giovedì 31 marzo 2011

Federali-Sera. 31 marzo 2011. Oggi a palazzo Chigi con il governo abbiamo soltanto fatto chiacchiere e propaganda. Si è parlato cioè di una emergenza che non c'è: quella dei profughi. Di quella che invece c'è, ed è grave, vale a dire degli immigrati, non si è parlato affatto. Se la vita fosse davvero solo uno show e tutto dipendesse dal modo in cui è allestita la messa in scena e sono puntate le telecamere, l’Italia sarebbe il Paese più felice del mondo e Berlusconi l’uomo più adatto a governarla.

The show must go on:
Dopo lo show i problemi torneranno.
Sull'Orlo del Precipizio.
L'Italia così piccola tra le grandi

Luis e' coraggioso, lo dicono tutti:
Bozen. Pan: «La pista va allungata adesso basta con i no. La Provincia tenga duro».

Negri in padania, tra pochi giorni:
Udin. Profughi, Tondo firma a Roma. La leghista Seganti dice no.
Pordenone. Profughi, no al Ciaurlèc.
Venezia. Profughi, siti scelti dalle Regioni.
Profughi, Zanonato critica Maroni
Modena. A Modena 600 profughi ospitati per un anno.
Reggio Emilia. Profughi in arrivo ma non andranno solo a Cella.
Bologna. Dall’Africa all’ex polveriera.
La Francia blocca i migranti, Ventimiglia rischia il collasso
Pisa. Trattori e catene contro la tendopoli.
Gli italiani confusi dal balletto di cifre sul rischio invasione

Yogurt acido:
Anche lo yogurt è strategico per l’Italia.
Un fondo strategico per le imprese.
Mattei non avrebbe fatto bombardare la Libia.


Dopo lo show i problemi torneranno. MARCELLO SORGI. Se la vita fosse davvero solo uno show e tutto dipendesse dal modo in cui è allestita la messa in scena e sono puntate le telecamere, l’Italia sarebbe il Paese più felice del mondo e Berlusconi l’uomo più adatto a governarla.

Dopo aver assistito per giorni e giorni alle repliche di un film del genere catastrofico, che avrebbe potuto benissimo intitolarsi «L’invasione», i cittadini telespettatori ieri si sono trovati di fronte a un’altra storia, titolabile, forse, «Lo sgombero» o «L’isola delle meraviglie».

L’arrivo di Berlusconi in una Lampedusa ridotta allo stremo, dove ormai migranti e isolani convivevano in condizioni di stenti e con la forza della disperazione, ha dato vita a un brusco cambio di programma. All’orizzonte, all’improvviso, si sono materializzate due navi, delle sei che, stando agli impegni, sarebbero dovute arrivare in nottata. Duemila poliziotti hanno preso il controllo del centro abitato e delle coste. Docce e gabinetti chimici invocati per giorni, da una comunità che ha rischiato l’epidemia, sono stati montati in bella vista. Gli immigrati, subito rifocillati e muniti di bottigliette d’acqua minerale, sono stati avviati gentilmente a bordo, dove i marinai li accoglievano quasi come croceristi.

Ma il clou, dopo un breve consiglio comunale, nella piazza gremita di una folla plaudente, è arrivato con il discorso pubblico del premier, che ha dato vita a uno spettacolo dei suoi. Si sa: non c’è uomo politico che al cospetto di una massa di gente non si lasci andare a promesse e non cerchi di incantarla con le armi della retorica. Ma Berlusconi - questo almeno gli va riconosciuto - è al di fuori e al di sopra di ogni tradizione e precedente. Annunciato da squadre di netturbini che lustravano ogni angolo della piazza, il Cavaliere ha esordito scusandosi per i disagi subiti dalla popolazione e impegnandosi a riconsegnare Lampedusa ai lampedusani entro 48-60 ore. Poi ha proseguito con un gioco pirotecnico di proposte, dal Nobel per la pace da assegnare all'isola per le sofferenze patite a causa della crisi internazionale, alla moratoria fiscale, previdenziale e bancaria, a un piano per il turismo, rovinato dalla trasformazione del luogo in un rudimentale campo profughi. Botto finale, l’annuncio dell’acquisto di una villa a Cala Francese, «Le due Palme», comperata per un milione e mezzo direttamente su Internet, senza neppure visitarla: perché da oggi, così ha concluso Berlusconi tra gli applausi, «anch’io diventerò lampedusano!».

Se meno della metà degli impegni assunti fosse realizzabile, occorrerebbe togliersi il cappello davanti a un presidente del Consiglio che ci mette la faccia e cerca di rimediare in prima persona all’incapacità dimostrata dal suo governo nelle settimane passate. Ma Berlusconi, purtroppo, è il primo a sapere che non sarà così. Lo sgombero dei seimila immigrati clandestini avverrà in un quadro di incertezza, perché per molti di loro non c’è ancora una destinazione certa e nei luoghi che dovrebbero accoglierli già si preparano proteste della popolazione civile, che contesta le parzialità di un piano messo a punto dal ministro leghista dell’Interno, che prevede di considerare le regioni del Nord in gran parte sature di immigrati regolari e destinare al Centro e al Sud i clandestini, in attesa di rispedirli a casa.

Anche l’operazione rimpatrio, però, si presenta problematica, a causa della scarsezza di interlocutori attendibili nei Paesi dell’Africa del Nord appena usciti da un cambio di regime, o ancora in piena transizione. Per non parlare dei migranti provenienti dalla Libia, i cui arrivi sono ripresi negli ultimi giorni, e che, fuggendo da un teatro di guerra, in nessun caso sono da considerarsi clandestini rimpatriabili. Nello scenario peggiore - ciò che è sempre prudente prevedere in emergenze come queste - Lampedusa potrebbe dunque essere evacuata per essere rapidamente rioccupata, complice il peggioramento della situazione libica e il miglioramento del clima che rende le traversate più agevoli.

Nelle stesse ore, più o meno, in cui Berlusconi dava vita al suo happening lampedusano, un portavoce della Commissione europea ribadiva che dall’Unione l’Italia non può aspettarsi alcun aiuto. Si potrà ancora negoziare, certo, e si potranno adoperare tutti gli strumenti diplomatici a disposizione: ma sarà opportuno cominciare a fare i conti con un’Europa rigida nel valutare quello di Lampedusa, non un aspetto delicato della crisi internazionale a cui, seppure con molte smagliature, la Comunità di Paesi del Vecchio Continente sta cercando insieme agli Usa di trovare una soluzione. Ma, più semplicemente, ed esclusivamente, «un problema italiano». Che poi l’Italia da sola non possa farcela a risolverlo e a fronteggiare un’ondata migratoria diretta anche verso Francia e Germania, dove vivono e lavorano i parenti di molti dei disperati approdati sulle coste lampedusane, al resto d'Europa non sembra importare un granché.

Così, prepariamoci: sgovernata e priva di aiuti qualificati, l’invasione cancellata frettolosamente dai teleschermi è destinata a riproporsi allo stesso modo, se non aggravata, nei prossimi giorni. Tal che è possibile prevedere anche il seguito del disastroso reality appena cominciato: senza la via d’uscita degli aiuti stranieri, riavremo la guerra civile tra le regioni che aveva già infangato l’immagine dell’Italia al tempo della crisi della mondezza di Napoli. Con la differenza che ad essere spediti avanti e indietro, o lasciati a marcire in mancanza di soluzioni, non saranno sacchi di rifiuti. Ma uomini, donne e bambini come quelli che tutte le sere dagli schermi delle tv ci guardano con i loro occhi tristi e ci mostrano le pance vuote.

Sull'Orlo del Precipizio. Malgrado l'esortazione di Giorgio Napolitano da New York, la politica italiana ha conosciuto ieri una delle giornate più convulse e sguaiate della storia repubblicana. Ma se si voleva dare plastica rappresentazione del male che secondo il capo dello Stato affligge il nostro sistema politico, a cominciare da un'atmosfera di guerriglia nutrita dalla sistematica e reciproca delegittimazione delle parti, ieri il copione è stato purtroppo recitato alla perfezione. Non un insulto è stato risparmiato nella caotica follia che ha investito e avvilito ieri il Parlamento e la piazza antistante. Non un urlo rauco, non un'invettiva, un gesto di disprezzo, un'espressione smodata, una manifestazione di odio: tutto concentrato in una manciata d'ore. E nessuno ne esce con un profilo di decoro e di innocenza. Nessuno.

Non la maggioranza di governo, che non ha esitato a svilire la riforma della giustizia, riducendola con un escamotage parlamentare a scudo per le vicende giudiziarie del premier. Non l'opposizione, tentata addirittura da velleità aventiniane, e che sembra succube di una frenesia da megafono: quella che trasferisce la discussione parlamentare, anche vivace e dura, nell'incandescenza del comizio. Non i ministri che scambiano con il presidente della Camera battute irripetibili. Non il clima da stadio che ha stravolto l'aula di Montecitorio. Non le scene di linciaggio simulato che riesumano le pagine peggiori della guerriglia delegittimante di cui ha parlato il presidente della Repubblica e che riportano ai riti di piazza in auge nella stagione di Mani Pulite: lo spettacolo sconsolante delle monetine, l'assedio al Parlamento, i politici «nemici» bollati indistintamente come «mafiosi».

Difficile distribuire colpe e responsabilità. Quando domina la rissa, non si riesce più a distinguere i colpi dati e quelli incassati. Ma colpisce la disponibilità alla rissa continua. La pretestuosità con cui si coglie ogni occasione per inscenare la solita liturgia della guerra civile «a bassa intensità», come è stata definita. Ancor più pretestuosa e colpevole quando a pochi chilometri dall'Italia la scena della guerra non è una liturgia, ma una terribile realtà. Non è che la guerra debba silenziare ogni conflitto, o che un'atmosfera di mistica unità nazionale debba anestetizzare il dissenso, o addomesticare la discussione parlamentare. Ma nemmeno può valere il contrario: la politica della provocazione quotidiana e permanente, il braccio di ferro continuo, una spirale di ritorsioni che si avvita senza fine. Lo spettacolo di ieri ha dato a questo scenario intossicato una teatralità di gesti che contribuisce ad alimentare un'atmosfera di ultimatum permanente. Quanto la rissa continua stia nelle corde popolari o non emani piuttosto dal clima chiuso e avvelenato dei palazzi della politica è difficile dire. Ma non è difficile capire che l'orlo del precipizio è vicino. Tra insulti e monetine, rischiamo addirittura di non accorgercene.
Pierluigi Battista

L'Italia così piccola tra le grandi
Sull'isolamento pesa il fallimento della politica estera. di Marco Bertoncini. Più la crisi libica si allunga, peggio appare la politica estera italiana. Un dato di fatto è indiscutibile: nel concerto prima europeo, poi mondiale, abbiamo sempre contato poco. Fin dall'Unità, pretendevamo di assiderci al tavolo delle grandi potenze, ma, anche quando formalmente una posizione di tal fatta ci veniva o ci viene riconosciuta, in concreto eravamo e siamo ritenuti una potenza di medio livello, regionale, si direbbe oggi.

Nei momenti migliori, potemmo essere considerati la maggiore fra le minori. È un destino che tale è rimasto: dall'epoca liberale, al ventennio fascista, dalla guerra fredda, al terzo millennio. Che poco contassimo, si vide quando eravamo fra «i quattro grandi», vincitori dell'immane primo conflitto mondiale: Francia, Regno Unito e Stati Uniti si disinteressavano delle nostre richieste o facevamo l'impossibile per negarci spazio. Appunto: formalmente grandi, concretamente medi o perfino insignificanti. Soltanto in alcune circostanze esterne ed estreme, di carattere bellico, contammo, venimmo coccolati, fummo guardati con rispetto o timore (nel 1914-'15, per esempio, o in occasione della guerra d'Etiopia).

Man mano escono documenti, ufficiali o riservati, concernenti la politica estera di alleati o nemici (dai rapporti degli ambasciatori, ai messaggi recentemente divulgati da Wikileaks), si conferma che, per prestigio, influenza, affidabilità (in quest'ultimo caso, ci sono alcune eccezioni per l'appoggio di Silvio Berlusconi alla politica estera americana), l'Italia nella stima generale sta a un livello basso. Contiamo, essenzialmente, per ragioni geostrategiche e, molto meno, economiche. E questo, indipendentemente dalla maggioranza pro tempore: centrismo, centro-sinistra, compromesso storico, pentapartito, Berlusconi, Prodi...

Ciò premesso, va altresì detto che un'immagine di totale sbandamento, come quella fornita dallo scoppio delle rivolte arabe a oggi, mai era apparsa. A mettere in fila le dichiarazioni del titolare degli Esteri e quelle, ben più parche, del presidente del Consiglio, aggiungendovi poi i retroscena (almeno quelli più credibili), si resta angosciati. Mancanza totale di continuità, cambiamenti di prospettiva nel giro di quarantott'ore, proposte abortite, incredibili dichiarazioni di soddisfazione alternate ad ammissioni d'impotente rabbia, isolamento sostanziale solo attutito da parziali (più auspicate che reali) convergenze con la posizione di alcuni Stati: si è visto di tutto. Anzi, di troppo.

Trovarsi in condizioni d'inferiorità internazionale è, in buona sostanza, per noi un'abitudine. Fare l'impossibile per restare soli, privi di soluzioni, incerti, al rimorchio di altri, come è capitato in queste settimane, è davvero senza precedenti. In fondo, quell'Alcide De Gasperi che, voce di un Paese sconfitto, parlò a Parigi di fronte ai vincitori, ci appare oggi in condizioni migliori di quelle in cui si barcamenano Franco Frattini e Berlusconi (in accordo? in disaccordo?) in Europa. Almeno, quell'Italia prostrata sapeva quel che voleva, cioè sopravvivere per risorgere, mentre l'Italia di oggi, nella guerra libica, non si sa che cosa volesse, che cosa voglia e che cosa vorrà. Che poi il nostro paese non ottenga, è altro fatto, meno grave dell'incertezza (o addirittura della contraddittorietà) delle posizioni da noi assunte. Anche perché questa mancanza di strategia e persino di tattica fa scemare ancor più lo scarso credito mondiale di cui possiamo fruire.



Bozen. Pan: «La pista va allungata adesso basta con i no. La Provincia tenga duro». BOLZANO. «Basta con i no, perché mettono a repentaglio il benessere di questa terra. A farne le spese sarebbe soprattutto la parte più debole della popolazione». Il presidente di Assoimprenditori Stefan Pan apprezza il "coraggio" dimostrato dal presidente Durnwalder nella partita aeroporto e lo incita a tenere duro.  L'OPPOSIZIONE. Ad opporsi all'allungamento di 104 metri della pista sono soprattutto ambientalisti e contadini. Un'opposizione che al momento del voto, lunedì, ha spaccato anche la giunta: hanno votato contro il piano di sviluppo dell'aeroporto gli assessori Michl Laimer e Sabina Kasslatter-Mur. Una patata bollente per il partito nonostante il referendum di un anno e mezzo fa sia fallito per mancanza del quorum.  LA RAGGIUNGIBILITÀ. «Oggi più che mai - sostiene con forza Pan - la raggiungibilità di un territorio è sinonimo di ricchezza e prosperità delle famiglie che ci abitano. È bene che, chi all'interno dei diversi schieramenti dice no a tutto, queste cose le sappia. Perché rischia di condannare questa terra all'impoverimento oltre che economico anche culturale e scientifico, visto che personalità di un certo livello hanno sempre poco tempo e se non c'è un aeroporto, da noi non vengono». Il presidente di Assoimprenditori si riferisce in particolare al no all'ampliamento dell'aeroporto e al no al tunnel del Brennero. «Chi governa ha il dovere di confrontarsi con i cittadini e spiegare le ragioni di quello che si sta facendo, ma alla fine deve decidere come ha fatto Durnwalder. Si diventa territorio di serie B se si hanno problemi di raggiungibilità». Di questo è convinto anche l'assessore Thomas Widmann che però da politico conosce anche l'importanza della mediazione: «Metteremo intorno ad un tavolo imprese, sindacati, ambientalisti, Comuni, uffici provinciali: spiegheremo che si opera nel pieno rispetto della mediazione del 2007, in più c'è solo un piccolo adeguamento  della pista. Alla fine si troverà l'intesa e partiranno i lavori».   IL TURISMO.
«Quindici anni fa - dice Pan - quando i turisti si fermavano dai 7 ai 10 giorni, per far funzionare il turismo bisognava portare in Alto Adige circa 3 milioni di ospiti all'anno. Oggi la durata della vacanza è di 3-4 giorni e ci serve un numero doppio per riempire gli alberghi. È un turismo mordi e fuggi. Per questo è indispensabile avere un aeroporto che funzioni. Se si allunga la pista di 104 metri nessuno se ne accorge, questa ormai è un'opposizione di principio. Non ci si rende conto che un autobus è molto più rumoroso di un aereo?».  LA MEBO. A chi oggi si oppone all'aeroporto, Pan ricorda le battaglie condotte, negli anni passati, da Verdi e ambientalisti contro la Mebo. «A sentire gli oppositori, la nuova arteria avrebbe provocato una serie di disastri. È stata realizzata e non è successo nulla di tutto questo. Anzi. I paesini lungo la vecchia strada per Merano sono rifioriti. Il numero degli incidenti ha subìto una drastica riduzione. L'economia dell'area meranese ne ha beneficato, perché è migliorata la raggiungibilità. E di questo non ne beneficiano solo gli imprenditori ma tutte le famiglie che abitano in questa terra». (an.ma)

Udin. Profughi, Tondo firma a Roma. La leghista Seganti dice no. di Anna Buttazzoni
Il presidente sigla il piano per l'accoglienza, ma nella maggioranza è scontro. Serracchiani: da Lega e premier utilizzo immorale di un’emergenza
UDINE. Anche il governatore Renzo Tondo ha firmato l'intesa tra Regioni e governo per l'accoglienza ai profughi. «Ma non ho nulla da dire - spiega in tarda sera il presidente Fvg -, perché non vanno alimentate polemiche e perché al momento non si pone alcun problema».

Nel pomeriggio il "suo" assessore alla Sicurezza, la leghista Federica Seganti, è invece stata risoluta. «Non ritengo che questa Regione debba assumersi responsabilità. Attualmente non è stato individuato alcun sito - ha detto Seganti - e penso che non sarà individuato in regione nemmeno nelle prossime settimane».

Incalzata in Consiglio dalle domande di Pd, Cittadini e Misto, l'assessore ha poi ricordato che in Fvg pesano già le attività della base Usaf di Aviano, del Cie e del Cara di Gradisca d'Isonzo. E, dopo un incontro in Prefettura a Trieste, Seganti ha escluso le ipotesi di Clauzetto e Sgonico come luoghi per l'accoglienza, ipotesi emerse nei giorni scorsi. «Stiamo lavorando sulle modalità e i criteri per la scelta dei siti. Siamo riusciti a far passare il criterio secondo cui - ha esplicitato Seganti -, se ci sarà un elenco delle località, le caserme messe a disposizione saranno quelle di proprietà dello Stato e non quelle già trasferite ai Comuni».

Un criterio che escluderebbe Sgonico, sul Carso triestino, gestita dal Comune di Trieste. E per improbabile è data anche la scelta di Clauzetto, perché non distante dalla base di Aviano. Seganti ha quindi concluso: «Forse in Fvg eventuali centri di accoglienza temporanei non ce ne saranno proprio».

Eppure Paolo Ciani, coordinatore regionale del Fli e consigliere regionale, ha riferito di «richieste esplorative di preventivi economici per sistemare velocemente la caserma di Gemona “Goi Pantanali”. Auspichiamo - ha concluso Ciani - che Tondo sappia non subire passivamente imposizione dei ministri Maroni e La Russa, dando indicazioni per la gestione dei profughi e non dei clandestini».

Il dibattito ha animato ieri i lavori del Consiglio regionale, dove oggi verrà discussa una mozione della Lega per opporsi agli arrivi in regione. A presentare interrogazioni a Seganti sono stati Edouard Ballaman (Misto), Annamaria Menosso (Pd) e di Stefano Alunni Barbarossa (Cittadini). E se quest'ultimo si è detto stupito «dall'atteggiamento troppo attendista della giunta», Ballaman ha lanciato una provocazione: «Va bene accogliere le tendopoli degli immigrati in Friuli Vg solo quando il presidente della Repubblica metterà a disposizione in egual maniera la tenuta presidenziale di Castelporziano».

Critico il Pd. «Evidentemente l'appello del Capo dello Stato a una disponibilità diffusa tra le Regioni per risolvere il problema di Lampedusa - ha sottolineato Franco Codega (Pd) - non ha fatto breccia sul governo regionale. La soluzione è la tendopoli, a casa d'altri. Una soluzione sbagliata dai punti di vista sanitario, logistico e abitativo».

Idv, per voce del consigliere Enio Agnola, ha invece proposto l'utilizzo delle caserme dismesse, per ospitalità provvisoria. «Il Fvg - ha spiegato Agnola - non è in grado di gestire presenze a lungo termine, perché si creerebbero squilibri ingestibili».

«Quel che nausea davvero è l'utilizzo immorale di un'emergenza umanitaria per acchiappare un pugno di voti, come fa la Lega, o per sfuggire alla giustizia, come fa Berlusconi». Così Debora Serracchiani, eurodeputata e segretaria regionale del Pd, che affida queste considerazioni al suo blog commentando la visita di ieri a Lampedusa del premier.

«Dopo la ricostruzione invisibile dell'Aquila e la sparizione fittizia delle immondizie di Napoli, ora il governo-show di Berlusconi si trasferisce a Lampedusa. Diventa sempre più comprensibile a tutti - spiega Serracchiani - il motivo per cui l'Italia è trattata come un partner folkloristico, una specie di parente povero che viene messo alla porta quando si parla di cose serie. È infatti del tutto inutile fare fumo rinfacciando all'Europa di essere assente quando poi dall'estero assistono a queste pagliacciate, e il primo a latitare è proprio il governo, che dovrebbe ammettere di aver fallito la gestione di un'emergenza annunciata da tempo».

Pordenone. Profughi, no al Ciaurlèc. Resta l'opzione caserme. di Stefano Polzot
La provincia ospita già la Base di Aviano, niente tendopoli a Clauzetto. Si guarda alle strutture militari statali, ma la Monti per ora non è coinvolta. PORDENONE. Con i decolli e gli atterraggi quotidiani di aerei militari dalla Base americana di Aviano, la provincia di Pordenone avrebbe già dato sul fronte dell'emergenza libica. E' una delle motivazioni per le quali, allo stato attuale, il Friuli occidentale sarebbe escluso dall'arrivo di profughi in trasferimento da Lampedusa. Una valutazione che vale per il presente, non per il futuro.

Da Prefettura, Provincia, sindaci e dalle altre istituzioni del territorio la cautela è d'obbligo perché la situazione è talmente in evoluzione, anche rispetto agli sbarchi previsti nei prossimi giorni, che quello che oggi è certo, domani non lo è più. Cosi non resta che affidarsi ai dati oggettivi del momento, il primo dei quali fa tirare un sospiro di sollievo al sindaco di Clauzetto, Giuliano Cescutti, per alcuni giorni finito nel vortice delle possibili localizzazioni nel territorio che amministra, un'ipotesi che è tramontata.

Ufficialmente per la vicinanza alla Base di Aviano, in realtà in quanto il poligono del Ciaurlèc invece di risolvere i problemi li complica: collegamenti impervi, area difficile da controllare, possibile presenza di ordigni inesplosi, attestazione di sito di interesse comunitario e quindi sotto tutela.

Via il Ciaurlèc, cosa resta? Le caserme, ma solo quelle che sono ancora nella disponibilità dello Stato, parzialmente o per nulla occupate. Così non dovrebbero preoccuparsi, a esempio, i sindaci di San Vito al Tagliamento e Arzene, per le rispettive strutture militari, mentre resta un lungo elenco di altri edifici, che vanno dalla Monti in Comina fino alle strutture presenti nello spilimberghese. Per il momento, però, nulla si muove e quindi difficilmente ci potranno essere allestimenti di strutture militari (che comunque vanno preparate per l'arrivo di centinaia di persone) in tempi brevi.

Fonti ministeriali, peraltro, attraverso il prefetto di Trieste, assicurano che prima dell'individuazione dei siti ci sarà il coinvolgimento delle autonomie locali. Un tema che apre il dibattito politico dopo il deposito della mozione leghista che impegna il presidente della Provincia a non accettare alcun profugo.

«E' sconcertante - afferma il segretario cittadino del Partito democratico, Walter Manzon - che né la Prefettura di Pordenone, né la Provincia abbiano ricevuto comunicazioni ufficiali. Delle due l'una: o il Governo versa in un evidente stato di confusione, oppure vi è una precisa volontà di ingenerare forte disagio organizzativo nei territori per indurre gli amministratori a rifiutare gli arrivi attribuendo loro la responsabilità della non accoglienza. In realtà la questione sta mettendo in crisi i rapporti interni al centro-destra, come dimostrano il pronunciamento di Ciriani e l'iniziativa leghista».

Venezia. Profughi, siti scelti dalle Regioni. Zaia: «Per ora solo duemila libici»
Vertice a Roma, il ministro Maroni avvisa i governatori: mille ogni milione di abitanti. Zanonato: «Il vero allarme sono i clandestini e il governo non ne parla». VENEZIA — Mentre il premier Silvio Berlusconi arringava la gente di Lampedusa garantendo che «l’isola sarà liberata dai clandestini nel giro di 48/60 ore», il ministro Roberto Maroni incontrava a Roma i governatori, l’Anci e le Province per ribadire: «Siano le Regioni, insieme agli enti locali, a indicare i siti per l’accoglienza degli immigrati dal Nordafrica». Nel corso della Conferenza unificata, alla quale hanno partecipato anche i colleghi Ferruccio Fazio (Sanità) e Raffaele Fitto (Rapporti con le Regioni) oltre al sottosegretario alla presidenza Gianni Letta, il responsabile dell’Interno ha confermato la previsione di circa 50 mila rifugiati in arrivo in Italia. E ha ribadito che saranno ripartiti tra le Regioni in base al numero di abitanti: mille ogni milione di residenti. Calcolo che dunque imporrebbe al Veneto, forte di 4,8 milioni di cittadini, circa 5 mila presenze. Numero più che mai indicativo, visto che secondo il presidente Luca Zaia al momento le persone realmente scappate dalla guerra e approdate in Sicilia sarebbero solo 2 mila, ridotte invece a zero da Flavio Zanonato, sindaco di Padova e vicepresidente nazionale Anci con delega all’immigrazione.

Entrambi erano presenti all’incontro con Maroni. «La mia gente sta dando prova di grande civiltà — dichiara il governatore del Veneto—noi infatti siamo disponibili a stare al fianco del ministro dell’Interno per tutta la partita dei profughi, che al momento in Italia sono però solo duemila. Si tratta di donne, bambini e anziani provenienti da Libia, Eritrea e Somalia, che hanno diritto all’asilo politico, in virtù di un accordo del 1951. Non vanno confusi con i 21.725 extracomunitari sbarcati a Lampedusa negli ultimi tre mesi: tunisini nella stragrande maggioranza dei casi illegali e che non stanno certo scappando da carestie o guerre civili. Mi risulta infatti che in Tunisia le imprese siano tutte attive e la vita, a due mesi dalla rivolta, sia ripresa normalmente». Poi la frecciata. «E’ facile distinguere i clandestini dai profughi: i primi spesso hanno scarpe griffate, giubbini puliti e occhiali da sole». E infatti Maroni ha garantito che dei tunisini clandestini non devono preoccuparsi le Regioni, perchè a loro ci penserà direttamente il Viminale. Esternazione che scatena le critiche di Zanonato: «La questione profughi non è oggi un’emergenza, visto che libici non ce ne sono. La vera emergenza sono gli arrivi a Lampedusa, i barconi carichi di esseri umani, le 6 mila persone che sono nell’isola e le 10 mila che non si capisce dove siano finite.

Di questo problema Maroni non parla né spiega come lo affronterà, lasciando all’oscuro Regioni ed enti locali. La Tunisia si riprenderà pochi clandestini e in tempi lunghi, quindi la maggioranza di loro continuerà a rimanere nelle tendopoli non si sa ancora per quanto tempo. Intanto — aggiunge il sindaco padovano — si fanno riunioni per decidere dove collocare 50 mila rifugiati libici che finora nessuno ha visto. Ci è stato detto che saranno le Regioni a stabilire la locazione dei campi profughi, ma evidentemente sono chiamate ad affrontare un allarme inesistente. Siamo andati a Palazzo Chigi per sentire chiacchiere e propaganda». Nemmeno il portavoce dell’Anci lesina le mazzate. Riferendosi all’acquisto di un’abitazione a Lampedusa annunciato ieri da Berlusconi, commenta: «Io non ho i soldi per comprarmi una casa nell’isola, sto pensando seriamente di affittare un bungalow».
Michela Nicolussi Moro

Profughi, Zanonato critica Maroni
Altri otto clandestini in fuga trovati a Padova
Il sindaco e vicepresidente dell'Anci: "Oggi a palazzo Chigi abbiamo fatto solo chiacchiere e propaganda. Si è parlato di un'emergenza che non c'è, quella dei profughi. L'emergenza sbarchi a Lampedusa il ministro non dice come l'affronterà". I fermati in città erano scappati da una tendopoli in Puglia. ROMA. ''Oggi a palazzo Chigi con il governo abbiamo soltanto fatto chiacchiere e propaganda. Si è parlato cioè di una emergenza che non c'è: quella dei profughi. Di quella che invece c'è, ed è grave, vale a dire degli immigrati, non si è parlato affatto''. Così Flavio Zanonato, sindaco di Padova e vicepresidente dell'Associazione nazionale Comuni d'Italia (Anci) con delega all'immigrazione, ha riassunto l'incontro di oggi a palazzo Chigi tra Regioni e autonomie locali e una rappresentanza del governo guidata dal sottosegretario Gianni Letta e dal ministro dell'Interno, Roberto Maroni.

Dei tanti arrivi dei barconi con i clandestini, ha spiegato Zanonato, ''il ministro Maroni ha spiegato che ciò sarà compito del Viminale. E tutto ciò - sottolinea - a fronte di 2 mila profughi che il nostro sistema Sprar può sistemare entro domani mattina''.

''Francamente non riesco a capire - ha osservato ancora il sindaco - come si possa parlare di un allarme profughi quando questi non ci sono. Giudico invece sconfortante la risposta del ministro Maroni, che ha garantito che dei clandestini se ne occuperà lui''.

Per quanto riguarda la locazione dei campi profughi ''ci e' stato detto che se ne occuperanno le Regioni, le quali quindi dovranno affrontare - ha ribadito - una emergenza che al momento non c'è. Purtroppo la Lega Nord pensa anche in questo caso di utilizzare l'emergenza clandestini per prendere voti. Il tutto alla luce - ha insistito Zanonato - del fatto che la Tunisia si riprenderà pochi clandestini e in tempi lunghi. E ciò significa cha la maggioranza dei clandestini continuerà a rimanere nelle tendopoli non si sa ancora per quanto tempo''.

''La vera emergenza - è stata l'accusa di Zanonato - quella di cui parla il Paese, sono gli sbarchi a Lampedusa, i barconi carichi di esseri umani, le 6 mila persone che sono nell'isola e le 10 mila persone che non si capisce dove sono finite (qualcuno è arrivato anche a Padova). Di questa emergenza Maroni non parla né spiega come la affronterà, lasciando all'oscuro Regioni ed enti locali. Intanto si fanno riunioni per decidere dove collocare 50 mila profughi libici che finora nessuno ha visto''.

Zanonato ha poi concluso con una nota ironica: ''Anch'io sto pensando di affittare una casa a Lampedusa, e dico affittare anziché comprare perché non ho i soldi del presidente del Consiglio. Nel mio caso credo che affitterò un bungalow per fare propaganda''.

Modena. A Modena 600 profughi ospitati per un anno. Nessun Comune modenese è formalmente escluso dalla lista di paesi e città in cui sono si allestiranno le strutture di accoglienza: al primo monitoraggio che aveva portato all'individuazione di due edifici, in questi giorni si sono aggiunte nuove strutture idonee, messe a disposizione da enti locali e da associani sociali. MODENA. «Almeno un anno». É questo il periodo di permanenza nelle strutture modenesi per i circa 600 profughi provienti dai Paesi del Mediterraneo. Ad indicarlo, l'assessore comunale alle politiche sociali Francesca Maletti, al termine della riunione svoltasi ieri a Bologna tra i rappresentanti di Regioni, Province e Comuni con più di 50 mila abitanti.

Decine le strutture individuate. Difficile che le 48-60 ore indicate ieri dal premier Berlusconi per risolvere l'emergenza profughi a Lampedusa vengano rispettate. Quanto meno perchè la visita di ieri a sorpresa del premier nell'isola siciliana, dove sono approdati più di 6 mila immigrati, ha di fatto rinviato per l'ennesima volta il Consiglio dei ministri (e la successiva Conferenza unificata Stato-Regioni) per il via libera al piano nazionale predisposto dal ministro degli Interni Roberto Maroni.

Nessuna comunicazione ufficiale è arrivata alla Prefettura, a capo della catena di comando modenese, ma nella marcia di avvicinamento per predisporre le strutture di accoglienza, nuovi dettagli sono emersi nella riunione svoltasi a Bologna, a cui hanno partecipato i rappresentanti di Regioni, Upi e Anci. Presenti l'assessore provinciale alla protezione civile Stefano Vaccari, gli assessori comunali Francesca Maletti e Simona Arletti e il carpigiano Alberto Bellelli.

Nella riunione, gli amministratori locali hanno ribadito le condizioni che porteranno al tavolo previsto in giornata con il Governo: «Abbiamo confermato la disponibilità a mantenere gli impegni - spiega l'assessore regionale alla protezione civile Paola Gazzolo - le condizioni riguardano l'ospitalità dei profughi in tutte le Regioni, eccetto l'Abruzzo; la copertura economica integrale del Governo, senza che venga richiesta alcuna anticipazione a Regioni e enti locali; l'indisponibilità assoluta alla creazione di nuovi Cie e ad ospitare campi e tendopoli; la chiarezza nella catena di comando».

Nessun Comune modenese è formalmente escluso dalla lista di paesi e città in cui sono si allestiranno le strutture di accoglienza: al primo monitoraggio che aveva portato all'individuazione di due edifici, in questi giorni si sono aggiunte nuove strutture idonee, messe a disposizione da enti locali e da associani sociali. Dalla Provincia fanno sapere che la cifra potrebbe aumentare ulteriormente in base al numero e alla tipologia degli arrivi. Famiglie, singole persone, minori: «Tutti esclusivamente con lo status di rifugiati politici». «Cercheremo strutture per una distribuzione capillare. Nessuna palestra improvvisata nè campi all'aperto», aggiunge l'assessore comunale Maletti. A meno di correttivi dell'ultima ora, almeno 600 i profughi ospitati a Modena, secondo quel rapporto di mille immigrati ogni milione di abitanti annunciato dal ministro Maroni.

Reggio Emilia. Profughi in arrivo ma non andranno solo a Cella. Via alle ricognizioni: in arrivo per il momento tra gli 80 e i 100 stranieri. Ma i profughi sbarcati a Lampedusa non saranno trasferiti solo nekll'ex cantiere di Cella. Il Comune sta verificando la disponibilità anche di altri luoghi.
di Marco Martignoni
REGGIO. Non solo l'area della protezione civile in via Cella all'Oldo, ma anche altri siti - senza escludere a priori la collaborazione con i privati - potrebbero far parte di una ricognizione per valutare con attenzione gestione e rischi nell'ospitare i profughi sbarcati a Lampedusa. E' questa una delle novità emerse ieri mattina a Bologna durante la riunione convocata dal governatore Vasco Errani con i rappresentanti dei Comuni con più di 50mila abitanti. Il sindaco Graziano Delrio e l'assessore provinciale Luciano Gobbi hanno ribadito la loro posizione, dettando le condizioni necessarie per dare il via al piano d'emergenza. No tendopoli Il messaggio inviato al governo è molto chiaro.

Nessuno, nella nostra Regione, vuole delle tendopoli e quanto deciso dal Viminale sarà accettato solo se anche tutte le altre regioni - comprese quelle governate dalla Lega Nord - accetteranno la collaborazione richiesta dal ministro Maroni, tra l'altro esponente di spicco proprio del Carroccio. Dal punto di vista finanziario, lo stesso sindaco Delrio ha chiarito che gli enti locali non hanno alcuna risorsa da anticipare. Tradotto significa che i soldi per allestire l'accoglienza dei profughi dovranno essere anticipati dallo Stato. E ancora. Nessun'altra apertura di Centri di identificazione ed espulsione, anche perché sulla via Emilia ce ne sono già presenti due: a Modena e Bologna. Numeri e tempi Questi i fattori dove regna ancora la confusione. Dato ormai per certo che la Regione troverà l'accordo con il ministero dell'Interno, l'arrivo di profughi da Lampedusa dovrà essere graduale, sia nei numeri sia nei tempi. E' un'altra delle condizioni che ha posto il sindaco Delrio, anche perché sarà necessario sapere con anticipo il numero reale di stranieri che saranno dirottati a Reggio. Per il momento - ma ancora non c'è la certezza - in via Cella all'Oldo arriveranno tra gli 80 e i 100 stranieri. Numero massimo che quell'area può attualmente ospitare. Delrio, nella sua veste di responsabile della protezione civile, ha già attivato con l'assessore provinciale Luciano Gobbi, un piano per valutare attentamente la reale capienza della struttura di Cella. Un piano che dovrà anche prevedere quelle garanzie di sicurezza che lo stesso Delrio ha posto come priorità nell'incontro bolognese di ieri mattina. Una condizione necessaria, anche perché nei giorni scorsi - quando è trapelata la notizia del possibile arrivo di profughi a Cella - alcuni residenti di quella zona hanno espresso malumori e perplessità, puntando il dito proprio contro le recinzioni (quasi inesistenti) della struttura a ridosso della linea ferroviaria dell'Alta Velocità.

Solo libici Ieri il ministro degli Interni Maroni è stato chiaro: «I tunisini arrivati a Lampedusa saranno tutti rimpatriati». Lo ha ribadito il ministro nel corso del question time alla Camera, sottolineando che in ogni caso «se non si fermano gli sbarchi non si può far fronte a questa emergenza umanitaria. Ora parte il piano di evacuazione che porterà entro poche decine di ore all'evacuazione totale da Lampedusa dei cittadini extracomunitari». In ogni caso, i tunisini arrivati a Lampedusa, in quanto clandestini, «saranno accolti nei centri che ci sono già e in quelli ulteriori che abbiamo dovuto predisporre e, poi, saranno tutti rimpatriati in Tunisia. Questo è l'accordo che abbiamo fatto con le autorità tunisine - ha spiegato Maroni - che si sono impegnate, aiutate da noi, a fermare gli sbarchi. In Tunisia non c'è la guerra e dunque è solo questione di volontà. Credo - ha concluso il ministro - che le autorità abbiano ben compreso la necessità di intervenire e penso che, se l'accordo verrà attuato, nel giro di poco tempo si concluderà l'emergenza con il rimpatrio dei clandestini ma soprattutto con la prevenzione dei flussi così ingenti che sono arrivati dalla Tunisia».

Le dichiarazioni del ministro Maroni, ieri sono arrivate anche sul tavolo dei sindaci emiliani, tanto che anche gli stessi primi cittadini saranno chiamati ad organizzare un piano di emergenza solo per i profughi. E in questo senso, nelle prossime ore anche a Reggio partiranno tavoli tecnici anche l'Ausl e le associazioni di volontariato per poter garantire la massima efficienza all'arrivo degli stranieri.

Bologna. Dall’Africa all’ex polveriera. I profughi libici a Monteveglio?. La conferma arriva anche dal sindaco Ruscigno. L’assessore Gazzolo: "No a tendopoli e centri Cie". Bologna, 31 marzo 2011 - DOPO gli albanesi a Monteveglio potrebbero arrivare i profughi del Nord Africa. L’ex polveriera di Muzzano, località ai margini della zona industriale di via Cassola, sarebbe infatti uno dei luoghi della provincia elencati nel documento che la Prefettura ha trasmesso al ministero degli Interni come spazio per l’ospitalità temporanea dei fuggitivi dalle zone calde del Maghreb.

Conferma, pur con i condizionali del caso, il sindaco Daniele Ruscigno: «Non c’è nulla di certo e credo che Muzzano sia finito nell’elenco per via del precedente del 1997, quando ospitò i profughi dell’Albania. Ma da allora l’area militare è stata lasciata in completo abbandono. I tetti sono crollati, manca l’acqua. Non credo che così com’è possa essere utilizzata».
Nonostante nel ’97 la Lega Nord contestò duramente l’accoglienza dei profughi albanesi, oggi il capogruppo della Lega in consiglio comunale, Manuele Luppi, si dimostra più possibilista: «Ogni territorio deve fare il possibile per dare un contributo a questa emergenza. Ma questa ipotesi deve riguardare solo i profughi. Nessuno spazio per i clandestini». Intanto alla vigilia della formalizzazione del piano nazionale per la Libia da parte del Governo, ieri si sono riuniti i rappresentanti di Regione, Province e Comuni con più di 50 mila abitanti. «Abbiamo ribadito la disponibilità a mantenere gli impegni presi con il Governo alle condizioni proposte, da confermare nel piano nazionale — spiega l’assessore alla Protezione civile, Paola Gazzolo — come l’assenza di tendopoli e di centri Cie».
Gabriele Mignardi

La Francia blocca i migranti, Ventimiglia rischia il collasso
31 marzo 2011 Ventimiglia, la distribuzione delle coperte di ieri sera. Ventimiglia - I treni diretti in Francia, ormai, sono vuoti: di lì non si passa, ma i tunisini che a decine continuano ad arrivare a Ventimiglia non desistono e, a piedi, in taxi o sulle auto dei “passeur”, assediano la frontiera di Ponte San Ludovico, sul mare, e di Ponte San Luigi, a monte. Alcuni ce la fanno, ma la maggior parte continua a sbattere contro il “muro” alzato dai francesi. Si tratta di una «grave mancanza di solidarietà», secondo il nostro ministro degli Esteri, Franco Frattini, mentre il sottosegretario Sonia Viale annuncia la realizzazione di un centro di accoglienza temporaneo.

Ventimiglia, 1850 chilometri da Lampedusa, soffre problemi simili a quelli dell’isola siciliana, e si prepara a fare fronte ad altri arrivi dei tunisini: ottanta l’altra sera, duecento lunedì notte e così via, da settimane ormai. Una situazione «insostenibile», secondo il sindaco, Gaetano Scullino: «La città non può andare avanti in questo modo, da sola non può farcela», dice, seduto alla scrivania del suo ufficio, mentre in strada, alla spicciolata, passano gruppetti di stranieri.

Ieri sera, almeno, è stato aperto il corridoio della ex Dogana francese, uno stanzone dove poter accogliere i clandestini che passano la notte in stazione. È una soluzione temporanea, in attesa che sia pronto il centro di accoglienza temporaneo annunciato dal governo: sorgerà nel parco Merci delle Ferrovie, all’interno della ex caserma dei vigili del Fuoco, e sarà gestito dal volontariato. Una risposta concreta alle attese delle autorità locali e della cittadinanza, ha detto la sottosegretaria Viale. E anche il tentativo di garantire «adeguate condizioni igienico sanitarie per tutti».
Intanto, nel corso di un incontro a Roma, la Regione Liguria è tornata a chiedere al governo di gestire i costi dell’emergenza: il presidente, Claudio Burlando, punta il dito contro la Francia: «È ingiusto che mandi via gli immigrati. Ogni paese europeo deve fare la sua parte, tra l’altro i tunisini sono francofoni». Un’affinità che i tunisini arrivati sino a Ventimiglia, una manciata di chilometri dal confine, non fanno nulla per nascondere: «Il mio futuro e lì, se non passo oggi lo farò domani», promette Mohamed, piumino verde addosso e cappello con la visiera in testa, mentre a piedi s’incammina verso la frontiera; due suoi connazionali sfuggono al controllo della gendarmerie passando dagli scogli, ma sono due anziani francesi a passeggio che li notano e li fanno fermare: «Ce l’avevamo quasi fatta», commentano, mentre gli agenti francesi li identificano e li rispediscono indietro. Quattro di loro hanno addirittura rischiato la vita, stipati nel bagagliaio dell’auto di un “passeur”, che è stato arrestato. Li ha salvati la polizia italiana, che si è accorta di loro e li ha liberati quando ormai non avevano più aria: «Vogliamo andare in Francia, vogliamo una vita normale», ripetono i tunisini alla frontiera. Anche a costo di morire.

Pisa. Trattori e catene contro la tendopoli. «Qui non vogliamo i clandestini»
Centinaia le persone giunte al presidio di Coltano per sbarrare pacificamente l’accesso dei mezzi d’opera all’ex centro radar americano dove sarà allestita la tendopoli che accoglierà circa 500 migranti sbarcati a Lampedusa
PISA - Quattro donne, tra cui l’assessore alla politiche sociali del comune di Pisa, Maria Paola Ciccone, una incinta e una invalida, si sono incatenate questa mattina davanti ai trattori che bloccano la strada di accesso all’ex centro radar statunitense di Coltano dove il governo ha deciso di allestire una tendopoli che ospiterà circa 500 migranti provenienti da Lampedusa. Al presidio, al quale sono presenti anche alcuni sindaci dell’area pisana, è intervenuto il questore Salvatore Micillo, che si è fermato per alcuni minuti con i primi Cittadini.

Centinaia le persone giunte al presidio di Coltano per sbarrare pacificamente l’accesso dei mezzi d’opera all’ex centro radar americano dove sarà allestita la tendopoli che accoglierà circa 500 migranti sbarcati a Lampedusa. Oltre a tanta gente comune ci sono dalle 6 di oggi i sindaci della zona, guidati da quello di Pisa, Marco Filippeschi, e dal presidente della Provincia, Andrea Pieroni. La nottata è trascorsa tranquillamente e una ventina di persone ha scelto di dormire all’aperto per scongiurare il rischio di un intervento notturno dei tecnici incaricati dalla prefettura di effettuare operazioni logistiche al campo che di fatto avrebbe vanificato le proteste degli ultimi giorni. Ieri pomeriggio a Coltano alcune centinaia di persone avevano partecipato a una manifestazione che ha sancito l’inizio del presidio permanente.

Intanto, per discutere dell’intervento sull’area di Coltano si sta tenendo in Prefettura a Pisa un vertice a cui partecipano oltre al prefetto Antonio De Bonis, il sindaco di Pisa, Marco Filippeschi, il suo vice, Paolo Ghezzi, il presidente della Provincia, Andrea Pieroni e il presidente del parco Migliarino San Rossore Massaciuccoli, Giancarlo Lunardi: l’ex stazione radar statunitense, infatti, si trova all’interno di questa area naturale. Filippeschi ha spiegato che nell’incontro chiederà al Prefetto i provvedimenti necessari per avviare i lavori per realizzazione della tendopoli. «Noi rispettiamo le leggi edal momento nessun atto che ufficializzi l’intervento è stato presentato». Filippeschi ha poi sottolineato che gli amministratori chiederanno al Prefetto di farsi interprete col governo per «ripensare la decisione presa e rivalutare la proposta avanzata dalla regione», che prevede una distribuzione diffusa dei migranti in varie zone dei territori in localizzazioni più adeguate sotto il controllo delle associazioni di volontariato e gli enti locali.

Gli italiani confusi dal balletto di cifre sul rischio invasione
di Gian Carlo Blangiardo*.Certo non si può ancora dire come andrà a finire la questione degli sbarchi a Lampedusa, ma ciò che sembra sin da ora pienamente acquisito è il clima di confusione che il balletto delle cifre di questi ultimi tempi ha creato nell'opinione pubblica. Di fatto, la paura dell'invasione, alimentata dallo spettro delle centinaia di migliaia di potenziali clandestini "da sistemare", ha prevalso su una valutazione più oggettiva delle dinamiche migratorie e delle relative iniziative di governo, in atto o in cantiere.
Proviamo a fare brevemente uno sforzo per passare dal resoconto degli eventi al panorama delle prospettive. È ben vero che quasi 20 mila tunisini sbarcati in circa due mesi sono un dato indubbiamente preoccupante, ma è ragionevole accettare che tale dato venga semplicisticamente estrapolato in un bilancio finale di 120mila tunisini in un anno, magari affiancati da altrettanti libici e – perché no? – ad un numero ancora più consistente di "altri africani" (eritrei, etiopi, somali, nigeriani, maliani, e così via)?

La lettura della realtà che stiamo vivendo come Paese – e di cui ipotizziamo gli sviluppi – evidenzia problematiche senza dubbio serie e meritevoli di tutte le iniziative atte a governare un fenomeno che coinvolge un numero consistente di esseri umani, ma non deve in ogni caso prescindere da una attenta e onesta riflessione su due tipi di dati. Quelli del potenziale stock di candidati alla fuga – per sottrarsi a situazioni di pericolo per la propria vita, o più frequentemente, "solo" alla miseria e alla disoccupazione – e quelli relativi alla capacità del nostro sistema nell'accogliere e sostenere in condizioni dignitose, valorizzandone l'apporto, i possibili nuovi flussi.
Sul primo punto molto si è già detto in altre occasioni: la vera bomba migratoria si nasconde non tra i circa 10 milioni di tunisini o i meno di 7 milioni di libici, ma tra le decine di milioni di giovani che nell'Africa sub-sahariana vivono senza prospettive e con la crescente consapevolezza che «esiste un altro mondo». D'altra parte – giusto per fare un caso limite – se un giovane della Liberia, dove il reddito pro capite annuo è di 300 dollari, si accorge che il guadagno netto di un immigrato illegale che lavora in nero in Lombardia è anche solo di 800 euro al mese, non è logico che sia tentato a correre i rischi della traversata? La questione è se sia opportuno, oltre che legittimo, incoraggiarlo (quand'anche involontariamente) a una simile scelta, lasciandogli intravedere posizioni e atteggiamenti relativamente "morbidi" sul fronte del contrasto agli sbarchi. La verità è che bisognerebbe avere il coraggio – e già oggi ne avremmo il pretesto e le argomentazioni razionali – per affrontare "seriamente" il problema dello sviluppo dell'Africa (sub-sahariana in primo luogo).

Quanto poi al tema della sostenibilità dei nuovi arrivi verrebbe da dire che in un Paese in cui vengono assorbite annualmente oltre 400mila immigrazioni nette - come è appunto avvenuto in Italia dalla fine dello scorso decennio – non saranno certo 50mila ingressi in più a cambiare le cose. In realtà la questione è ben più complessa. Si ha infatti l'impressione che oggigiorno non si tratti di gestire una tantum l'emergenza dovuta a flussi economici ben localizzati, come lo furono quelli albanesi degli anni '90, bensì di accettare che circoli l'idea secondo cui «in Italia è comunque possibile». La necessità è di tenere – in questa e nelle ulteriori prossime occasioni che certo non mancheranno – un atteggiamento che sia rispettoso dei diritti umani, ma al tempo stesso fermo nel richiedere un analogo rispetto delle leggi in vigore. Anche perché mantenere un'immigrazione sostenibile è la necessaria premessa non solo per garantire una buona qualità della vita agli stessi immigrati, ma anche (soprattutto) poter dare a tutti loro - in un contesto di risorse sempre più sotto taglio - l'opportunità di realizzare pienamente il percorso della loro integrazione nella società italiana.
* Fondazione Ismu/Università Milano Bicocca

Anche lo yogurt è strategico per l’Italia. [Articolo originale "Italy's yogurt is also strategic"]. 24 marzo 2011. Pubblicato in: Gran Bretagna. Traduzione di ItaliaDallEstero.infoLe Alpi non sono sufficientemente alte per ostacolare i predoni gallici. Ai primi del mese LVMH, un gigante parigino dei beni di lusso, si è fuso con Bulgari, la famiglia di gioiellieri romani; di recente, inoltre, le aziende francesi hanno avuto nel mirino una compagnia di assicurazioni e una di energia. Ora anche latte, yogust e formaggio sono sul piatto.
Il 22 marzo Lactalis, una azienda di latticini francese, ha dichiarato di aver aumentato le proprie quote Parmalat, l’azienda omologa più grande in Italia, per circa il 29%, appena sotto la soglia di un’offerta pubblica di acquisto. Il giorno seguente il Consiglio dei Ministri italiano si è radunato per discutere su come finanziare direttamente nuovi strumenti per bloccare l’offerta straniera verso compagnie “strategiche”.
Con vendite annuali pari a 8,5 mililiardi di Euro, Lactalis è due volte più grande di Parlamat. E conosce l’Italia. Tra il 1997 e il 2006, un decennio in cui la Parmalat passò dal successo al fallimento, aveva reso tre marchi di formaggio italiani i maggiori produttori caseari nel panorama del paese.
La nuova Parmalat – costituita dopo il collasso della precedente nel 2003, nella più grande bancarotta europea – ha registrato lo scorso anno nuovi profitti per 285 milioni di euro, attestandosi a 1,4 miliardi di Euro a dicembre. Il suo amministratore delegato, Enrico Bondi, è considerato il fautore dell’inversione di marcia dell’azienda. Tuttavia è sotto tiro. Tre fondi esteri, che hanno venduto ora le proprie quote a Lactalis, stanno cercando di farlo fuori. Un nuovo direttivo, che Lactalis ha messo in lista, verrà scelto tra gli azionisti durante il loro prossimo incontro.
Intesa Sanpaolo, una grande banca con il 2,4% di quote Parmalat, ha provato con l’appoggio del governo a riunire gli sforzi per tenere a bada la Francia. Ha proposto una lista alternativa di dirigenti, con in cima il nome di Bondi.
I Ministri italiani sono particolarmente irritati verso i colleghi francesi e li accusano di ostacolare i tentativi delle aziende italiane di investire in Francia. I politici francesi hanno l’abitudine di avanzare argomentazioni assurde su acquisizioni considerate “strategiche”, come ebbe modo di scoprire sei anni fa la PepsiCo quando fu invitata a stare alla larga dal gruppo caseario francese Danone. Messaggio da Roma a Parigi: se il tuo yogurt è un bene vitale per la nazione, così dicasi del nostro.
Questa non è la prima volta in cui Intesa ha mostrato di essere uno strumento a disposizione della politica industriale. E nel caso della Parmalat potrebbe avere un’altra ragione per passare all’azione. Detiene quasi il 20% di Granarolo, un gruppo caseario che ha avuto perdite ogni anno tra il 2005 e il 2008; ha avuto un profitto di soli 3 milioni di Euro lo scorso anno, su 884 milioni di Euro di vendite. Si è pensato che Parmalat volesse acquistare Granarolo, invece di trovarsi lei stessa ad essere comprata.
Tuttavia per bloccare Lactalis, i dirigenti italiani vorrebbero mettere i propri soldi a portata di mano dei propri politici. L’azienda Ferrero, produttrice di cioccolato, ha espresso interesse per una “soluzione industriale italiana al problema”. Ma non andrebbe a genio alla Parmalat; e l’ultima volta in cui fece un favore ai politici, accettando di partecipare nel 1985 all’offerta di acquisto di una compagnia alimentare di Stato, l’intero affare finì in una delle epopee processuali di Silvio Berlusconi. Così la Ferrero ora potrebbe dimostrarsi diffidente nel dare il proprio contributo.
Dovendo anche rispettare le restrittive regole europee contro il protezionismo, è necessario che i politici italiani si ricordino dell’’enorme debito pubblico del Paese.
Per guardare al futuro, l’Italia deve continuare a convincere gli investitori di essere “un mercato efficiente e amico”, dice John Andrew, presidente di Eidos Partners, una banca di investimenti milanese. Tutto ciò segnifica che la rabbia dimostrata da Roma verso l’invasione transalpina potrebbe risultare priva di sostanza.

Un fondo strategico per le imprese. Ecco la mossa antiscalate a cui pensa il ministro Tremonti. di Fabrizio Forquet. È sempre più con armi francesi che gli italiani pensano di rispondere all'offensiva francese sul capitalismo italiano. Che il ministro Giulio Tremonti stia studiando e ristudiando in questi giorni la legge antiscalate approvata da Parigi a cavallo tra il 2005 e il 2006 è cosa nota. Ma al Tesoro ora sta crescendo l'interesse su un'altra arma su cui possono contare i transalpini nella difesa degli asset strategici nazionali. Una spada ben più affilata della prima, che tra l'altro è sotto inchiesta delle autorità europee.

In Francia si chiama Fond Stratégique d'Investissement (Fsi). È un fondo d'investimento costituito nel 2008 su iniziativa di Nicolas Sarkozy e partecipato per una quota del 51% dalla Caisse des dépots et consignations (la Cassa depositi d'oltralpe) mentre il 49% è dell'Agenzia delle partecipazioni dello Stato. Una leva pronta a intervenire a sostegno del capitale delle imprese francesi e che è pronta a scattare nel caso di scalate straniere, come è avvenuto solo pochi giorni fa nel caso dell'acquisizione del gruppo Yoplait da parte dell'americana General Mills (si veda articolo sotto).
È a quel modello che si è cominciato a guardare con interesse al Tesoro. Non c'è ancora un progetto vero e proprio. Per il momento si tratta di idee, di ipotesi. Ma tra le varie azioni che il governo ha intenzione di mettere in campo per frenare le scalate straniere questa del Fsi comincia ad apparire come quella più efficace. Come dire: il gatto che ha artigli sufficentemente affilati per prendere il topo.

Nell'ipotesi allo studio si tratterebbe di un vero e proprio fondo nazionale di investimento in imprese strategiche. Sarebbe partecipato per l'appunto al 50% dalla Cassa depositi e prestiti e per il restante 50% direttamente dallo Stato, magari con la partecipazione di altri soggetti intermedi. Un "gatto" pronto a scattare per acquisire quote di imprese private considerate strategiche per il sistema economico italiano. Non aziende decotte da salvare. E neppure le tante Pmi sane e assetate di capitali, per le quali già opera il Fondo italiano di investimento partecipato dalla stessa Cdp e dalle banche. Ma gruppi industriali riconosciuti come asset importanti del paese, che rischiano di finire sotto controllo non italiano.

L'intervento del fondo non andrebbe necessariamente ad acquisire quote di maggioranza o di controllo, ma servirebbe come nucleo intorno al quale mobilitare anche il capitalismo privato, in modo da centrare obiettivi ambiziosi senza che questo significhi una «pubblicizzazione» delle imprese interessate. In fondo, si ragiona al Tesoro, se il sistema industriale italiano appare oggi così esposto è perché è tramontato quel modello pubblico/privato che vedeva nell'Iri e nella Mediobanca di Cuccia i baluardi assoluti del capitalismo italiano. Un'evoluzione positiva per molti versi, perché ha aperto il mercato e permesso l'ascesa di nuovi soggetti. Ma che ha lasciato il paese più esposto davanti alle scalate straniere. Il fondo "alla francese" servirebbe appunto a contribuire a rimediare a questa falla. Non un baluardo, magari, ma una torre di avvistamento sì.

La strategia antiscalate che il ministro Tremonti sta costruendo è composta comunque di più strumenti. Sta entrando nel vivo in questi giorni il confronto con l'Europa sulla legge francese che permette di difendere le aziende dei settori strategici. Domani sarà a Roma il direttore generale del Mercato interno della Commissione europea, Jonathan Faull. Sul tavolo ci sarà la riproducibilità della normativa francese, nella consapevolezza da parte italiana, che l'Europa ha già messo sotto inchiesta quelle norme. Roma chiederà in sostanza: la legge francese è legittima o no? Se non lo è l'Europa rompa gli indugi e lo dica, altrimenti ci sentiamo autorizzati ad adottarla.

Sarà l'Ecofin informale del 6 aprile ad approfondire la questione. Ma anche al Tesoro sanno che la legge francese da sola non basta certo a prendere il topo Lactalis lanciato alla conquista di Parmalat. Si studiano perciò altri interventi, come il rafforzamento per legge (attraverso un emendamento al decreto che consente lo slittamento dell'assemblea Parmalat) dei poteri Consob in caso di cambio di controllo oppure anche un coinvolgimento di altri soggetti, da Fintecna a Invitalia.
Una strategia di sistema, dunque, che vede comunque al centro dell'attenzione di Tremonti il ruolo della Cassa depositi e prestiti, pur nella consapevolezza dei limiti statutari e finanziari della Cdp. Non è un mistero, del resto, che a Via XX Settembre si è guardato e si guarda all'istituto guidato da Giovanni Gorno Tempini anche per altre partite altrettanto strategiche, come il sostegno patrimoniale delle banche che dovranno rafforzare la propria capitalizzazione. Sia chiaro: c'è fiducia sulla capacità delle banche italiane di rastrellare sul mercato le risorse di cui hanno bisogno e dunque sull'inutilità di un qualunque intervento pubblico. Ma una rete di protezione di ultima istanza, un backstop può essere utile. Soprattutto se a giugno il verdetto degli stress test sugli istituti italiani dovesse rivelare una scarsità di capitale più ampia del previsto.

Mattei non avrebbe fatto bombardare la Libia. di Edoardo Narduzzi . Da quando la globalizzazione ha fatto emergere economicamente i cosiddetti Bric (cioè Brasile, Russia, Cina e India), gli equilibri energetici mondiali sono stati rivoluzionati. Oggi, anche in termini di capitalizzazione di borsa, i nuovi colossi del petrolio mondiale non sono più le sette sorelle o le società petrolifere occidentali. I nuovi padroni dell'energia si chiamano Petrochina, Gazprom e Petrobras, per citare solo i brand maggiori dei paesi emergenti. La fame di petrolio e gas, connessa alla robusta e prolungata crescita del pil delle economie emergenti, ha sconvolto la geopolitica energetica novecentesca. Essa era figlia dell'azione progressiva della prima industrializzazione e del colonialismo e degli esiti della seconda guerra mondiale con il risultato che i diritti sul petrolio erano soprattutto appannaggio delle potenze coloniali vincitrici. Ma nel capitalismo il petrolio serve a tutti per far crescere la produzione e migliorare la qualità della vita e solo l'indipendenza energetica può consentire a un singolo paese di poter definire le sue strategie. Se un paese dipende troppo dai diritti petroliferi altrui, alla fine cresce meno o poco. Enrico Mattei, il fondatore dell'Eni, lo aveva capito bene alla fine dell'ultimo conflitto mondiale e, per questo, ci rimise la vita. Per garantire l'indipendenza energetica italiana giocò d'attacco nella politica estera del tempo. Andò a cercare i giacimenti dove le potenze vincitrici pensavano di avere diritti esclusivi di sfruttamento e business. Diede vita a una sorta di spazio vitale italiano nel petrolio mondiale giocando davvero una partita difficilissima. Poi, negli anni 80, i governi della tanto vituperata cosiddetta prima repubblica garantirono con Russia e Algeria (allora entrambe comuniste) le forniture di gas. Infine, più recentemente, ci siamo garantiti dei trattati privilegiati con la Libia. Ma la fame di energia innescata dalla globalizzazione ha sconvolto tutto. Prima la guerra in Iraq, ora quella in Libia (di fatto l'unico paese produttore insieme al Venezuela dove si possono cambiare le regole del gioco) sono figlie della stessa esigenza vitale del capitalismo: assicurarsi forniture petrolifere stabili di lungo termine. La Libia rappresenta più di un vecchio possedimento coloniale italiano, perché è un paese chiave dell'energia nel Mediterraneo. I francesi, che non hanno giocato la partita irachena, sognano di fare cappotto ai danni dell'Italia, oggettivamente in una posizione non facile, mentre russi e cinesi sono gli unici che cercano di far rispettare il volere dell'Onu. Unica consolazione: la storia recente insegna che l'eccessivo uso della forza non aiuta a ritrovare i facili equilibri decisi a priori a tavolino.

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