boutique: quella dei guanti e quella di vestiti per bambini fino alla pasticceria. Nella vicina calle dei Fuseri non va meglio. Chiudono i negozi veneziani e continuano ad aprire cinesi: tutto in famiglia, fino alle 10 di sera, senza un giorno di riposo.

Nessun commento: