giovedì 17 marzo 2011

Federali-Sera con Barack. 17 marzo 2011. L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro di metà del Paese, per cui noi al Nord abbiamo poco da festeggiare e lavoreremo. Siamo in una situazione che non ci piace: chi festeggia al Nord non ha capito che differenza passa tra il cornuto e il mazziato, come dicono al Sud. Gli unici che hanno qualcosa da festeggiare sono i meridionali. Io vorrei che sia l'Italia che l'Austria ci lasciassero in pace. Le feste sono sempre belle da celebrare. Sciopero.

Neogaribaldini:
Onore al coraggio di Garibaldi.
I miracoli del Paese al verde. BILL EMMOTT.
Cristiani, l'Unità senza egoismi.
Europa e coraggio, i perché di una festa.
Centocinquant'anni di Unità d'Italia. La trappola di credere che non siamo una nazione
L'Unità d'Italia, dopo 150 anni, l'ha fatta e continua a farla la Chiesa.
L'unica pecca di Cavour.

Oltrepadania:
Bozen. A Don Bosco si festeggia con le bandiere appese «Dobbiamo essere uniti».
Bressanone. La città non festeggia l'unità d'Italia.
Trento. Riz: «Niente festa, non sono italiano»
Trento. Fratelli d'Italia anche i Trentini?
Trento. Naturno snobba Mameli, punito.
Trento. Paperoni trentini in crescita.
Aosta. A febbraio nuovo salasso per le famiglie valdostane
Udin. Unità d’Italia: feste per tanti ma con l’assenza della Lega.

Padania dell'est:
Treviso. I ventisei che fecero l'impresa.
Venezia. Serenissimi, fine a 14 anni di processi. La Cassazione rigetta l'ultimo ricorso.
«Venezia abbandonata dallo Stato»
San Dona'. Il Tricolore scalda tutte le associazioni quasi fredda la Lega.
Dolo. «Rispetto il tricolore, ma lavoro»
Padova. L’azienda fa festa lavorando. Il sindacato: «Sciopero»
Roma. Napolitano apre la festa. La Lega non può rovinarla.


Onore al coraggio di Garibaldi. BARACK OBAMA. Il 17 marzo l’Italia celebra il 150° anniversario della sua unità come Stato.
In questo giorno ci uniamo a tutti gli italiani in tutto il mondo per onorare il coraggio e i sacrifici e la visione dei patrioti che diedero vita alla nazione italiana.
Nell’epoca in cui gli Stati Uniti combattevano per la preservazione della loro Unione, la campagna di Giuseppe Garibaldi per unificare l’Italia fu di ispirazione per tante lotte in tutto il mondo, come fu di ispirazione per il 39° reggimento di fanteria di New York, noto anche come «la guardia garibaldina». Oggi, l’eredità di Garibaldi e di tutti quelli che unirono l’Italia vive in milioni di donne e uomini americani di origine italiana, che hanno reso più forte e ricca la nostra nazione.
L’Italia e gli Stati Uniti sono legati dall’amicizia e dalla dedizione comune alle libertà civili, ai principi democratici e ai diritti umani universali, che entrambi i nostri Paesi rispettano e promuovono. Mentre ricordiamo questa data cruciale nella storia italiana, rendiamo anche onore agli sforzi congiunti di americani e italiani per la protezione della libertà, della democrazia e dei valori che condividiamo, in tutto il mondo.
Perciò proclamo il 17 marzo 2011 come giorno di celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia. Propongo a tutti gli americani di studiare la storia dell’unificazione dell’Italia e di onorare la perdurante amicizia tra i nostri due popoli.

I miracoli del Paese al verde. BILL EMMOTT. Noi stranieri che guardiamo occasionalmente l’Italia da vicino ci illudiamo di poter capire cosa sta succedendo, ma poi improvvisamente un dubbio ci assilla la mente. E’ possibile che gli italiani ci stiano semplicemente giocando un complicato scherzo?
I 150 anni dell’unità del Paese ne sono l’esempio più recente.
Ci hanno detto che questa celebrazione della nascita della vostra nazione è controversa, e che di conseguenza la risposta pubblica e politica è abbastanza variegata. Così diamo per scontato che la spiegazione sia che la nazione è profondamente divisa. Eppure quando ne cerchiamo la prova, scopriamo che l’Italia non ospita alcun gruppo o partito politico davvero separatista, nulla di confrontabile al Partito nazionale scozzese in Gran Bretagna, ai separatisti baschi in Spagna, o anche ai nazionalisti corsi in Francia. Sì, sì certo, conosciamo la Lega Nord, ma è una cosa seria? Per cominciare, sembra essere più anti-stranieri che veramente anti-italiana. E tutta questa storia sulla Padania sembra più il copione di un’opera buffa che un serio argomento per la secessione. In pratica l’unica vera prova di separatismo che ci possono mostrare è il disappunto del presidente della Provincia di Bolzano per non fare ancora parte dell’Austria.

I nostri amici italiani richiamano la nostra attenzione sulle misure per il federalismo fiscale, ma una volta che iniziano a spiegare cosa si sta facendo, ammesso che ci riescano, è difficile vedere queste misure come drammatiche, radicali o minacciose per l’unità nazionale. A un forestiero il desiderio di non inviare più così tanto denaro pubblico per alimentare la criminalità organizzata e il clientelismo politico nel Sud sembra in realtà una misura di ordine pubblico intelligente e perfino patriottica. L’idea che sia tutto uno scherzo, anche se per nulla divertente, si rafforza quando ci ricordano che è la Lega Nord a permettere a Berlusconi di restare a Palazzo Chigi. Se i più sgradevoli tra i leghisti pensano ancora che Garibaldi non abbia unito l’Italia ma piuttosto diviso l’Africa, come mai sono alleati dell’uomo che ha importato la frase «bunga bunga» dalla Libia, e che ha ordinato un forte sostegno alle regioni meridionali che dicono di disprezzare?

Quindi ci chiediamo se tutto questo sia uno spettacolo organizzato per prendersi gioco di noi. Abbiamo sempre saputo che gli italiani sono noti per le loro appartenenze locali e regionali, e alcuni di noi hanno anche imparato come si pronuncia «campanilismo». Quindi, qual è la notizia, chiediamo? Perché tanto clamore, ora, per la mancanza di unità? Ecco, questo particolare osservatore straniero dell’Italia ritiene che tutto questo parlare di mancanza di unità sia solo un modo per distrarre l’attenzione dai problemi reali. Tali problemi non riguardano i rapporti degli italiani tra loro ma quelli con lo Stato italiano, con il governo. A occhi stranieri questa relazione è sempre parsa strana: per molti si mescolano un estremo disprezzo per lo Stato e per le leggi con una grande dipendenza nei loro confronti, insieme a (o così almeno pare) il maggior numero di avvocati costituzionalisti pro capite che ovunque sulla Terra.

Eppure qualcosa sta cambiando. Il federalismo fiscale, il divario Nord-Sud e beninteso la recente sfida a tutte le istituzioni riflettono una profonda incertezza, probabilmente un profondo punto di svolta nel ruolo dello Stato. Il motivo è semplice: sono finiti i soldi. In verità sono finiti nei primi Anni 90 quando l’Italia ebbe la sua grande crisi finanziaria pubblica, ma le implicazioni stanno emergendo pienamente solo ora. La spesa pubblica non può più essere utilizzata come negli Anni 70 e 80, per tacitare l’opposizione e lenire le ferite. In modo ancora più cruciale per la questione Nord-Sud, non può più essere usata per pacificare la coscienza del Nord nei confronti del Sud, né (per dirla in modo più positivo) per stimolare le economie regionali attraverso le opere pubbliche. Non ci sono più soldi a sufficienza: qualunque argomento si possa utilizzare per dimostrare che il debito pubblico italiano del 120% del Pil non mette il Paese nella stessa categoria della Grecia o dell’Irlanda, è difficile negare che i debiti sono troppo alti e debbano essere ridotti. Quindi, dietro a tutte le incertezze sull’anniversario si trova questa realtà di base, unita a una preoccupazione: se il ruolo dello Stato deve cambiare e ridursi, cosa si può fare invece? Non è, ovviamente, una domanda a cui sia facile rispondere. Ma ci sono alcuni semi di speranza. A Napoli oggi parteciperò a una conferenza organizzata dal think tank italiano Vision insieme all’Istituto italiano per gli studi filosofici intitolata «Cambiare per sopravvivere» (www.visionwebsite.eu). Dati elaborati da Vision per il convegno dimostrano, in primo luogo, come non è solo che il denaro pubblico non sia riuscito a colmare il divario economico tra Nord e Sud. Il problema è che le regioni del Sud non sono state capaci di spendere il denaro, come dimostrato dai loro risultati deludenti nell’utilizzo dei Fondi sociali europei a cui hanno diritto. Sono le loro istituzioni a essere carenti, non solo il denaro a essere sprecato. Ma in secondo luogo, nonostante questi problemi, il Sud mostra non di meno un sorprendente numero di esempi di eccellenza, esempi positivi di crescita, aziende di successo e persino ricerca universitaria. Nella classifica di Vision, per esempio, quattro università del Sud appaiono tra le migliori 18 università italiane in termini di capacità di attrarre fondi per la ricerca. Come favorire un aumento degli esempi positivi in un’epoca in cui la vecchia illusione che la crescita possa essere sostenuta buttando più soldi pubblici al Sud (o addirittura in Italia nel suo complesso), non può più essere sostenuta? Questo è, o dovrebbe essere, il vero dibattito in occasione del 150° compleanno della nazione, e anche dopo.
Traduzione di Carla Reschia

Cristiani, l'Unità senza egoismi. ENZO BIANCHI. In queste settimane e per i prossimi mesi, in vari momenti e diverse forme si celebrano i 150 anni dell’avvenuta Unità d’Italia, nonostante le contestazioni e la mancata partecipazione di alcuni a questa ricorrenza. Anche la chiesa cattolica che è in Italia ha voluto - nella maniera che le è propria, cioè attraverso una celebrazione liturgica - prendere parte alla memoria di questo evento. Il papa, come vescovo di Roma (non si dimentichi che è in tale veste che presiede alla chiesa universale) e primate d’Italia, ha voluto indirizzare un messaggio non solo ai cattolici ma a tutti gli italiani. Ma proprio perché quest’Unità d’Italia è stata faticosamente costruita anche contro il volere del papa - allora difensore non solo dell’onore di Dio ma anche di «Cesare», il potere politico che lui incarnava nello Stato pontificio - proprio perché c’è ancora chi vorrebbe che l’Italia tornasse a una federazione di staterelli, proprio perché nuove ideologie contrastano con la realtà di un’Italia unita, è bene interrogarsi sul significato di questa unità.

E io vorrei interrogarmi da cristiano e da cittadino italiano, due appartenenze che non sono né in contrasto né in concorrenza ma che, per essere vissute senza schizofrenia, abbisognano di lealtà, di riconoscimento della storia e di esercizio della memoria, di una visione di solidarietà capace di convergenza per la polis. Come cristiani, abbiamo una parola da dire nei confronti di questa celebrazione e del suo significato? La risposta è certamente positiva: in Italia i cristiani abitano tranquillamente, sono membri della polis e come tali partecipano responsabilmente alla storia di questo paese senza evasioni e senza esenzioni.

Ma dobbiamo porci anche un’altra domanda: noi cristiani abbiamo una parola «cristiana» da dire sull’Italia unita? E qui la risposta si fa più articolata e richiede specificazioni. L’Italia non è né un articolo di fede, né un principio strutturale della chiesa che è cattolica, universale. Ma resta vero che questa terra «Italia» è la terra che i cristiani abitano nella consapevolezza che «ogni patria è per loro straniera e ogni terra straniera è loro patria» (Lettera a Diogneto). Cosa significano queste parole, formulate nel II secolo d.C. e ancora oggi utilizzate? Non indicano evasione o estraneità dei cristiani rispetto alla terra e allo Stato, ma che i cristiani sanno amare la terra che è stata data loro in sorte, che questa terra è per loro anche «patria» in quanto terra già dei loro padri, che i cristiani pregano per questa terra e per i loro governanti, fossero anche non cristiani, così come pregavano per l’imperatore romano che era pagano (e, a volte, anche loro persecutore!), che i cristiani partecipano in tutto come cittadini alla costruzione della società italiana e lavorano per una convivenza in questa terra segnata da libertà, giustizia, eguaglianza, solidarietà, pace.

Ma questa appartenenza all’Italia certamente non deve suscitare nei cristiani un’ideologia nazionalistica, che si manifesta sempre in una egemonia rispetto ad altre terre, nella costruzione di un popolo «senza gli altri» e magari «contro gli altri». Il contributo più specifico dei cristiani alla costruzione di uno Stato unitario dovrebbe essere caratterizzato dal superamento di una pretesa superiorità della loro cultura, dalla negazione di un centralismo foriero di ideologie che, anziché preparare la pace, alimenta intolleranza e rifiuto dell’alterità di cultura, etica, religione... D’altro lato i cristiani dovrebbero vigilare che non si affermino spinte localistiche, che finiscono sempre per generare atteggiamenti razzisti o xenofobi, non solo verso le culture lontane che si fanno presenti attraverso gli immigrati, ma addirittura verso la terra, la regione vicina. È vero che l'Italia è storicamente segnata da regioni che hanno una cultura propria più accentuata che in altre nazioni, ma la lingua è divenuta una, così come la cultura che ha dato il meglio dell’umanesimo e ha fatto compiere un cammino all’Italia è unitaria e convergente.

Un’unità d’Italia che nutrisse un’identità italiana segnata dalla vittoria del «medesimo» e da un ripiegamento autistico storico-sociale a causa dell’esclusione dell’altro, soprattutto dei tanti poveri che giungono dall’altra sponda del mare nostrum, contraddirebbe gravemente l’ispirazione cristiana e cattolica.

Se penso alla mia vita, non posso dimenticare che fin da piccolo sono cresciuto con persone provenienti da altre regioni, con altri dialetti, con abitudini in parte diverse dalle mie: alle elementari, in un piccolissimo paese del Monferrato, avevo vicini di banco provenienti dal Polesine alluvionato, alle superiori in una cittadina di provincia avevo compagni calabresi e sardi, all’università a Torino ho incontrato studenti di tutte le regioni italiane. Non posso negare questa italianità, questo sentire che c’è un’Italia vissuta nella mia storia e che dunque non va negata né tanto meno ferita dalla negazione della solidarietà. La mia generazione ha imparato fin dalle elementari che non i localismi, ma l’Europa unita doveva essere l’orizzonte da tenere presente e in nome di un’affermazione di quei valori di libertà, di democrazia, di giustizia per i quali tanto si era combattuto in Europa nei tempi della modernità.

Festeggiare l’unità d’Italia allora significa riconoscere ciò che lega gli abitanti di questa terra, affermare la solidarietà e la convergenza verso una polis segnata da giustizia e pace, senza ripiegamenti localistici, senza egoismi territoriali, senza esasperazioni della propria cultura locale. Per questa unità d’Italia molti che ci hanno creduto hanno speso la vita e hanno saputo sacrificarsi perché il loro obiettivo era una «communitas italiana». Per noi oggi tutto questo è di esempio, è un’eredità che comporta responsabilità, soprattutto di fronte a rigurgiti ideologici e a proclami e programmi che vorrebbero non solo dividere gli italiani, ma costruire una «babele» locale in cui ciò che si afferma sa solo di barbarie. Sì, come cristiano lontano da ogni nazionalismo, credo di amare questa terra d’Italia, volere che in essa cresca l’unità tra le popolazioni, così diverse ma così capaci di essere solidali l’una con l’altra, così disposte - lo spero, nonostante tutto - a una convergenza verso una polis più umanizzata, unite da una comune cittadinanza sempre più di suolo che non di sangue. Celebrare l’unità della nazione italiana, nell’orizzonte dell’unità del continente europeo e nella volontà di affermare sempre l’unità e la dignità di tutti e il rispetto di tutte le culture e le nazioni è un dovere che nasce dalla consapevolezza di essere cittadini che devono sperare tutti insieme e sentire questa terra come appartenente a tutti.

Europa e coraggio, i perché di una festa. di Emma Marcegaglia. Non si possono avere dubbi. Sì, l'anniversario dell'Unità italiana merita di essere celebrato. Tanto che Confindustria sin dall'anno scorso ha deciso di unire in una medesima cornice il festeggiamento dell'Unità nazionale e il suo centenario. E proprio questo spirito fu colto e apprezzato dal videomessaggio del Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, alla nostra assemblea annuale del maggio scorso. Le sue parole sono state il miglior modo per unire idealmente il nostro centenario alla cornice nazionale in cui esso viene a cadere: i 150 anni dell'Unità d'Italia.
Il Capo dello Stato in questi mesi ha sovente richiamato l'intero Paese a rinnovare nel centocinquantesimo dell'Unità il valore profondo della nostra esperienza nazionale. Dai moti risorgimentali al compimento politico, amministrativo e istituzionale dello Stato Unitario, anelito popolare e lungimiranza delle classi dirigenti dell'epoca seppero insieme gettare in pochi decenni una radice profonda. Superando secoli di divisione e frazionamento che avevano allontanato il nostro Paese dalla scena della storia, l'Italia venne restituita alla possibilità di mettersi in pari con chi l'aveva preceduta nella realizzazione di un grande Stato nazionale, presupposto per la modernità e la crescita non solo economica, ma innanzitutto sociale, civile e culturale.

All'Unità italiana, i ceti imprenditoriali offrirono un apporto molto rilevante. L'unificazione del Paese, sin dai primi studi giovanili di Cavour e dalle sue esperienze in Francia e Gran Bretagna, non era solo un progetto di espansione dinastica e dello Stato sardo, ma la realizzazione di un più vasto mercato, la condizione per ottimizzare nuove tecniche agricole, l'espansione delle seterie e del tessile, una più ampia base per la manifattura agli inizi, l'abolizione di infiniti ostacoli daziari e protezionistici nel mercato interno. Tra i fondatori di Confindustria, un secolo fa, molti erano gli ex patrioti, che giovanissimi avevano impegnato la propria vita e spesso i propri averi, al servizio dell'Unità.

Era ex garibaldino Giovanni Battista Pirelli, il pioniere della gomma italiana. Aveva partecipato 18enne alle Cinque giornate di Milano, Giuseppe Candiani, e aveva combattuto nelle prime due guerre d'Indipendenza, prima di diventare ai primi del 900 guida della maggior azienda chimica italiana. La storia è inevitabilmente fatta di riletture critiche e continue revisioni. Nessuno può negare che nel processo unitario vi furono contraddizioni e anche generose illusioni, se pensiamo ai persistenti e gravi divari che a tutt'oggi restano da colmare nella diversificata realtà del nostro Paese e soprattutto al Sud. Ma niente di tutto ciò può mettere in discussione il valore dell'Unità.

Questi 150 anni non sono stati solo contrassegnati dall'evoluzione istituzionale e politica, e dal mutare del contesto internazionale con la Nato prima, l'Europa poi, la caduta del muro e il mondo nuovo consegnatoci dalla crisi mondiale. Un mondo in cui G20, Asia e Cina sono punti nuovi di riferimento della crescita, e che oggi è attraversato dallo straordinario moto dei popoli maghrebini e arabi che riscrivono storia ed equilibri del Mediterraneo.

Il secolo e mezzo alle nostre spalle è stato anche e soprattutto il dispiegarsi dell'eccezionale contributo che grandi uomini e donne, grandi famiglie e grandi energie e risorse dell'impresa italiana hanno dato all'avanzamento graduale e generale dell'Italia nel novero dei maggiori Paesi del mondo. È una storia di cui possiamo e dobbiamo sentirci orgogliosi.

È una storia che ci consegna una domanda. Esiste un modo "nostro", da imprenditori, per festeggiare l'Unità? Io penso di sì. Perché l'Italia moderna esiste, pur con tutti i suoi difetti, anche grazie a valori che ritengo preziosi, e che ci sono stati consegnati dalla dedizione e dalle realizzazioni di tanti imprenditori italiani che ci hanno preceduto, e che hanno saputo affrontare con grande coraggio fasi impegnative e talora anche aspre e difficili della nostra storia nazionale.

Ne voglio ricordare quattro, perché da ciascuna di esse viene a noi una lezione. La prima è l'abnegazione: la capacità di saper sprigionare intorno a sé, a nuovi prodotti e a nuovi stabilimenti per nuovi e più ampi mercati, una quantità di energie del tutto insospettata, date le condizioni di partenza. È la grande lezione che ci hanno impartito i nostri padri, la generazione che in un quindicennio offrì all'Italia con la Ricostruzione e il Boom italiano, il più travolgente avanzamento di crescita economica, produzione industriale e reddito procapite che si sia verificato nell'intero centocinquantennio unitario, grazie a imprenditori grandi e piccoli, a decine di migliaia.

La seconda è l'europeismo. Dal coraggio con cui l'impresa accolse l'apertura ai mercati esteri nel 1953, dalla Ceca all'Euratom, dal MEC all'Unione europea, fino all'ingresso nell'euro negli anni Novanta, non c'è stato passo dell'integrazione comunitaria che l'impresa italiana non abbia incoraggiato e concretamente promosso e tradotto in benefici per l'intera comunità nazionale. È un filo rosso che parte molto da lontano, dagli scritti giovanili del senatore Agnelli nel primo conflitto mondiale, in cui già si proponeva un energico ruolo dell'Italia nell'unificazione del continente, quando ancora non era chiaro il destino di quelli che erano i cosiddetti Imperi Centrali. Ora che l'euro vive la crisi di credibilità di alcuni dei suoi Stati membri, più che mai come imprenditori dobbiamo batterci perché mercato unico e politiche condivise di rigore ci guidino fuori dalla bassa crescita e dai risorgenti nazionalismi. La terza è la coesione nazionale. Che risultò essenziale quando dall'impresa venne una mano essenziale per spezzare la terribile spirale inflazionistica che minacciava le basi stesse del Paese. Senza la disdetta della scala mobile decisa da Confindustria, la politica non avrebbe trovato forza e coraggio che portarono all'abolizione dei meccanismi di piena indicizzazione col referendum con il quale gli italiani, a metà degli anni Ottanta, imboccarono con decisione la via della ripresa di un più solido sentiero di sviluppo.

La quarta, infine, il coraggio civile. L'impresa ha pagato un elevato tributo anche di sangue, quando terrorismo e mafie hanno affondato i loro colpi. Renato Briano, direttore del personale alla Ercole Marelli, Piero Coggiola, dirigente Lancia, Carlo Ghiglieno, responsabile pianificazione Fiat, Sergio Gori e Giuseppe Taliercio, dirigenti Montedison, Manfredo Mazzanti, dirigente Falck, assassinati dai gruppi terroristici. Gennaro Musella, Giuseppe Spada, Sergio Compagnini, Antonino Polifroni, Libero Grassi, uccisi delle mafie. I loro nomi e il loro sacrificio sono per noi un monito quotidiano. L'impresa è una cellula essenziale della democrazia italiana, che difende e promuove legalità e diritto, contro ogni sopraffazione e violenza.

All'Italia unita, Confindustria e i suoi associati hanno dato forza nel mondo, lavoro a milioni di italiani e oggi anche a tanti immigrati, reddito e benessere a tutti prima che utili e dividendi a propri soci. Proprio per questo, mentre si affrontava il dibattito su come festeggiare l'Unità il 17 marzo, avevamo pensato come Confindustria di dare alle celebrazioni forma e spirito nuovo, e cioè lavorando e ricordando nelle aziende, nel corso della giornata, spirito e valore di un'Italia unita oggi innanzitutto nello sforzo di crescita e benessere. È stato deciso diversamente. Qualcuno, purtroppo, ha anche tentato di leggere la nostra proposta come una polemica antiunitaria. Sbagliava. Tanto siamo convinti del valore unitario, che pensavamo fosse matura una nuova forma civile di celebrazione. Tutti insieme e tutti uniti: autorità, imprese e lavoratori.

Diceva Alberto Pirelli, figlio del fondatore Giovanbattista: «La sfida dei tempi in cui viviamo non è tanto fra capitale e lavoro, quanto dell'insieme delle nostre forze produttive - capitale, direzione e lavoro insieme - rispetto a quelle dell'estero e del mondo». Era il 1950. Sessant'anni dopo resta ancora questo, il senso profondo e vero della nostra sfida. E del nostro amore per l'Italia.
Emma Marcegaglia è Presidente di Confindustria
17 marzo 2011

Centocinquant'anni di Unità d'Italia. La trappola di credere che non siamo una nazione
di Stefano Folli. È singolare che qualcuno si preoccupi di un eccesso enfatico nelle celebrazioni dei 150 anni dell'Unità. A dire il vero in tali manifestazioni non si scorge traccia né di enfasi né di retorica. Non solo per l'ottimo lavoro svolto dal comitato presieduto da Giuliano Amato (e prima di lui da Carlo Azeglio Ciampi), ma soprattutto perchè l'atmosfera di questo 17 marzo è tale da suggerire una generale sobrietà.

Si è detto che il modo giusto di celebrare consiste nel riflettere sull'identità italiana, sulle sue opportunità e i suoi limiti. Ma non è ciò che sta accadendo? In una nazione che troppo spesso è priva di memoria e non crede nel futuro, quasi vivesse in un eterno presente, il centocinquantenario ha spinto molti a riflettere. Forse è la prima volta che accade. Nel 1911 i primi cinquant'anni furono festeggiati - mentre le nostre trupe occupavano la Libia - nel registro glorioso di un'Italia che si pretendeva grande fra i grandi nel concerto europeo.

Nel 1961 il centenario coincise con il miracolo economico al suo culmine. L'espansione non era più militare, bensì industriale e di costume. Oggi invece c'è un declino da contrastare, meglio se con ottimismo e tenacia. C'è un paese che tende a lacerarsi da mantenere unito. L'anniversario rappresenta una discriminante. Si tratta di guardare al passato per ritrovare il senso di una storia nazionale, ma al tempo stesso siamo consapevoli che l'Italia del 2011 non può fare a meno di proiettarsi nel futuro, rimuovendo gli ostacoli che bloccano la strada.
Del resto, il passato divide meno di quanto si creda. Nonostante certi sforzi degni di miglior causa, il «revisionismo» risorgimentale non convince; più che altro perchè non poggia su alcuna novità frutto di ricerca, ma ripropone vecchi e arcinoti motivi polemici. Le opere revisioniste che hanno invaso le librerie non aiutano in nulla o quasi la comprensione dei fatti così come si sono svolti.

Del Risorgimento e dei suoi attori sappiamo pressochè tutto, semmai ce ne dimentichiamo. Conosciamo anche le contraddizioni o se si vuole gli errori commessi in certi casi dalla classe dirigente post-unitaria. Tutto è stato già scritto con l'autorevolezza dei grandi storici. Chi irride al processo di riscatto nazionale, alle sue forme e ai suoi protagonisti, in realtà asseconda obiettivi politici che nulla hanno a che fare con l'analisi storica. Quindi il problema non è «ridiscutere» il Risorgimento, bensì evitare le trappole. La principale consiste nel credere che non siamo una nazione. Questo è il punto su cui occorre fare chiarezza in occasione del 17 marzo. Il futuro ha diversi volti, a seconda di quale idea d'Italia si affermerà nei prossimi tempi.

Tutti dicono «federalismo», la parola magica del centocinquantenario. Ma è evidente che il federalismo (fiscale, amministrativo, soprattutto istituzionale) ha un senso solo se poggia su di un forte senso nazionale. Nel federalismo l'identità è più solida, non più debole. Chi sostiene il contrario sta truccando le carte. Negli Stati Uniti l'altra faccia dell'impianto federale è un patriottismo talmente vigoroso che talvolta è sfociato nel nazionalismo. Viceversa, in Belgio si è arrivati a un passo dalla secessione.

Cosa vuol dire? Che le polemiche sul passato sono folkloristiche, ma possono diventare pericolose quando nascondono l'intenzione di dividere gli italiani, lasciando filtrare l'impressione che l'Italia non è mai veramente nata e anzi è una costruzione artificiosa. Finchè permane questa ambiguità, alimentata in particolare dalla Lega, il futuro è incerto. Il 17 marzo sarà un successo se sapremo riconoscere questo nodo cruciale e scioglierlo. Poi ben venga il federalismo, se vuol dire nel tempo maggiore efficienza delle amministrazioni locali e regionali, minor debito, uno Stato meglio articolato e più moderno.

Oggi rispondere agli interrogativi del 17 marzo significa uscire dalla gabbia di questo eterno presente grigio e pervasivo, così da riannodare senza imbarazzi i fili del passato, cioè di una storia nazionale che riguarda il Nord come il Sud. E' una memoria che non può essere rimossa o peggio rinnegata perchè tutti pagheremmo un prezzo altissimo a un tale assurdo ripudio.

L'Unità d'Italia, dopo 150 anni, l'ha fatta e continua a farla la Chiesa. di Pierre de Nolac. In occasione dei festeggiamenti per i centocinquanta anni dell'unità d'Italia, l'Osservatore Romano ha scelto di intervistare Ernesto Galli della Loggia. E il politologo, interpellato per valutare l'importanza del cattolicesimo nella costruzione dell'identità nazionale, non si è fatto cogliere impreparato: «Sono molti i segni dell'attenzione ai 150 anni: un convegno della Conferenza episcopale italiana, il segretario di Stato nel settembre scorso a Porta Pia, per la prima volta dal 1870, il dibattito in corso sui giornali cattolici.
Paradossalmente a salvare quel Risorgimento che fu fatto contro la Chiesa potrebbe essere proprio la Chiesa».
Questo perché «i cattolici dal momento della conciliazione e poi dall'arrivo al potere nel 1945 si sono pienamente riconosciuti nell'unità nazionale, e quindi per forza nel Risorgimento; e ancora di più questa identificazione si è accresciuta con la comparsa sulla scena politica italiana della Lega».
Un'affermazione che Galli della Loggia spiega sottolineando che «nulla come l'esistenza di una cosa chiamata Stato italiano ha contribuito al fatto che gli italiani in un secolo e mezzo si siano alimentati meglio, abbiano abitato in case più confortevoli, abbiano avuto un'istruzione migliore, abbiano potuto crescere in ricchezza, e così via, lo Stato italiano è stato un grande promotore dello sviluppo economico».
E lancia una proposta politica: «Più che far appello a qualche fattore concreto, servirebbe qualcuno, un partito o qualcosa di simile, che spiegasse agli italiani i vantaggi che hanno avuto a essere riuniti e continuano ad avere e il disastro che sarebbe il dividersi. Qualcuno che facesse riflettere più su dati di realtà di natura storica, che non vengono tenuti in considerazione, da mettere in campo per rinsaldare l'unità».
A occhio e croce, sembra un lancio di quel «partito della nazione» che è nella testa del leader dell'Udc Pier Ferdinando Casini. E Galli della Loggia ritiene che l'unico modo per salvare l'Italia è rilanciare il Sud: «Qualunque battaglia contro la delinquenza organizzata per spazzare via questo fenomeno rinsalda l'unità del paese, qualsiasi miglioramento delle condizioni civili del Mezzogiorno, da quello delle città a quello delle comunicazioni, è una cosa che gioca a favore dell'unità del paese perché diminuisce la divisione che c'è, divisione di percezioni culturali e divisioni anche concrete naturalmente, è soprattutto sul terreno della cultura civica e della legalità che l'unità d'Italia si può oggi rinsaldare, perché è su questi punti che si sono prodotte le diversità maggiori».
Guardando comunque alla storia dei nostri antenati: «Gli italiani nella percezione di sé hanno un problema storico, sanno di aver avuto un grandissimo passato; più o meno loro, poi, perché è discutibile che il passato della Roma antica sia un passato italiano, si possono muovere ragionevoli obiezioni a questa filiazione, ma comunque sono cose che sono avvenute in Italia e hanno lasciato tracce sulla nostra vita, sul paesaggio e così via. Quindi da un lato sanno di avere questo glorioso passato alle spalle, magari non è il loro, ma comunque è alle loro spalle, e per almeno tre, quattro secoli hanno poi dovuto misurare che dal punto di vista politico e sociale contavano poco o niente, e questo forse ha prodotto questo doppio registro di percezione di sé. Poi possono esserci tanti altri fattori, ma probabilmente in noi parla la mentalità del nobile decaduto». Che, detto da un vero aristocratico, deve davvero far riflettere.

L'unica pecca di Cavour. di Riccardo Ruggeri. Conte, noi le dobbiamo tutto. Nel '800 eravamo contadini, sparsi fra Garfagnana, Lunigiana, Langhe, in comune avevamo l'abilità di lavorare terre pietrose e scoscese, terrazzate con fatica. Eravamo sudditi di marchesati, ducati, a loro volta dipendenti da loschi Imperi, tedeschi o francesi, che se li scambiavano spesso fra loro, come fossero cartoline.
Grazie a lei, i miei avi, diventati italiani, si sono mischiati, amati, hanno avuto figli e nipoti, oggi 150 anni dopo, siamo in dieci, nonni, figli, nuore, quattro bambini, stiamo bene insieme, siamo italiani felici. Ci abbiamo messo 60 anni per passare dalla terra all'officina, altri 80 per lasciare officine e uffici e diventare partite iva, e qui intendiamo fermarci: noi siamo arrivati. Fin da Giolitti, abbiamo capito che il potere vero, non era per noi, era solo per cricche alte borghesi, evolute poi in cosche, quindi in mafie, sempre in lotta fra loro per la supremazia. Negli ultimi 80 anni, abbiamo osservato, da spettatori curiosi, la successione al potere di individui che, seppur identici dal punto di vista antropologico, si presentavano sul palcoscenico con abiti da scena via via diversi (fascisti, azionisti, comunisti, popolari, catto-comunisti, “bauscia”), con colori diversi (nero, rosso, bianco, azzurro). Grazie alla nostra grezza saggezza operaio contadina, avevamo colto la loro (mascherata) disonestà intellettuale, anzi più pronunciavano concetti e parole alate, come giustizia, democrazia, etica, solidarietà (tutti cauti invece sul termine libertà), più dimostravano di esserlo. Per sopravvivere, ed essere felici, abbiamo scelto di vivere negli interstizi, di rimanere in silenzio, a volte nascosti (“bene qui latuit bene vixit”, per dirla con Ovidio), evitando le seduzioni del potere e del denaro.
Caro Conte, quando finì la guerra, avevo dieci anni, vissi quel momento indimenticabile in cui i soldati americani entrarono in Torino, percorsero il ponte della Gran Madre, si allargarono in piazza Vittorio, alti, belli, diversi, capii che eravamo liberi. Vidi piangere di gioia i mie genitori e i miei nonni, come immagino sia stato per lei, Conte, quel magico 17 marzo 1861. Gli Stati Uniti divennero il mio secondo paese, colà lavorai. Purtroppo, negli ultimi 20 anni si sta degradando, diventa sempre più simile all'Europa, i suoi capisaldi culturali (libertà, senso del tempo, centralità dell'individuo) si stanno sfaldando. Pensi, caro Conte, che una decina di leader di prodotti moderni (il web, l'informatica), in combutta con altrettanti banchieri di Wall Street, sono i veri padroni dell'America (li definiscono “nerd”, in realtà sono novelli Frankestein). Il più ricco di loro, Mark Zuckerberg (27 anni), è dipinto dai suoi stessi compari come uno psicopatico e un anaffettivo, ha inventato un oggetto non solo inutile, pericoloso, Facebook, che strappando agli uni e agli altri brandelli di intimità e stracci di rapporti umani, genera tristi iloti, tipo il losco Julian Assange. Lei non ci crederà, ma il cane di Zuckerberg, un puli di razza ungherese, di nome Beast, ha un profilo Facebook, “colloquia”, non con le pecore come natura vorrebbe, ma con 26.000 umani. Capisce, Conte, in che mondo fasullo siamo entrati, in sua assenza?
Lei ha fatto un grande lavoro nel concepire e realizzare l'Italia, sapeva benissimo che i Savoia erano peggiori dei Borboni, che c'era più cultura al sud che al nord, per questo ha voluto che diventassimo italiani, ci integrassimo, ci scambiassimo seme e lingua. Per fare l'unità, in un periodo senza eroi, com'è stato il Risorgimento (Gobetti dixit), lei si è avvalso di ogni mezzo, soprattutto della sua sofisticata intelligenza politica. La nostra famiglia ha per lei grande devozione, lei ci ha dato la consapevolezza di essere italiani, ha esaltato i nostri valori, da parte nostra abbiamo l'orgoglio di non esserci mai identificati con chi ci ha governato (abbiamo rispettato sempre e solo gli alpini e i missionari, i figli migliori del Piemonte). Abbiamo apprezzato il suo amore per le donne e per la tavola (grande pregio). I supponenti Obama, Merckel, Sarkozy, mai direbbero, con un lampo di ironia, all'uscita dal Parlamento, «oggi abbiamo fatto la storia, andiamo al Cambio a mangiare».
Una sola critica, Conte. Avrebbe dovuto licenziare i Savoia, farci diventare subito una Repubblica Federale, confederarci con la Svizzera, un piccolo, grande paese. Invece, siamo costretti a ascoltare questa genia di bolsi europei giacobino luterani che ci governa, “tartufi malati di narcisismo tristo”, “seguaci di una cupa religione senza Dio”, i cui avi lei ha ben conosciuto, e immagino disprezzato. I loro eredi sono identici, parlano, parlano fino alla nausea di diritti, ma noi cittadini (comuni ma non fessi) siamo interessati a difendere un unico diritto civile irrinunciabile, una testa, un voto.

Bozen. A Don Bosco si festeggia con le bandiere appese «Dobbiamo essere uniti». BOLZANO. I bolzanini festeggeranno il 150esimo anniversario dell'Unità d'Italia in modo compatto. Se la moltiplicazione dei balconi imbandierati col tricolore era già un forte indizio, la conferma arriva dalle dichiarazioni dei cittadini raccolte a Don Bosco.  «Eccome se festeggerò - l'esordio entusiasta di Carmelo Pignatta - ed esporrò con orgoglio la bandiera dalla finestra. È importante prendere parte a questa celebrazione, soprattutto in un momento storico e politico come questo. Sarebbe stato meglio, comunque, che la necessità di sentirsi uniti l'avessero avvertita pure i nostri partiti, come al solito totalmente lontani dai sentimenti della gente presi come sono dai loro interessi di bottega». Angelo Cinà e Annamaria Altafini annuiscono convinti: «Vogliamo sentirci liberi di festeggiare una data importante per la nostra storia nazionale, senza condizionamenti. E' giusto esserci con il cuore e che bel gesto di comprensione e convivenza sarebbe stato quello di festeggiare al fianco del gruppo tedesco. Si è scelto il muro contro muro, peccato...».  «Ci vuole più rispetto per tutte le sensibilità - interviene Giovanna Basta - e se qualcuno ha piacere di celebrare il proprio Paese non vedo perché ci si debba mettere di traverso. La risposta alla festa, infatti, è particolarmente bella in città ed è giusto che sia così». Renzo Padovan è pronto a seguire «quante più manifestazioni possibili in una giornata da ricordare. Peccato che il solito degrado politico italiano si traduca in una frammentazione di celebrazioni che ha del ridicolo in una festa dedicata proprio all'unità nazionale. Poco comprensibile, a dirla tutta, è stato pure l'atteggiamento di parte della popolazione tedesca: sarebbe stata preferibile l'indifferenza piuttosto che la denigrazione sistematica portata avanti dal presidente di mezzo Alto Adige Luis Durnwalder».  Dal bancone del bar "Le Petit" di via Bari prendono la parola Marco e Maria Rita Baraldi: «Le feste sono sempre belle da celebrare. A livello professionale ci limiteremo probabilmente all'esposizione della bandiera perché molti residenti tenderanno a spostarsi verso il Centro, ma sul piano umano fa certamente piacere vedere Bolzano che festeggia».  L'occasione vale una riflessione sulla condizione del gruppo italiano «sempre subalterno al potere tedesco - come puntualizza Cristiano Vaccaro - e impossibilitato ad incidere veramente».  Interessante tastare il polso anche a chi è cresciuto parlando il tedesco: «Sinceramente - dice Renate Schwienbacher - non sento per nulla una festa che hanno stabilito da un giorno e all'altro e che mi vedrà, come al solito, lavorare all'ospedale. Detto questo, però, non credo sia nemmeno giusto condannare chi vuole celebrare la ricorrenza: il teatrino politico di queste settimane è stato stucchevole perché è mancata a tutti un po' di maturità». Stessa linea di pensiero per Rodolfo Keim: «Bisogna interrogarsi su quanto ci sia di politico in tutta questa vicenda. Sarebbe davvero bello scoprire un sentimento così forte di amore verso il proprio Paese da parte degli italiani ma, purtroppo, credo che molte di quelle bandiere siano esposte più che altro per contrapposizione politica». Idea simile per Carlo Fiori: «Ci riempiamo la bocca di convivenza - spiega -, ma poi basta un anniversario per mettere in evidenza quanto siamo ancora lontani da questo traguardo». 

Bressanone. La città non festeggia l'unità d'Italia. La scelta è del Pd: «Servono iniziative condivise, no a nuovi muri». di Tiziana Campagnoli. BRESSANONE. Il Comune di Bressanone non parteciperà ai festeggiamenti ufficiali per i 150 anni dell'Unità di Italia, quelli previsti in molte località della provincia per domani 17 marzo. E non per un veto posto dalla Svp, cosa ormai nota, ma per una precisa linea politica seguita dal Pd.  Il vicesindaco Gianlorenzo Pedron, infatti, chiarisce che sulla festa per l'Unita d'Italia sono tutti d'accordo, ma che in una realtà particolare come quella di Bressanone, diversa da Bolzano o Laives, occorrono iniziative condivise per tutti i cittadini evitando di creare un muro contro muro che avrebbe solo ripercussioni negative sulla convivenza. Quindi domani niente feste, solo un'iniziativa dell'Upad sulla storia della canzone italiana alle 16 nella sala parrocchiale di Millan, mentre per l'iniziativa condivisa prannunciata da Pedron per metà maggio, un concerto dei "Solisti Veneti", si dovrà attendere l'ok della giunta comunale.  «La nostra linea è stata messa subito in chiaro anche in Prefettura - spiega Pedron - Siamo contrari ad una festa per gli italiani, manifestazione che dividerebbe, ma sosteniamo e cercheremo di attuare un'iniziativa condivisa destinata a tutti i cittadini, italiani e tedeschi».  Pedron, oggi in giunta, proporrà un concerto del gruppo Solisti Veneti, del costo di 20 mila euro.  «Cosa c'è di meglio che proporre a tutti i cittadini un concerto che ripercorra la storia di Italia, dal Risorgimento ad oggi, attraverso brani che riguardino tutte le regioni - continua Pedron - è un ottimo modo per far conoscere ai cittadini tedeschi la cultura italiana. E non costerà poco. Si tratta di un concerto che costerà 20 mila euro e lo proporrò in giunta domani (oggi per chi legge). Credo che non vi saranno ostacoli e la manifestazione dovrebbe svolgersi a metà maggio».  Se gli si chiede come mai il concerto non sia stato organizzato prima, quindi non due giorni prima del 17 marzo, Pedron risponde senza esitazione.  «Il concerto si svolgerà a metà maggio, quindi siamo nei tempi - spiega - la nostra è una linea che guarda avanti, alla convivenza, attraverso un'iniziativa condivisa che non crei seperazioni».  Sull'alzabandiera, poi, non ha dubbi. Non ci sarebbe stata partecipazione.  «All'alzabandiera ci saremmo stati al massimo Del Piero, qualche consigliere comunale e io - conclude Gianlorenzo Pedron - quindi, inutile organizzarlo».  Di tutt'altro avviso ed anzi molto critico nei confronti del vicesindaco ma anche assessore alla cultura italiana, Antonio Bova di Uniti per il Centrodestra.  «Le affermazioni di Pedron lasciano senza parole - spiega Bova - un'iniziativa per i 150 anni dell'Unità di Italia andava organizzata almeno un anno fa, non certo due giorni prima del 17 marzo. La verità è che Pedron non ha saputo fare l'assessore alla cultura. Bisognava coinvolgere tutte le associazioni, anche quelle combattentistiche, aprendo un confronto per trovare insieme una soluzione condivisa. Magari un ciclo di conferenze sulla storia di Italia per far conoscere agli amici tedeschi il nostro percorso. Non è stato fatto, quando invece si è organizzato tutto per la commemorazione di Andreas Hofer, 40 mila euro di budget, e per il gemellaggio con Ratisbona, con un costo di 75 mila euro. Un concerto, e poi a metà maggio, che senso ha?»  «Festeggiare i 150 anni - conclude Bova - non vuol dire andare contro i cittadini di lingua tedesca, non è una festa nazionalista, è solo un giorno in cui onorare il Risorgimento, un evento storico contenuto anche nella Costituzione». 

Trento. Riz: «Niente festa, non sono italiano» 17/03/2011 09:38. CAMPITELLO DI FASSA - «Per me i festeggiamenti per i 150 anni dell'unità d'Italia non significano nulla. Assolutamente nulla. Io non mi sento italiano. Sono un ladino e basta. Nemmeno tedesco io sono, di certo». Paul Riz ha 85 anni, è nato e vive a Campitello di Fassa, personaggio molto conosciuto e rispettato in valle. Un uomo esile, simpatico nel fare e nel dire. «Io sono un ladino a cui preme molto la sua identità. - dice - Io italiano non mi sento, per un milione di ragioni. Ma tedesco nemmeno. Solo per dire, io ho fatto un anno di deportazione con la Todt (ndr, il lavoro coatto per la Germania nazista), eravamo in 22 della zona di Canazei e al Brennero ci tolsero i documenti. poi finii a Klagenfurt e infine in Alto Adige, vicino a Vipiteno».
Va tutto bene, gli diciamo, ma lei vive in un luogo, la Valle di Fassa di oggi, una parte della mitica Ladinia che ancora non esiste. E Fassa sta in Italia. Vale la pena festeggiare?
«All'epoca di mio nonno, quando avevano 10-12 anni, li mandavano in Alto Adige, per sollevare le casse familiari di una bocca. Andavano a fare i pastorelli di vacche. Nonno capitò a Castelrotto. E quando venne l'autunno e suo padre andò a prenderlo, non volle seguirlo. Stava troppo bene là. Gli fecero frequentare le scuole, lo trattavano come uno di famiglia. Tornò a Campitello ai suoi 20 anni, si sposò e mise su famiglia».
Ma se si trovava così bene in terra tedesca, perché rientrare?
«La patria è sempre la patria».
Bene, ma la sua patria è la stessa di suo nonno?
«In un certo senso sì, io sono nato qui e sono ladino. I 150 anni dell'Italia non esistono proprio per me».
Ma allora la domanda diventa una: cosa ha rappresentato per lei, e per la gente ladina, l'annessione del Trentino e quindi anche della Valle di Fassa all'Italia? Il 1918 secondo lei ha costituito solo una pagina nera della vostra storia?
«No, non è proprio così. Io vorrei che sia l'Italia che l'Austria ci lasciassero in pace».

Trento. Fratelli d'Italia anche i Trentini? 17/03/2011 09:23
Caro Presidente, come Lei sa, Trento è stata l'ultima terra (insieme a Trieste) a diventare Italia dopo la Grande Guerra, nel settembre 1920. Molti dei nostri nonni hanno combattuto al fronte con la divisa da Kaiserjäger, e nelle nostre valli, insieme all'italiano, si parla il tedesco e il ladino, perché da secoli in regione convivono gruppi etnici diversi. «L'Adige» da tempo ha avviato una riflessione profonda sul 150° Anniversario dell'Unità d'Italia.
Una riflessione tesa a comprendere le ragioni del nostro stare insieme, e a riscoprire ciò che ci unisce fortemente con il resto del Paese rispetto a ciò che ci differenzia. Per questo la festa del 17 marzo viene celebrata dal giornale con un'iniziativa editoriale speciale: ai lettori viene distribuito il Tricolore da appendere alle finestre, e con il quotidiano sarà possibile avere un cd con l'Inno di Mameli e il libro «Bandiera madre.
I colori della vita», che ripercorre la storia della nostra Bandiera, che è insieme storia del nostro Paese. Inoltre le pagine odierne sono ricche di racconti e testimonianze su questi 150 anni di cammino insieme, che vogliamo siano meditati e condivisi. Alcuni lettori ci hanno scritto, però, chiedendo perché oggi dobbiamo festeggiare, se abbiamo una storia così diversa da Roma, se per quasi mille anni siamo stati parte di un altro Impero, quello dei popoli tedeschi, fin dai tempi di Ottone I di Sassonia, nel 962 d.C. Altri ci hanno ricordato che quella del 1918 fu un'annessione all'Italia, ma non ci fu alcuna consultazione popolare.
Altri ancora ci hanno fatto presente che sono di madrelingua tedesca, e quindi oggi non hanno nulla da celebrare. Presidente, lascio rispondere a Lei. Ci aiuti a capire perché anche gli abitanti di una terra speciale come il Trentino Alto Adige, fiera della sua Autonomia, oggi debbano nutrire l'orgoglio di sentirsi Fratelli d'Italia.
Con stima immensa, Pierangelo Giovanetti Direttore dell'Adige

Trento. Naturno snobba Mameli, punito. 17/03/2011 10:56. TRENTO - Molti allenatori, giocatori e dirigenti delle squadre dilettantistiche in Alto Adige, anche per ordine strisciante della Svp e del presidente Durnwalder, ci hanno detto che non si è suonato su nessun campo l'inno di Mameli. Insomma non è stata recepito l'invito del Coni. A Naturno, dopo il match con il Comano in Eccellenza, il caso è saltato fuori ufficialmente perchè il giudice sportivo Giannantonio Radice ha sanzionato la società con una multa di 100 euro «per aver disatteso la disposizione in merito ai festeggiamenti del 150° dell'Unità d'Italia che prevede l'esecuzione dell'inno nazionale».

Ma c'è di più. Il giudice federale ha stabilito che vengano «inviati alla Procura federale i documenti arbitrali perchè vengano accertati eventuali comportamenti del presidente del Naturno, Dietmar Hofer, che sono stati lesivi dell'onorabilità dell'arbitro». Con tutta probabilità la designata interregionale dal Cai Veneto Michela Grotto di Schio (nella foto) ha insistito nel far rispettare l'ordinanza dell'inno e gli è stato risposto picche. Senza tanta galanteria. Ad Ala poi domenica non avevano gradito l'arbitraggio di Trapani di Merano tanto che il presidente Massimo Candio aveva scritto in Federazione di insistere per non volerlo più vedere al «Mutinelli».

Ieri il giudice ha inflitto 300 euro di ammenda all'Alense per offese e minacce alla terna, mentre è stato disposto l'invio degli atti alla Procura federale per identificare la persona che si è qualificata come presidente Candio e ha messo in atto un comportamento censurabile, ma pare non sia stata riconosciuta da Trapani. Insomma una perdita di tempo. Se non era Candio allora chi potrebbe essere il misterioso denigratore dell'arbitro? Intanto mister Zoller non andrà in panchina fino al 15 aprile, tre turni sono stati comminati a Stefano Manica dell'Alense che «insultava e quasi aggrediva l'assistente», due invece i turni al compagno di squadra, il portiere Lorenzo Rocca, che era stato espulso da Trapani.

Trento. Paperoni trentini in crescita. 17/03/2011 10:35. TRENTO - Sono 4.134 le persone che hanno superato la soglia dei 100 mila euro. I «nababbi» trentini, un paio di anni fa (dichiarazione dei redditi 2008 sull'anno di imposta 2007) erano 3.811: alla faccia della crisi, dunque, lievita di oltre l'8% il numero di quanti possono contare su un reddito decisamente florido. E la cerchia dei paperoni si allarga se, nell'elenco, si inseriscono i cittadini che occupano il «gradino» immediatamente successivo, dunque con un reddito che supera i 70 mila euro: in questo caso il numero sale a 4544.

 La parte del leone, come sempre, spetta ai grandi centri cittadini: Trento non ha rivali, con 1.646 persone over 100 mila (1.508 nel 2007), seguita da Rovereto a quota 373 e, molto più distante, Arco , che si ferma a 166, ma scalza - per pochissimo - i vicini di Riva del Garda (164) dal terzo gradino del podio (in numeri assoluti, ovviamente). In crescita il dato di Pergine , che passa da 113 a 123 (+51).

Non se la passano male nemmeno i centri lontani dal capoluogo: in primis Cles , che conta 79 cittadini con un reddito sopra i 100mila euro, ma anche Lavis (59) e Borgo Valsugana (57). Andando a spulciare i dati di alcune località turistiche, si scopre invece che i «ricchi» sono decisamente contenuti: Pinzolo si ferma a 37 (un pochino meglio dei 31 del 2008), Canazei a 21 e Moena non va oltre i 16. Un pochino meglio a Cavalese (da 44 a 53) e Levico (da 36 a 42). Sotto tono, quanto a ricchezza, anche Andalo , che non va oltre i 13 cittadini. Ma c'è chi sta decisamente peggio.

Aosta. A febbraio nuovo salasso per le famiglie valdostane
Il costo della vita salito del 3,8 per cento. 17/03/2011. AOSTA. Per le famiglie valdostane è stato un febbraio nero. Secondo i dati Istat in Valle d'Aosta il costo della vita è aumentato del 3,8%, il più alto in Italia. Si tratta del dato in maggiore crescita dal novembre del 2008.

Sull'aumento hanno pesato i rincari dei servizi relativi ai trasporti, dei carburanti e dei beni alimentari. L'aumento dei prezzi rilevati nell'ultimo anno potrebbe far aumentare la spesa media delle famiglie italiane mediamente di 857 euro: a livello territoriale il picco più elevato lo si potrebbe raggiungere al Nord (+989 pari a +2,95%); più contenuti, invece, i possibili aumenti al Centro (+899 pari a +2,94%) e al Sud (+635 con una variazione del +2,76%).

L'Istat spiega che l'aumento dell'inflazione a febbraio risente in primo luogo delle tensioni sui prezzi dei servizi, in particolare di quelli relativi ai trasporti. Un effetto di sostegno alla dinamica dell'indice generale deriva anche dall'andamento dei prezzi dei beni energetici non regolamentati e dei beni alimentari. Inoltre, l'indice armonizzato dei prezzi al consumo aumenta dello 0,2% rispetto al mese precedente e del 2,1% rispetto allo stesso mese dell'anno precedente, (era +1,9% a gennaio 2011).

Guardando alle diverse voci di spesa, i maggiori incrementi congiunturali dei prezzi riguardano i trasporti (+0,8%), l'abitazione, acqua, elettricità e combustibili (+0,6%) e i prodotti alimentari e bevande analcoliche (+0,4%). Sul piano tendenziale i tassi di crescita più marcati toccano sempre trasporti (+5,3%) e abitazione, acqua, elettricità e combustibili (+4,4%). Risultano, invece, in flessione i prezzi delle comunicazioni (-0,6%). Aosta (+3,8%), Bari (+2,9%) e Roma (+2,7%) sono i capoluoghi di regione in cui i prezzi hanno registrato gli aumenti più elevati rispetto a febbraio 2010. A Trento l'aumento è stato del 2%.

Udin. Unità d’Italia: feste per tanti ma con l’assenza della Lega.di Beniamino Pagliaro
Il Carroccio del Fvg: «Noi lavoriamo, soltanto il Sud ha da festeggiare». UDINE. Alla fine il gran giorno dell’anniversario dell’Unità d’Italia è arrivato. Tra molte polemiche i festeggiamenti sono cominciati in tutta Italia già ieri sera con la cena di gala al Quirinale e la Notte Tricolore. Per Giorgio Napolitano sarà un periodo di super lavoro visto che il presidente, che oggi parlerà solennemente davanti alle Camere riunite, nei prossimi giorni girerà per la penisola per presiedere le celebrazioni del 150esimo compleanno della Patria.
«Farò gli auguri all’Italia per 38 minuti», dice il capo dello Stato. Poi invita a porre l’accento sui padri costituenti. «E’ giusto nel celebrare questa ricorrenza porre l’accento sull’approccio innovativo e lungimirante dei padri costituenti. Dai principi della Costituzione repubblicana è disceso lo sviluppo di politiche di autonomia e tutela delle minoranze linguistiche, assunte ad esempio da altri paesi», ricorda. E aggiunge: «Divisi saremmo stati spazzati via dalla storia».
Ma in regione cosa fanno gli assessori della Lega nel giorno della gran festa dell’Italia? «Al lavoro!», giurano Federica Seganti e Claudio Violino. In Friuli Venezia Giulia non si son viste ancora grandi polemiche per i 150 anni dell’Unità nazionale, ma gli esponenti del Carroccio tengono a marcare la differenza.

«Gli unici che hanno qualcosa da festeggiare sono i meridionali», ha detto ieri il capogruppo della Lega Nord in consiglio regionale Danilo Narduzzi. «L’Italia - ha aggiunto - è una repubblica fondata sul lavoro di metà del Paese, per cui noi al Nord abbiamo poco da festeggiare e lavoreremo. Siamo in una situazione che non ci piace: chi festeggia al Nord non ha capito che differenza passa tra il cornuto e il mazziato, come dicono al Sud. Qua chi festeggia - ha concluso - non ha capito niente».

Gli assessori regionali non festeggeranno in alcun modo, anche se gli uffici pubblici, compresi quelli della Regione, sono chiusi. «Non è che non festeggio, è che ho tanto da lavorare», ha spiegato l’assessore all’Industria Seganti, che si dedicherà a «un trolley pieno di documenti e pratiche sull’internazionalizzazione». «Ho in agenda due incontri al mattino», ha fatto sapere invece l’assessore all’Agricoltura Violino, che poi sarà occupato, invece che dal tricolore, dal «festeggiamento di un mito rurale friulano, l'uscita della prima tempora con l’associazione dei Benandanti».

Sarà, invece, a Roma a festeggiare il centocinquantesimo il presidente leghista del Consiglio regionale, Maurizio Franz, che in veste ufficiale parteciperà alla cerimonia con il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.

Dal Pd alza il tiro proprio contro la Lega l’eurodeputato e segretario regionale Debora Serracchiani. «Tutti i premeditati gesti di dissociazione dalle celebrazioni dell’Unità d’Italia, messi in atto dalla Lega, fuori e soprattutto dentro le istituzioni - ha dichiarato - non possono assolutamente essere più considerati nota di colore o eccesso di stravaganza». Secondo l’europarlamentare, si tratta di «segnali precisi lanciati da una forza politica che sta dando vita a una strategia oggettivamente eversiva: con il suo comportamento dichiara di non riconoscere i fondamenti storici e valoriali su cui sono costruite le istituzioni, e quindi di usare solo strumentalmente gli organi rappresentativi ed esecutivi in cui siedono».

Le dichiarazioni di Narduzzi, capogruppo della Lega Nord in Regione, «sono anacronistiche e offensive per la storia dei 150 anni dell’Unità d’Italia e, in particolare, per il popolo meridionale», afferma poi il capogruppo del Pd in Consiglio regionale, Gianfranco Moretton. «Forse il leghista Narduzzi non sa o non ricorda che con l’Italia unita è stato possibile dare sviluppo a tutto il Paese e in particolare un impulso forte alle industrie del Nord dell’Italia - ha continuato Moretton - che proprio grazie ai tanti meridionali che accanto ai lavoratori del Nord, si sono trasferiti nelle regioni transalpine per prestare la loro opera lavorativa, altrimenti insufficiente».

Per il coordinatore nazionale di Fli, Roberto Menia, sono «squallide manifestazioni di antitalianità e di disprezzo per le Istituzioni quelle a cui la Lega ci ha brutalmente sottoposto». Lo ha affermato ieri, in una nota a proposito proprio del 150º dell’Unità d’Italia, per il quale «si è sviluppato nel Paese un amaro dibattito, per certi versi persino surreale - sottolinea - relativo all’opportunità delle celebrazioni solenni».

«Questi episodi - prosegue Menia, riferendosi alle manifestazioni leghiste - risultano ancora più disgustosi in quanto i maggiorenti di quel partito ricoprono oggi ruoli di altissima rilevanza istituzionale. La difesa della nostra lingua, la promozione della nostra cultura e il rafforzamento della nostra identità non devono essere intese come negazione delle specificità territoriali, nè delle altrui identità, perché è proprio nell’unione di queste specificità - conclude - che risiede lo spirito patriottico del Risorgimento».

Sempre in tema del gran compleanno dell’Italia, non si può dimenticare la bizzarra scelta del Consiglio regionale, che il prossimo 29 marzo discuterà delle modalità con cui gli uffici pubblici avranno dovuto rispettare la giornata di oggi. Il paradosso temporale è stato il frutto di una «frettolosa» chiusura dei lavori d’aula andata in scena a inizio marzo. Il tempo stava per scadere e i consiglieri hanno così deciso di rinviare il punto all’ordine del giorno: l’effetto comico è garantito.

Treviso. I ventisei che fecero l'impresa. Trevigiani nei Mille di Garibaldi: i nomi, le loro storie. TREVISO. Erano in 26 e i loro nomi sono incisi in una lapide commemorativa in piazza Aldo Moro. Sono i garibaldini trevigiani che nel 1860 decisero di aderire alla spedizione dei Mille comandata da Giuseppe Garibaldi. La nostra provincia, ora così restia nei suoi dirigenti politici a festeggiare il Tricolore, ha invece dato un contributo indispensabile all'Unità d'Italia. I trevigiani costituivano il terzo contingente più numeroso della regione (151 i garibaldini veneti), dopo Venezia e Vicenza. 
CHI ERANO? La lista pubblicata nella Gazzetta ufficiale del Regno d'Italia del 1878 ne indica provenienza, professione ed età. C'è ad esempio Domenico Andreetta, di Portobuffolè che al momento dell'imbarco aveva appena 22 anni ed era un possidente. Oppure Giovanni Cristiano Berna, che di anni ne aveva 27, era nato a Treviso, faceva il segretario della società del Tiro provinciale e poi il ricevitore del lotto. Sempre dal capoluogo proveniva il parrucchiere Giovanni Battista Fincato, mentre Pietro Piai di anni ne aveva appena 18 ed era uno dei rappresentanti delle classi più povere accorse a Marsala nella speranza di un futuro migliore: di mestiere faceva infatti il bracciante. Il calzolaio Giovanni Battista Marin aveva 27 anni e veniva da Conegliano. Le città da cui provenivano i nostri garibaldini erano Castelfranco, Conegliano, Godega di Sant'Urbano, Motta di Livenza, Oderzo, Portobuffolè, Povegliano, Treviso, Vittorio Veneto e Spresiano. 
CHI NON E' TORNATO. C'è anche chi nella spedizione o nei mesi successivi ha perso la vita. Ed è in loro ricordo che molte associazioni domani scenderanno in piazza. Fra questi ad esempio Ernesto Belloni, di Treviso, che appena diciannovenne morì combattendo, ferito a morte all'inguine a Reggio Calabria, o come Pietro Zenner, 22 anni, di Vittorio Veneto. Nella lista c'è Giuseppe Coccolo, 20 anni, morto invece a Milano nel 1861. Luigi Giuseppe Marchetti, di Ceneda (futura Vittorio Veneto), morì invece a Campo Ligure nel 1861. Nacque e morì poi a Treviso nel 1861 il ventenne Gustavo Meneghetti, mentre il sottotenente nella cinquantatreesima fanteria Giuseppe Soligo venne a mancare nel settembre del 1861 a Radicofani. Molti
comunque sono tornati alle occupazioni e agli studi, qualcuno invece avrebbe seguito la vita militare.  
IL COMBATTENTE. Fra questi ultimi c'è Antonio Radovich, protagonista di una pubblicazione del 1990 scritta da Giuliano Simionato ed edita da Marini. La sua storia è quella di un vero combattente risorgimentale. Nato nel 1837, appena undicenne cooperò al sabotaggio di Ponte della Priula. Nel 1860 segue il generale Sirtori all'imbarco da Quarto sul «Lombardo» (il vapore che, insieme al «Piemonte» iniziò a discendere il Tirreno) agli ordini di Bixio. Divenne amico durante la traversata di Menotti Garibaldi, combattè a Calatafimi, Partinico, Monreale e Palermo. Nell'esercito regolare ottenne poi il grado di sottotenente. Si ritirò nel 1869, ma l'anno dopo fu lo stesso Garibaldi a inviargli un telegramma in cui lo chiamava a combattere nella guerra franco-prussiana, divenendo poi maggiore sul campo. Morì in tarda età nel 1923 a Dueville. I suoi cimeli sono custoditi al museo del risorgimento di Vicenza (fra questi ciocche di capelli e della barba, o brandelli della camicia dell'Eroe dei due mondi, spartita fra i suoi fedelissimi come trofeo venerato). 
LA CAMICIA ROSSA. Anche il museo civico di Asolo ha deciso di esporre i cimeli del periodo risorgimentale. La mostra, aperta fino al 17 aprile, è un'occasione per ammirare anche nella nostra provincia la camicia rossa garibaldina divenuta simbolo della nascita del Regno d'Italia, appartenuta a un asolano, Giovanni Martini, uno dei volontari che hanno partecipato alla spedizione di Garibaldi. La giubba è stata recentemente restaurata ed è esposta assieme alla testimonianza delle battaglie del 1866, in una lettera che Martini scrisse alla madre. Le celebrazioni asolane per l'Unità comprendono anche la notte tricolore. Oggi, dalle 20.30 fino a mezzanotte, saranno visitabili la Rocca medievale e il museo civico. In Sala Ragione si terrà il concerto Tricolore con l'Orchestra Malipiero di Asolo, seguito dalla visita alla mostra «Il Risorgimento ad Asolo (1848-1870)». 

Venezia. Serenissimi, fine a 14 anni di processi. La Cassazione rigetta l'ultimo ricorso.
I fratelli Contin e Buson erano accusati (dal ’97) di associazione eversiva dell'ordine costituzionale democratico. VENEZIA — Inammissibile. Dopo l’assoluzione in primo e secondo grado, il tentativo della pubblica accusa di ottenere la condanna degli ultimi tre «serenissimi» che ancora si aggiravano per le aule di giustizia, si è infranto contro il muro della sesta sezione penale della Corte di Cassazione. E l’irriducibile Flavio Contin è pronto a festeggiare a modo suo. «Giovedì esporrò fuori dalla finestra la bandiera - sorride dalla sua casa nel Padovano - ovviamente non sarà quella italiana, ma quella di San Marco». Il caso infatti ha voluto che l’udienza per il ricorso della procura generale di Venezia contro la sentenza con cui la Corte d’assise d’appello aveva assolto il 65enne Flavio Contin, il 34enne Cristian Contin e il 57enne Gilberto Buson dalla pesantissima accusa di «associazione eversiva dell’ordine costituzionale e democratico», venisse fissato proprio alla vigilia dell’anniversario dei 150 anni dell’Unità d’Italia.

Una coincidenza che aveva fatto tremare i tre difensori, gli avvocati Renzo Fogliata, Alessio Morosin e Luigi Fadalti. Invece la Suprema Corte non si è fatta condizionare dall’afflato unitario che spira in queste settimane e in punta di diritto ha bocciato la richiesta di annullare la sentenza di secondo grado e ricominciare il processo. Le motivazioni saranno depositate nelle prossime settimane, ma di solito la Cassazione boccia come «inammissibili» i ricorsi in cui sia palese che l’oggetto non è la legittimità della sentenza, ma il merito: cosa però che non spetta alla Cassazione stessa. Era stato l’allora procuratore capo di Verona Guido Papalia ad aprire il maxi-fascicolo sui serenissimi. Oltre al famoso assalto al campanile di San Marco con il tanko l’8 e il 9 maggio 1997, per il quale sia i due Contin che Buson sono già stati condannati e si fecero anche diversi mesi di carcere, il magistrato aveva infatti accusato la quarantina di aderenti al cosiddetto «Serenissimo Governo Veneto», sorto nel gennaio 1987, di mettere a rischio lo Stato italiano.
Il gruppo si era addirittura inserito nelle trasmissioni televisive del Tg1. Dopo varie peripezie processuali, in quattro avevano deciso di continuare la battaglia fino in fondo: tra loro anche Bepi Segato, l’ideologo poi morto nel 2006. Alla notizia dell’assoluzione in primo grado Cristian Contin aveva mandato un ricordo proprio all’ex compagno di tante battaglie: «Bepi Segato, questa vittoria è per te». E mercoledì, di fronte alla Corte, presidente Adolfo Di Virginio, la procura generale aveva ancora insistito per la riapertura del processo, a oltre vent’anni dai fatti. «E’ stato un processo di durata spropositata, ora è presto per parlarne, ma potremmo valutare se chiedere i danni allo Stato», commenta l’avvocato Fogliata. «E’ la fine di un’odissea giudiziaria, la sofferenza processuale è stata enorme per gli imputati», aggiunge il collega Morosin. «E’ il riconoscimento di quello che abbiamo sempre sostenuto - dice Contin - non c’erano scopi eversivi, non eravamo violenti. Noi eravamo dalla parte giusta, è legittimo lottare per l’indipendenza del Veneto, perché noi siamo un popolo che, unito agli altri, è italiano: ma prima di tutto è veneto».
Alberto Zorzi

«Venezia abbandonata dallo Stato» Grido d'allarme della Curia, monsignor Meneguolo contro i tagli alla cultura. Anche il Patriarcato si unisce al coro di indignazione generale per i tagli alla cultura, che rischiano di pregiudicare l'integrità di quello straordinario «museo diffuso» costituito dalle chiese veneziabe con i loro capolavori e dalla stessa Basilica di San Marco e la città è ridotta a elemosinare finanziamenti. A lanciare l'estremo grido d'allarme è stato ieri il Procuratore di San Marco, monsignor Antonio Meneguolo, delegato per i Beni Culturali Ecclesiastici del Patriarcato di Venezia, in occasione della presentazione del restauro delle stature dei quattro profeti della Cappella Zen a San Marco. «Lo Stato italiano non è in grado di mantenere una città così?», ha sottolineato monsignor Meneguolo e di fronte al continuo prosciugarsi dei finanziamenti per conservare e restaurare chiese, palazzi e dipinti. «Va bene la legge speciale per Roma capitale - ha sottolineatio il sacerdote - ma bisogna che si sappia che la legge speciale per Venezia di fatto non esiste più perchè i fondi non arrivano e quelli che arrivano servono solo alla salvaguardia della città», ricordando i bei tempi andati quando la Basilica di San Marco fu costruita grazie alla «magnificenza dei dogi» che governavano la Serenissima. Per dimostrare la gravirtà della situazione monsignor Meneguolo cita un esempio per tutti, il campanile dell'Isola di Torcello: si sa che rischia di crollare, ma nonostante le promesse non si è visto ancora un soldo. «Due anni fa un temporale ha danneggiato la cella campanaria e dalle analisi della Sovrintendenza si è scoperto che la torre millenaria è sottoposta a tensioni tali che rischiano prima o poi di farla crollare - ha spiegato -. Un'impresa si è addirittura resa disponibile ad avviare a proprie spese il cantiere per il restauro senza aspettare l'arrivo dei fondi, ma i finanziamenti non si sono ancora visti. Li abbiamo chiesti un po' a tutti: al Ministero, o con la legge speciale e anche con l'otto per mille, ma li stiamo ancora aspettando. Per fortuna anche il campanile di Torcello ha aspettato a crollare, ma potrebbe non aspettare più», scherza amaro il Procuratore di San Marco. In realtà i Beni Culturali avrebbero stanziato alcune centinaia di miglioaia di euro per il Campanile, ma per ora solo sulla carta. «Lo Stato italiano che alla Basilica di San Marco deve dare un finanziamento annuale e da sei anni non lo fa - racconta -. E' un impegno che risale all'impero austro-ungarico e al Regno d'Italia, sospeso solo durante le due guerre mondiali. Invece oggi quei fondi sono finiti nella Legge Speciale per Venezia: questo è stato il "gioco". E' davvero un'umiliazione dover elemosinare quello che dovrebbe essere un impegno di tutti». (e.t.)

San Dona'. Il Tricolore scalda tutte le associazioni quasi fredda la Lega. SAN DONA'. Tricolore e polemiche, ma anche un po' di ironia. Nel cuore del Veneto leghista, domani molti cittadini si gireranno dall'altra parte o approfitteranno per dormire fino a tardi piuttosto che partecipare al solenne alzabandiera in piazza. Il Carroccio non sta sostenendo troppo queste celebrazioni che invece appassionano soprattutto il mondo delle associazioni.  Le associazioni combattentistiche e d'Arma saranno schierate con a capo il «mussoliniano» Ennio Mazzon domenica mattina in piazza. «Ma quali riunioni e convegni- dice Mazzon- la gente deve essere in piazza per l'alzabandiera che sarà il segnale più importante. Mi stupiSCE che oggi il Tricolore sia così di moda tra chi aveva solo una bandiera: quella rossa».  Polemica a corta distanza con l'Anpi, l'associazione partigiani, che recentemente ha attaccato il Comune per aver piegato male la bandiera del municipio lasciando solo la banda verde in evidenza. «A certe persone - replica Antonio Balliana, pilastro dell'associazione partigiani - la democrazia l'abbiamo insegnata e la insegniamo ancora noi con la nostra storia».  Il sindaco Francesca Zaccariotto ci sarà con fascia tricolore «perché è il sindaco di tutti». Non ci sarà, invece, il sindaco di Musile e onorevole Gianluca Forcolin, reduce da un'operazione al menisco: «Mi devo riposare, ho autorizzato manifestazioni sobrie, stanziato solo 800 euro. La festa è stata svilita, il giorno dopo tutto sarà come prima. La vera festa sarà quando tutti i territori avranno pari dignità con un vero federalismo, senza il Nord che traina il Sud».  Gli replica Graziano Paulon dal Consiglio: «Se questo è il suo pensiero, Forcolin fa bene a non venire, ma non per andare in ferie: per rispetto dei cittadini di Musile, del Popolo Italiano e della Costituzione, deve dimettersi da sindaco e da deputato».  Intanto il Club 54, con appassionati di storia e fotografia, invita tutti i cittadini ad esporre il tricolore dalle finestre. Il Blog Passaparola nel Veneto Orientale, con Mirco Quintavalle, ha trovato un vecchio libro, di Teodigisillo Plateo, in cui si parla delle radici risorgimentali di San Donà nella lotta contro l'Austria. E' festa anche nelle scuole. Alza bandiera speciale ieri alla media Nievo con il coro della scuola, bersaglieri e associazioni combattentistiche, oggi è il turno della Onor, che dopo l'alza bandiera il primo giorno di scuola rilancia un nuovo alza bandiera, convegni e incontri. Al ristorante Guaiane di Noventa, pranzo dei 150 anni con l'ingresso di un cavallo bianco con il sella niente meno che un redivivo Garibaldi.

Dolo. «Rispetto il tricolore, ma lavoro» Dolo. Il sindaco Gottardo non cambia idea: «I negozi possono aprire». di Giacomo Piran. DOLO. «Sono esterrefatta per tutto questo rumore attorno al comune di Dolo e alle manifestazioni per il 150º anniversario dell'Unità d'Italia. Questa sera io parteciperò a una cerimonia solenne a Camponogara indossando la fascia tricolore».  A parlare è Maddalena Gottardo, sindaco di Dolo, dopo le polemiche scaturite in questi giorni sui festeggiamenti per l'Unità d'Italia. La posizione del sindaco è però «particolare» perché da un lato conferma che parteciperà ai festeggiamenti per l'Unità d'Italia in programma stasera a Camponogara e dall'altro che domani si recherà a lavorare come anticipato nelle scorse settimane dai vertici della Lega. «Sono il sindaco di tutti - prosegue Gottardo - e nella mia veste istituzionale ho sempre celebrato, con convinzione, tutte le festività nazionali. Da ieri sul balcone del municipio è esposto il tricolore al quale, come pure alla fascia, ho sempre tributato pieno rispetto. Quanto ai festeggiamenti abbiamo sempre condiviso il programma dell'assessore Antonio Pra».  Maddalena Gottardo conferma che domani si recherà a lavorare. «Io sarò in municipio a lavorare, come abitualmente faccio ogni sabato e domenica. Dal mio punto di vista «fare festa» per un sindaco, significa essere presente ai propri doveri e nel territorio».  Infine motiva poi la sua decisione di permettere l'apertura dei negozi. «Ho solo accolto, come hanno fatto in Riviera anche Fiesso, Fossò, Campolongo, Vigonovo e Mira, le richieste dei commercianti. La Regione ha inviato ai Comuni una nota nella quale si evidenzia che in occasione del 17 marzo le attività commerciali possono beneficiare della deroga all'obbligo di chiusura».  Nel frattempo ieri sono state consegnate le oltre cento firme raccolte dal «Ponte del Dolo» per chiedere al sindaco Gottardo di ritornare sui suoi passi e festeggiare l'Unità d'Italia mentre domani sono previsti due incontri per il 150º anniversario. Alle 10 davanti al monumento di Garibaldi si terrà «Un fiore per Garibaldi, un brindisi per l'Italia» per festeggiare l'Unità d'Italia mentre alle 20.30 all'ex Macello i Giovani Democratici e i Giovani Italia dei Valori della Riviera presenteranno «I valori dell'Unità» con la partecipazione Miro Tasso, ricercatore ed esperto in onomastica, e Daniele Trabucco, ricercatore costituzionalista. 

Padova. L’azienda fa festa lavorando. Il sindacato: «Sciopero»
Scontro frontale alla Arneg. Troppe commesse, la proprietà non vuole fermarsi
CAMPO SAN MARTINO (Padova) — Per carità, la Costituzione è chiara: «L'Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro». Eppure la decisione della Arneg di onorare il 150˚ anniversario dell'unità chiamando a raccolta tutti i dipendenti, esattamente come in qualunque altro giorno feriale, non è stata ben digerita. Anzi, la risposta dei sindacati sarà lo sciopero. Tutti a festeggiare, ma ciascuno a casa propria. La bandiera italiana c'è e sventola già da giorni di fronte all'azienda dell'alta padovana, leader internazionale nella progettazione e produzione di attrezzature per negozi. E alla bandiera è seguita anche una comunicazione ufficiale fatta dai vertici sulle ragioni della decisione presa («importanti commesse non prorogabili»). Tutto ciò non è servito a lenire le ire dei lavoratori. Da qui la decisione di astenersi dal lavoro per tutte le otto ore della giornata annunciata da Roberto Martin, rappresentante della Uilm in azienda. Tre le ragioni: dimostrare che i lavoratori non sono sempre e solo costretti ad obbedire, prevenire un'ondata di finte malattie o assenze strategiche, rispettare i valori della festa nazionale.

Più che altro si tratta di un atto simbolico. Quel comunicato aziendale dove si parlava di «onorare il nostro essere italiani nel modo a noi più proprio e quindi anche con una giornata di lavoro» proprio non ha convinto i dipendenti. Detto questo, l’adesione è tutta da verificare. Non tanto per timore di reazioni aziendali, quanto per il mancato guadagno che tale decisione comporterebbe. Trattandosi di giorno festivo, la paga per i dipendenti vedrà una consistente maggiorazione. «Non mi aspetto che ci si una grande adesione allo sciopero di domani (oggi per chi legge, ndr) - ha spiegato Martin - con i soldi si compra anche il diavolo, si dice. Ma anche se staranno fuori in tre sarà comunque un grande successo, un gesto simbolico di grande importanza ». La tensione in azienda alla vigilia della giornata di «festa » era palpabile. Tanto che puntualmente, pochi minuti dopo l'affissione in bacheca del volantino che annunciava lo sciopero Martin è stato chiamato dal direttore del personale per delucidazioni. L'idea dello sciopero è arrivata anche e soprattutto su sollecitazione della direzione nazionale della Uilm. «Lo sciopero di oggi avrà il gusto di una prova di coraggio - ha concluso infine Martin - per ribadire che non si possono accettare criteri di gestione del lavoro basati solo ed esclusivamente sul profitto e sulle commesse».
Riccardo Bastianello

Roma. Napolitano apre la festa. La Lega non può rovinarla. 17/03/2011 09:11
ROMA - Con il 150° dell'Unità d'Italia «festeggiamo il meglio della nostra storia», pagine che nessuno deve dimenticare. Non dobbiamo dimenticare che «se fossimo rimasti come nel 1860, divisi in otto stati, senza libertà e sotto il dominio straniero, saremmo stati spazzati via dalla storia. Non saremmo mai diventati un grande paese europeo».
Lo ha detto ieri il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, dal palco allestito in Piazza del Quirinale per celebrare la «Notte Tricolore», che avvia le celebrazioni dell'Unità d'Italia. Napolitano ha sottolineato che a questa festa devono partecipare tutti, anche coloro che hanno diverse idee politiche.

La giornata di ieri, vigilia dell'anniversario del Paese è iniziata con un messaggio di Papa Benedetto XVI a Giorgio Napolitano in cui il pontefice esalta il contributo del cattolicesimo al risorgimento italiano. L'identità nazionale degli italiani, scrive il Papa è «fortemente radicata nelle tradizioni cattoliche»; e questo «costituì la base più solida della riconquistata unità».

Pur ammettendo le «lacerazioni» che il Risorgimento produsse nel campo dei fedeli, Benedetto XVI sottolinea che in quegli anni di scontri e rivolgimenti non venne mai meno la «profonda amicizia tra comunità civile e comunità ecclesiale». La festa vera e propria è stata aperta ieri sera da Napolitano, dal palco allestito di fronte al Quirinale, dove il presidente ha assistito alla kermesse organizzata per la «notte tricolore».

Il premier Berlusconi, in un messaggio, ha parlato della necessità di ricordare la nascita dello Stato italiano: «Il valore della memoria, con la celebrazione del 150° anniversario è una condizione essenziale per consolidare la nostra democrazia, per rafforzare la coesione nazionale e per affrontare le sfide del domani». Sfide che il premier vede anche nella valorizzazione delle differenze e delle diversità dell'universo italiano, ma sempre - avverte - nel rigoroso rispetto dell'unità dello Stato nazionale.

Il clou delle manifestazioni è in programma per oggi, con una serie di appuntamenti che culmineranno nel discorso di Napolitano a Montecitorio riunito per l'occasione. Sulla riuscita della celebrazione aleggia però l'incognita della Lega Nord, tentata da clamorose defezioni. Dopo aver movimentato le cerimonie ufficiali dei consigli regionali in Lombardia e in Emilia Romagna, dove i rappresentanti del partito di Bossi sono usciti al momento dell'esecuzione dell'inno di Mameli, la Lega si prepara a fare il bis alla Camera. Se Bossi ha fatto sapere che non mancherà alle celebrazioni a Montecitorio per rispetto al Napolitano, i capigruppo Reguzzoni e Bricolo hanno preannunciato che loro non ci saranno: il primo, per spiegare i motivi dell'assenza, ha detto che, essendo chiusi gli asili, resterà a casa con il figlio. Degli altri ci saranno solo i ministri. Di fronte a questo atteggiamento, l'opposizione è insorta: secondo il segretario Pd, Bersani, Berlusconi dovrebbe ammettere la fine della maggioranza. «Berlusconi ha giurato sulla Costituzione e sulla bandiera - dice Bersani - e dunque se un partito della sua maggioranza non viene in Parlamento deve dire che la maggioranza non c'è più».

Duro anche D'Alema: se i ministri leghisti diserteranno dovrebbero immediatamente rassegnare le dimissioni. Nel Pdl l'imbarazzo è palpabile: qualcuno confida in un ordine di Bossi che eviti l'incidente, ma i più sono rassegnati. Per questo il ministro La Russa, coordinatore del Pdl, prova a ridimensionare la portata del possibile sgarbo del Carroccio: «Non c'è obbligo di presenza, ma c'è obbligo di rispetto», dice allargando le braccia. I leghisti, comunque, non saranno gli unici: tra gli assenti, anche il sindaco dell'Aquila Massimo Cialente, che intende così protestare, a quasi due anni dal sisma, per i ritardi nella ricostruzione della sua città, «un pezzo d'Italia abbandonato».

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