giovedì 17 marzo 2011

Mezzogiorno-Sera. 17 marzo 2011.

Si dà fuoco per problemi di lavoro

Molise. 150°, De Camillis: "un pensiero per le donne italiane".

La Basilicata e la Nazione.

Il Sud ferita dei vecchi comunisti

Malaunità d’Italia enorme il divario.

Unità: I lati oscuri non sono più tabù.

Intervista a Garibaldi.

Unità: Gli equivoci della storia.

Napoli. Turismo, giornalisti inglesi a Napoli «Città bella, ma la monnezza?»

Il boom dell’export siciliano. Armao: “Non è solo petrolio”

Catania - Immobili comunali invenduti dopo il flop, si pensa ai saldi

Messina - Un’apertura sulla Zona Falcata, a breve una “cabina di regia”

Sicilia/ue: il pil regionale al di sotto della soglia del 75%

Sfollati, sale la tensione. E’ protesta

Conviene laurearsi? Sì, soprattutto al Sud

La Sardegna punta sulla cattura della Co2 per rivitalizzare le miniere di carbone

Palermo. «Così funzionava il sistema delle mazzette nel fotovoltaico»

Caserta. L'Unità divide, commercianti polemici.

Demopolis: "Unità d'Italia ancora incompiuta"

Trend globali. L'economia delle città




Si dà fuoco per problemi di lavoro
Vittoria: un 34enne si è cosparsi di benzina nella centrale piazza del Popolo, subito aiutato dai passanti è stato trasferito in elisoccorso al Cannizzaro di Catania
VITTORIA (RAGUSA) - Un uomo di 34 anni, di origini albanesi, si è dato fuoco intorno alle 20.20 di ieri in piazza del popolo a Vittoria (Ragusa), poco distante dal teatro comunale, sembra per problemi di lavoro ed economici.
L'uomo, salito dalla scaletta che collega la piazza a via Garibaldi, si è tolto il giubbotto e si versato addosso il contenuto di una bottiglia di liquido infiammabile, poi si è dato fuoco. È stato soccorso da alcune persone, tra cui un ex consigliere comunale, che si trovavano nei pressi del teatro e hanno spento le fiamme coi loro giubbotti, finchè non sono arrivati estintori dai bar della zona.
L'uomo, in prognosi riservata, è stato trasportato all'ospedale Guzzardi di Vittoria e poco dopo spostato al reparto grandi ustionati dell'ospedale Cannizzaro di Catania, in elisoccorso da Comiso. Pare che prima di essere intubato abbia pronunciato poche parole, che farebbero pensare a problemi di lavoro e a presunti mancati pagamenti. 17/03/2011

Molise. 150°, De Camillis: "un pensiero per le donne italiane". La parlamentare molisana Sabrina De Camillis parteciperà, alla presenza del Presidente della Repubblica, al saluto del Parlamento a Camere riunite a tutto il Paese nel giorno del suo 150° anniversario.
«Il Tricolore presente in modo diffuso nelle nostre comunità – afferma la deputata - deve essere l’occasione per riflettere sul significato di questa festività e soprattutto per consentirci di guardare con ottimismo al futuro della nostra Patria.
Sento il desiderio di rivolgere un pensiero alle storie delle tante donne dell’Unità d’Italia: presenze molto importanti anche se troppo spesso taciute, su cui l’omertà che ancora c’è da parte degli storici e della storia non rende loro giustizia.
Ritengo quindi che in questa giornata vadano ricordati gli uomini che hanno fatto l’Unità politica dell’Italia, insieme alle donne che hanno combattuto, non con i fucili, ma con l’arma della parola, per realizzare l’Unità sociale e culturale di un paese civile: l’Italia.
Certo, la frattura fra Nord e Sud è quella che piů di altre, segna il tempo di oggi ed oggi piů che mai, affrontare la questione meridionale è il dovere piů impellente di tutta la collettività nazionale, perché è nello sviluppo delle potenzialità inespresse del Sud, a partire della risorsa umana, in particolare i giovani, che risiede l’occasione per garantire all’Italia piů sviluppo e piů competitività.
D’altra parte è inimmaginabile una prospettiva separatista e tutte le spinte indipendentiste, nonché le sfide lanciate all’Unità del Paese, vanno affrontate con grande determinazione e coraggio senza mai tacere o sottovalutare.
Allo stesso tempo è utile ricordare le parole del nostro Presidente della Repubblica che nel messaggio per i festeggiamenti del 150° dell’Unità d’Italia ai Presidenti di Regione dice: “ ..Nella Costituzione l’identità storica e culturale della Nazione convive con il riconoscimento e lo sviluppo in senso federalista delle autonomie che la fanno piů ricca e piů viva, riaffermando l’unità e l’indivisibilità della Repubblica..”. Oggi tutti sentiamo, con forza dentro di noi, l’orgoglio di essere cittadini di questa grande Patria: l’Italia».

La Basilicata e la Nazione. 17/03/2011 Credo non si potesse dir meglio sulla controversa natura del nostro sentimento civile e sul diverso modo di declinarlo dall’interno degli universi locali e regionali, luoghi identitari ma anche finestre spalancate sul corso della storia nazionale.
Vi sono riusciti sia Folino, Presidente del Consiglio regionale, sia De Filippo, Governatore in carica. Naturalmente secondando le loro non banali fisionomie, le loro diverse letture, la loro irriducibile educazione sentimentale. Il primo evocando suggestivamente le radici sanguigne, popolari, in un certo senso eretiche che animarono la irruzione dei lucani nel teatro della “modernità”, ne ispirarono sommosse e cospirazioni massoniche e carbonare e le connotarono nel segno di una libertà eversiva verso gli ordinamenti feudali e borbonici. Il secondo seguendo le piste di una storiografia più elaborata, segnata intellettualmente da una soggettività elitaria di convinzioni liberali, pur se accompagnata da un clima di empatia popolare. Due letture che rilevano da alvei culturalmente diversi, ma che approdano coerentemente in quel “filone risorgimentale lucano”, così come, orgogliosamente, lo si è voluto definire per segnalare lo stigma unitario di una regione per tanti versi considerata ancora incompiuta.
Spieghiamo meglio. La definizione di “Risorgimento lucano” ha significato collegare un’identità storica, sociale, quale la nostra, apparentemente appartata e subalterna, al grande moto nazionale, alimentato per larga parte da correnti radicali e liberali e sostanzialmente guidata da una borghesia intellettualmente e politicamente emancipata dalle circoscrizioni native e portate a frequentare cenacoli e vivere di pubbliche, elevatissime responsabilità nazionali. Non può parlarsi, quindi di una “insularità” lucana nella vicenda unitaria, ma di una sua piena partecipazione alla costruzione di un ethos civile della nazione. Ciò che le consente oggi (e consente alla sua attuale classe dirigente) di tenersi fuori dalla partita storico-saggistica e antropologica fra terronia e padania, fra Aprile e Del Boca e di rivendicare una sua autonoma capacità di interlocuzione non priva di qualità e di legittimità nel dibattito sul federalismo, sull’unità civile del Paese, sullo stato del divario “in questo punto della storia e della geografia dell’Italia” e sulle strategie per farvi fronte con mezzi e alleanze appropriati.
Perciò il messaggio che viene dalla riflessione lucana è di assoluta attualità. I lucani hanno certo da guadagnare da un legame nazionale convalidato da serie argomentazioni storico-politiche a patto che lo vivano con realismo, facendo valere il loro “carattere sobrio e antieroico” poiché non rivendicano virtù autarchiche, aristocratismi e stemmi nobiliari, ma sanno di poter contare su un deposito di valori che in un eventuale “viaggio all’indietro” è sempre possibile ritrovare.
Se Folino al Risorgimento sentimentalmente si collega evocando il nerbo popolare della gioventù lucana che sfila a Napoli fra gli applausi come dal colorito racconto di Riviello e De Filippo al Risorgimento perviene per i tornanti della militanza intellettuale della più evoluta borghesia lucana, il risultato non cambia. Come non cambia il codice della comunicazione affidato a questa celebrazione del 150° dell’Unità: la Basilicata è il tassello civile di una costruzione nazionale che è destinata a durare oltre gli egoismi e le angustie di una stagione difficile ma non disperata. Non disperdiamo perciò il valore di una solidarietà di fondo che, senza nulla togliere alle diversità politiche, rappresenti una forza e una risorsa per doppiare la crisi e costruire il futuro.
Vincenzo Viti

Il Sud ferita dei vecchi comunisti 17/03/2011 Caro direttore,
lasciatelo dire con franchezza: hai avuto un gran bel coraggio nel pubblicare alla vigilia della Festa del 150esimo anniversario dell’Unità Nazionale il paginone di scritti del prof. Franco Piperno (in foto) che riaprire la ferita (ammesso che sia stata mai rimarginata) che per noi “vecchi” comunisti è l’emarginazione del Sud dalle politiche nazionali e quindi di un’unità di benessere sociale per i meridionali ancora da raggiungere. Solo che, al di là dell’unanime ed indiscusso riconoscimento del valore dell’unità del Paese, vorrei dire che la “ribellione” per riproporre al centro dell’agenda politica la Questione Meridionale può e deve essere una cosa seria. Da essa dipende il futuro delle nuove generazioni di lucani, calabresi, siciliani, pugliesi, molisani, sardi e abruzzesi. Una cosa troppo seria, appunto, per essere consegnata a movimenti, partitini e mini-leghe di matrice “sudista” e tanto meno a generici appelli all’insurrezione senza una strategia precisa (specie di alleanze e di alternativa al Governo Berlusconi-Lega).
Nel nostro ennesimo tentativo di rimettere in piedi la sinistra comunista puntiamo ad una lotta che va condotta anche e soprattutto dentro le forze democratiche, i movimenti progressisti, le organizzazioni sindacali, le istituzioni regionali come le articolazioni varie della società civile. Dunque una mobilitazione di piazza per impedire l’ulteriore spoliazione dei servizi pubblici, i trasporti e l’economia del Meridione, divenuto pattumiera di scorie altrui e deposito di opere inutili e dannose, per liberare il territorio dalle mafie, le massonerie e i potentati, prima foraggiati dai capitalisti del Nord e oggi tutt’uno con questi.
Ben venga questa ribellione. Ben venga questa nuova coscienza, soprattutto da parte dei giovani meridionali che, come i propri padri, nonni e bisnonni, ripongono le proprie speranze nelle valigie che li accompagnano verso il Centro-Nord. Migranti, “terroni viaggianti”, per non fare i disoccupati in loco, oppure la manodopera delle cosche. Questa rabbia è sana e vitale e può essere incanalata in un movimento ampio che, dopo aver toccato paesi mediterranei come Tunisia, Egitto, Libia ora può vedere protagonisti i “nordisti” del Bacino del Mediterraneo, con meno problemi di povertà e malessere sociale ma pur sempre i fratelli poveri dei lombardi, veneti e tedeschi.
Per questo parlare di meridionalismo sventolando il tricolore è sempre positivo purchè non si riduca né a teoria filosofica e né ad invito alla pura ribellione come se il tempo si fosse fermato. Del resto, lo ha scritto il prof. Piperno, noi possiamo ripartire da un’esperienza importante per tutto il Sud che è la lotta di Scanzano Jonico contro il deposito di scorie nucleari. Quella fu lotta di popolo con un’idea chiara perché in difesa di un bene collettivo. Facciamo tesoro di quella esperienza per risvegliare il protagonismo sociale e civile del popolo del Sud e approfittiamo della giornata di festa nazionale per spiegarlo. A proposito, bisogna dare atto al Presidente De Filippo di aver fatto cenno alla questione meridionale nella sua relazione. Solo che avrei preferito qualche pagina di storia e di filosofia in meno e qualche proposta politica in più per far sentire il fiato addosso al governo di centrodestra.
Giacomo Nardiello Pdci-FdS

Malaunità d’Italia enorme il divario. Il Blog del Direttore di Carlo Alberto Tregua. Colpisce l’informazione complice del sistema di potere che vuole accreditare la ricorrenza odierna come un fatto positivo per il Paese. Un’informazione complice della storia falsa, fatta scrivere da Cavour prima ancora che accadessero gli avvenimenti, tanto che egli incaricò il famoso Alexandre Dumas padre, autore dei celebri romanzi storici “Il conte di Montecristo” e la trilogia dei moschettieri formata da “I tre moschettieri”, “Vent'anni dopo” e da “Il visconte di Bragelonne”, di seguire le gesta del cosiddetto eroe dei due mondi, alias Giuseppe  Garibaldi.
Per chi non lo sapesse, si dice romanzo storico quello che punta su alcuni fatti veri, per costruirci sopra una trama destituita di fondamento, ma che serva agli interessi di qualcuno: nel caso, agli interessi di Cavour.
Da piccolo, mi ricordo l’enfasi che gli insegnanti di storia ponevano sulle vicende del Risorgimento, cui credevo. Da adulto, quando ho ricominciato a leggere la storia basandomi su fonti vere (biblioteche e archivi) ho capito che hanno ingannato la mia ingenua giovinezza. Una colpa gravissima la cui responsabilità ricade, nel dopoguerra, in tanti governi ascari  delle corporazioni che hanno vissuto parassitariamente sul Sud.

Perchè si è trattato più di un romanzo storico che di storia vera? Perchè in quel romanzo si è descritto un Nord che portava al Sud civiltà, ricchezza, giustizia ed equità. Tutto il contrario: perchè il Sud era più ricco del Nord, la civiltà era più estesa, c’erano i latifondisti, ma nel Nord le aristocrazie accentravano più ricchezze. A Sud c’erano più chilometri di strade che al Nord. Napoli era fra i porti più importanti d’Europa. La moneta borbonica era considerata il dollaro dell’epoca. I titoli di Stato borbonici, alla Borsa di Parigi, valevano un quinto in più del valore nominale, i titoli del Regno sabaudo, nella stessa Borsa, valevano il venti per cento di meno.
La prima linea ferroviaria d’Italia fu costruita a Napoli (la Napoli - Portici) inaugurata il 3 ottobre 1839. In Padania, nel 1860, per sottoalimentazione, si soffriva di cretinismo e pellagra. L’industria partenopea era fiorente, mentre il Friuli era poverissimo. Francesco Saverio Nitti, da documenti locali, rilevò che l’oro di Napoli ammontava a 443 milioni di lire-oro pari a 270 miliardi di euro, spariti nel nulla, mentre in tutta Italia vi erano solo altri 220 milioni di lire-oro.

L’inchiesta Sonnino e Franchetti, il primo presidente del Consiglio, il secondo senatore del Regno, quindici anni dopo la Malaunità (1876) sosteneva: le piaghe sono incancrenite e minacciano di ammorbare l’Italia.
Sì, perchè i piemontesi continuarono a sottrarre le risorse del Sud. A Mongiana (Calabria), cita Pino Aprile nel libro Terroni, c’era la Ruhr italiana con un’industria pesante che fu costretta alla chiusura perchè le sottrassero commesse. Gaetano Salvemini, che era di Molfetta (Puglia), sosteneva che una vera Unità dovesse fondarsi su un principio: le stesse cose, uguali per tutti.
Oggi invece possiamo constatare che il tasso infrastrutturale del Sud è all’incirca la metà di quello del Nord. Il lombardo Pasquale Saraceno insistette su questo punto: per riequilibrare un Paese duale serve una politica duale nel senso che va investito di più dove c’è di meno.
Quelli che furono definiti briganti in effetti erano dei patrioti che scelsero fra il vivere in ginocchio o morire in piedi. E furono trucidati in massa. Altro che Auschwitz. 

La colpa di quanto brevemente descriviamo è in massima parte addebitabile alla classe dirigente politica, amministrativa e imprenditoriale del Sud, la quale non ha puntato i piedi quando in questi 64 anni di Repubblica vedeva calpestati i diritti dei meridionali, purchè non fossero toccati i propri interessi privati.
Perchè noi non festeggiamo? Perchè abbiamo riletto la storia come vorremmo che avessero fatto i venti milioni di meridionali e perchè constatiamo, senza possibilità di contraddizione, che lo stato in cui si trova tutto il Mezzogiorno, secondo i principali parametri sociali ed economici, è ben lontano da quello del Nord.
Lì, la Lega ha avuto un ruolo notevole in questi suoi venticinque anni di esistenza, mentre al Sud nessuno è stato capace di inventarsi un movimento eguale e contrario, salvo alcuni balbettii e tentativi che non hanno sortito alcun effetto, almeno fino ad oggi. Ricordiamo che alcuni governi democristiani hanno avuto sei-sette ministri siciliani, ma la Sicilia ha continuato ad essere disamministrata. No, non c’è nulla da festeggiare. Noi siamo al nostro tavolo di lavoro per informare i cittadini sui fatti veri e non sulle menzogne, come è nostro dovere.

Unità: I lati oscuri non sono più tabù. 25 febbraio 2011 - 16:29. (Preside della facoltà di Scienze Politiche, università di Catania). L’ultimo libro di Giordano Bruno Guerri offre l’opportunità di rivisitare con misura le pagine più buie e discusse del processo di unificazionenazionale.
Nei primi dieci anni dopo l’Unità, dal plebiscito del 1860 alla presa di Roma nel 1870, il nuovo Regno d’Italia fu costretto ad impegnare nel Mezzogiorno una forza militare d’occupazione fino a 100.000 soldati, pari a circa la metà degli effettivi dell’esercito nazionale.
Questa imponente macchina bellica fu ufficialmente impiegata nella cosiddetta ‘lotta al brigantaggio’, in realtà servì a reprimere una ben più vasta e drammatica insurrezione delle masse popolari, coinvolse 1400 paesi e villaggi rurali e costò un numero impressionante di vittime: almeno 20.000 secondo le stime prudenziali di Franco Molfese, non meno di 80.000 secondo le tesi della storiografia filo borbonica (de’ Sivo, Alianello, Di Fiore), intorno ai 50.000 in base ai calcoli più recenti (Martucci, Pedio).
Un numero di morti superiore alla somma di tutti i caduti nelle battaglie risorgimentali dal 1820 al 1870, come pure al numero degli uccisi durante la guerra partigiana del 1943-45, a cui bisogna aggiungere oltre 50.000 prigionieri catturati nella caccia ai banditi e ai renitenti alla leva obbligatoria, migliaia di processi, decine di paesi incendiati e rasi al suolo (famosi gli eccidi di Casalduni e Pontelandolfo in provincia di Benevento).
Come sottolinea Giordano Bruno Guerri nel suo recente volume Il sangue del Sud. Antistoria del Risorgimento e del Brigantaggio (Le Scie, Mondadori 2010), la ricorrenza dei 150 anni dell’Unità non può limitarsi alle retoriche celebrazioni o alle stereotipate ‘gallerie patriottiche’, ma deve ripensare criticamente anche gli aspetti meno eroici e quasi sempre censurati di una vera e propria guerra civile che nel Sud scandì la difficile connessione politico-territoriale dello Stato.
La storiografia ha occultato per troppo tempo le reali dimensioni e le motivazioni sociali delle ‘insorgenze’ meridionali, assumendo più o meno consapevolmente lo stesso atteggiamento ‘riduzionista’ della Destra storica: non si poteva ammettere dopo il 1861 che in una parte del Paese il popolo ‘liberato’ si opponesse proprio ai ‘liberatori’ e che dopo l’unificazione si fosse scatenata una guerra tra italiani.
E poiché l’Europa liberale e democratica non avrebbe giudicato positivamente questo parziale fallimento (dopo i generosi aiuti in armi e denari concessi alla spedizione dei Mille), sin dalla “Inchiesta parlamentare Massari” si cercò di stigmatizzare le impreviste reazioni antiunitarie come episodi di endemica criminalità, il brigantaggio appunto, da reprimere senza tanti riguardi con la coercizione militare e con gli stati d’assedio (legge Pica del 1863).
In realtà, come dimostra la puntigliosa ricerca di Giordano Bruno Guerri, ad alimentare le rivolte esplose in Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata e Calabria (ma non si dimentichino i fatti di Bronte e le tragiche giornate del ‘sette e mezzo’ di Palermo nel 1866) non furono soltanto gruppi marginali di ‘fuorbanditi’ e disertori foraggiati dalla riscossa legittimista borbonica e pontificia, bensì un universo socialmente composito in cui confluirono contadini delusi dalla mancata divisione delle terre demaniali, funzionari ed impiegati borbonici licenziati dai nuovi amministratori, soldati smobilitati e renitenti alla leva obbligatoria, artigiani tartassati dal fisco e dall’usura, perfino liberali e democratici che non si riconoscevano in un ordine sociale troppo simile al vecchio, contro il quale sentivano di avere inutilmente combattuto.
Lo stesso quartogenito dello ‘Eroe dei Due Mondi’, Ricciotti (come ha testimoniato Anita Garibaldi in una recente puntata di Porta a Porta), si unì ad una banda attiva in provincia di Catanzaro, capeggiata dall’ex-ufficiale garibaldino Raffaele Piccoli. Solo l’autorevole intervento paterno lo avrebbe salvato in extremis dagli inevitabili guai giudiziari.
A lungo delegittimato come jacquerie disperata di bifolchi e cafoni al soldo della reazione, il cosiddetto ‘brigantaggio’ meridionale assume oggi la più corposa fisionomia di un ampio movimento di resistenza sociale al modello autoritario ed iper centralista degli epigoni di Cavour, incapaci di cogliere le profonde disuguaglianze e differenze culturali della Penisola e di trovare un’alternativa al rigido e dottrinario liberismo che condannò al sottosviluppo l’economia del Mezzogiorno.
Le storie multiple ed intriganti di centinaia di bande ‘insorgenti’, che per anni contesero allo Stato il ‘monopolio della forza’ in vasti territori del Sud, mettono a fuoco personaggi dotati di carisma personale e di non comuni abilità militari, come Luigi Alonzi detto Chiavone, il brigante che imitava in tutto Garibaldi e voleva marciare su Torino (ucciso dagli stessi generali borbonici), o come Carmine Crocco, mitico Robin Hood meridionale a capo di 3.000 uomini che derubavano i ricchi galantuomini per comprare armenti e attrezzi di lavoro per i contadini (come racconta egli stesso nelle sue Memorie).
Nelle dense pagine di Giordano Bruno Guerri sfilano anche le fascinose biografie di tante ‘brigantesse’, donne disposte a tutto per amore e per ribellione, come Olimpia Cocco compagna di Chiavone prima e di Crocco dopo, Maria Capitanio (amante coraggiosa del bandito Agostino Luongo), la bellissima Michelina De Cesare (a fianco del capobanda Francesco Guerra) e tante altre antesignane di un femminismo istintivo e rabbioso che dilata la presenza di ‘genere’ nel Risorgimento ben oltre i logori medaglioni romantici di Anita Garibaldi o della contessa di Castiglione.
Queste inedite vicende non mettono certo in discussione il valore fondante dell’Unità nazionale, ma ci aiutano a comprendere la complessità di quel processo ed anche gli errori e le strategie sbagliate di chi volle unificare le ‘cento Italie’ delle autonomie con la camicia di Nesso della conquista e dell’occupazione militare. “Tutti son buoni a governare con lo stato d’assedio – scrisse Cavour poco prima di morire – ma io governerò i meridionali con la libertà e mostrerò come quelle province possono presto diventare le più ricche d’Italia”.
Un monito rimasto inascoltato, con le conseguenze che scontiamo ancora oggi. “Un battesimo diverso – afferma Giordano Bruno Guerri – avrebbe fatto crescere meglio l’Italia che, dopo un secolo e mezzo, continua a portarsi dietro i malanni della sua infanzia”.
Articolo stampato da: Il Sud: mensile di economia, politica e cultura | il mezzogiorno al centro - http://www.sudmagazine.it

Intervista a Garibaldi. di Antonella Folgheretti 17 marzo 2011 -
Giungo a Caprera che è quasi buio. Fra un po’ albeggerà, ma è ancora notte. Ho ascoltato per tutto il viaggio canzoni che parlano di rivoluzioni. In molte si parla di lui, che vive in questa isoletta sperduta, a poche miglia dalla Sardegna e dalla Corsica.
Il suo è un esilio. Un castigo, aggiungo sommessamente. I piemontesi l’hanno sfruttato per le loro mire espansionistiche. Ha regalato loro l’Italia unita, che non voleva esserlo. Poi l’hanno dimenticato sull’isola delle capre. Fa il contadino. La sua è ormai una figura romantica, un po’ sbiadita. Ha abdicato da sè a quello che è stato.
Eppure tanto tempo fa solo il nome faceva paura. Oggi, che si festeggia l’unità di quell’Italia, giunta al suo 150° anniversario, la figura di Giuseppe Garibaldi, che mi viene incontro reggendosi sul suo bastone, è avvolta dal mantello scosso dal vento. Così come l’Italia.
Generale, buon giorno…
Benvenuta. Entri pure in casa mia.
L’intervista comincia. Il generale ha ceduto, dopo molte insistenze, ed ha accettato di rispondere ad alcune domande in occasione dell’importante anniversario che oggi festeggiamo.
Una domanda, a bruciapelo. Generale, rifarebbe l’impresa coi suoi Mille?
Beh, a distanza di tanti anni… Forse, pensandoci bene, valutando gli scandali, le mazzette, i morti ammazzati in nome di un re che non parlava neanche bene l’italiano…Eravamo 1090, a noi si unirono in decine di migliaia. Pieni di speranze e di progetti per il futuro, guardavano a una patria che doveva trasformarli da servi della gleba a liberi cittadini, e invece… Guardi, a distanza di anni, io sento in qualche modo di averli ingannati. Non posso poi pensare a Bronte…Un errore, anzi: un orrore. Ho cercato di espiare, ho lasciato cariche ed onori. Ma non basta…
Ma voi, Generale, non avete ordinato il massacro…
E’ vero, ma ne fui colpevole conoscitore, forse ispiratore. In ogni caso, ho tradito sicuramente quelli che volevano cambiare l’ordine sociale esistente. Tutto cambiò per rimanere uguale…Agli aristocratici si sostituirono i borghesi, ma il Sud pagò un prezzo molto alto. Eppure io ci avevo creduto…Non avrei ceduto a Teano, altrimenti. Il re mi impedì di cacciare Pio IX da Roma, come avrei voluto; io, colpevolmente, accettai…Ebbi timore, ora posso confessarlo. Tutto, in quel momento, era sulle mie spalle. La responsabilità di un fallimento del progetto di un regno unitario, intendo. Se fallivamo…era colpa mia. Fui vigliacco, lo ammetto. Temetti di dover portare un peso che non sentivo di caricarmi. Rinnegai persino l’idea iniziale di una repubblica…e il mio amico Giuseppe Mazzini.
L’Italia, 150 anni dopo, è indipendente ed unita, ma nel suo tessuto sociale e politico sono ancora tante e profonde le lacerazioni…
Basta! Non ebbi coraggio, dopo un passato di grande slancio. Ma dopo il 1861 i Savoia erano diventati troppo potenti, ed io debole. Misi da parte le idee rivoluzionarie, i progetti, lasciai tutto in mano ai politici del tempo: E si sa…i politici vogliono quasi sempre mantenere lo status quo per lavorare silenziosamente e nell’ombra ai loro interessi…Una categoria capace di cambiare il proprio parere, comunque, quando ne ravvede una convenienza. Basti pensare a Cavour, che prima non condivise l’idea di una spedizione nel sud dell’Italia contro i Borbone perchè temeva un rafforzamento dei democratici repubblicani e il disaccordo della Francia e poi, visto il risultato, la utilizzò per ottenere ai Savoia un ruolo guida. Nell’assolutismo, anche se mascherato. Ma il risultato, lo vedete anche voi, è deludente. Parole come onestà, coraggio dei propri ideali, disinteresse sono bandite. L’Italia del 1861 era una monarchia piccina e borghese. Senza grandi ideali. Sì, bisognava ‘fare gli italiani’. Ma non con lo sfruttamento, il cinismo, il malaffare. Un solo momento brilla nella mia memoria. E’ quello del Piave, quando, giunti da duemila chilometri, i ragazzi del sud morirono sul Piave per trasformare la penisola in Paese. E anche per loro, e per quanti morirono per affermare valori quali la libertà, la rettitudine, chiari diritti e doveri per tutti, ecco, per loro non rinnego la mia impresa. Sì, è vero: i Mille crearono altri dominatori, altri sfruttati. Ma crearono anche italiani ed italiane capaci di sacrificarsi per un ideale  comune.

Unità: Gli equivoci della storia. 03 marzo 2011 - 18:38 (Docente di Storia delle Dottrine Politiche Unitelma – La Sapienza)
Interpretazioni forzate e steccati ideologicihanno impedito il formarsi di una coscienza nazionale che sarebbe bene recuperare al più presto.
Sono trascorsi 150 anni da quando, il 17 marzo 1861, in un clima euforico veniva proclamata la nascita del Regno d’Italia, un tempo abbastanza lungo perché venissero sanate le ferite che un fatto epocale di tale natura, normalmente, produce, ma anche per consentire agli italiani di sentirsi parte di un comune destino.
La cronaca di questi ultimi anni ci conferma, invece, che quell’unità spirituale fatta di culture e storie condivise, di consenso manifesto e corrisposto, è ancora tutta da costruire. L’Italia continua ad essere, oggi più di ieri, un Paese che, come scrive Simonetta Fiori, “rinnega se stesso e le proprie fondamenta, percorsa ovunque da umori antiunitari”.
Per dare una spiegazione di tutto questo è opportuna una breve riflessione sui momenti fondativi dello Stato ‘nazionale’ e sul suo sviluppo nel corso del tempo, a cominciare dal fatto che il Risorgimento è stato, a nostro avviso, come ad avviso della storiografia più aggiornata, un movimento di una élite di intellettuali che ha creduto in un sogno: costruire una casa comune per gli italiani dalle Alpi alla Sicilia.
“Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani”. La celebre frase di Massimo d’Azeglio sintetizza la necessità di costruire un progetto unitario, di far sentire un popolo, o i diversi popoli, che era stato sostanzialmente assente di fronte a quanto avveniva, partecipe del progetto.
In poche parole, occorreva nazionalizzare le masse superando gli ostacoli di natura culturale, che nonostante la retorica negazionista, tuttavia, esistevano, ma anche di natura socioeconomica, offrendo l’immagine di un organismo efficiente, in grado di affrontare i problemi della crescita e dello sviluppo, della democrazia e della giustizia sociale. Dare dunque una motivazione forte alle masse.
La risposta alla sfida della nazionalizzazione è stata, invece, di tutt’altro segno. Le élite risorgimentali hanno dato spazio a rovinose tentazioni esterne, imponendo al giovane Stato uno sforzo finanziario che, date le condizioni economiche complessive, era difficile da sostenere.
Inoltre, per le masse vennero costruiti opportuni miti fondativi, a cominciare dalla idealizzazione di uomini ed eventi, primo fra tutti quello popolare garibaldino, che avrebbero dovuto essere il riferimento certo per l’intera comunità nazionale.
A fronte di tutto questo le grandi questioni che si presentavano al giovane Stato – quella agraria, quella del superamento dei dislivelli di sviluppo territoriale (la retorica di un Sud progredito e scippato delle sue risorse a favore di un famelico Nord è tema ancora aperto) ed ancora quella della democrazia sociale e della partecipazione, venivano, dunque, accantonate a favore di un imperialismo dell’ultima ora che, soprattutto, Francesco Crispi, convertitosi dall’azionismo repubblicano al conservatorismo monarchico, offriva alla nazione.
Proprio tali indirizzi hanno fatto crescere, da un lato, l’idea di un Risorgimento come conquista regia o come ‘rivoluzione mancata’ secondo la lettura che ne ha fatto Antonio Gramsci, dall’altro, di un Risorgimento ‘di parte’ fortemente intriso di cultura laicista che intendeva soffocare, attraverso la forte politica anticlericale, la radicata cultura cattolica presente nella penisola.
Visioni che perdurarono e si consolidarono nel tempo e che, soprattutto la prima, neppure il fallimento delle politiche imperialiste e l’avvento di Giovanni Giolitti con il suo sforzo di realizzare un’alleanza fra la borghesia liberale ed il socialismo riformista, riuscirono a superare.
Peraltro, proprio la politica giolittiana, che produsse un’eccezionale spinta positiva verso la modernizzazione del Paese – ma a cui si deve la responsabilità maggiore dell’abbandono del Sud – ebbe l’effetto inaspettato del congiungimento sinistro fra frazioni dell’oligarchia capitalista ed elementi fuoriusciti dall’anarco-sindacalismo e dal socialismo rivoluzionario, che è poi stato il brodo di coltura del fascismo.
Un fascismo che si appropriò dei miti risorgimentali e del concetto di nazione equivocandolo con quello di un nazionalismo aggressivo. Proprio questo equivocare, per gli italiani si è rivelato esiziale per lo stesso concetto di nazione.
Alimentato da una sinistra internazionalista e terzomondista, guardato con sufficienza dalla cultura cattolica, abbandonato dalla cultura liberale come reperto archeologico di un’era superata, il concetto di nazione in Italia è, infatti, entrato in crisi nel secondo dopoguerra.
La sua mancanza ha lasciato spazio ad un popolo smarrito che “rinnega se stesso e i propri padri fondatori”.
Quest’assenza è stata avvertita anche da coloro che si sono caricati il gravoso impegno della ricostruzione per cui la Resistenza e la ricostruzione democratica vollero essere e presentarsi come la riaffermazione di un’identità nazionale smarrita.
Fu, soprattutto, De Gasperi che tentò di surrogarne la mancanza assegnando alla sua formazione politica, la Democrazia cristiana, la missione di partito nazionale o della nazione. Una missione che, tuttavia, solo in parte è riuscita per antiche e radicate pregiudiziali, che evidenziano, come afferma Simonetta Fiore nell’intervista allo storico Emilio Gentile ”la presenza di una comunità rissosa, incapace di accordarsi su cos’è l’Italia e su cosa sono gli Italiani”.
La conclusione dell’esperienza politica della Dc e del sistema dei partiti della cosiddetta prima Repubblica, accoppiata alla crisi economica e al fenomeno della globalizzazione, ha messo a nudo i problemi irrisolti e fatto esplodere gli egoismi locali. Non solo, dunque, è emerso, prepotente, il rifiuto di riconoscersi nei simboli unitari, ma anche la voglia di riprendersi quello che si è creduto scippato dalle politiche nazionali.
L’emergere e l’affermarsi di movimenti come la Lega Nord, il cui obiettivo ultimo continua ad essere la secessione, o come i movimenti sicilianisti o meridionalisti, portatori di un rivendicazionismo piagnone sono l’espressione di questa condizione precaria dove il problema irrisolto resta quello di una coscienza nazionale ‘incompiuta’.
È inimmaginabile, ad esempio, riproporre la ‘questione meridionale’ senza che vi sia una forte coesione nazionale in grado di fare della stessa il problema dell’Italia. Stesso ragionamento vale specularmente per il Nord.
Insomma, non dimenticando il monito di Giustino Fortunato che considerava l’unità “pur sempre quanto di meglio abbia avuto l’Italia da Roma imperiale in poi”, proprio in occasione delle contestate celebrazioni di questo importante anniversario, è il caso che si facesse una salutare opera di informazione per spiegare perché dobbiamo essere nazione e una volta, e per tutte, decidersi a superare storici steccati, lavorando a ricostruire la nostra unità nazionale per potere essere in grado di vincere le sfide che il mondo globale, volenti o nolenti, ci pone davanti.
Rendendo, nel contempo, presenti i pericoli dei quali Gian Enrico Rusconi, già qualche anno fa, ci ha avvertito con il suo provocatorio e fortunato volume, Se cessassimo di essere nazione.
Articolo stampato da: Il Sud: mensile di economia, politica e cultura | il mezzogiorno al centro - http://www.sudmagazine.it

Napoli. Turismo, giornalisti inglesi a Napoli «Città bella, ma la monnezza?»
NAPOLI. Spazzatura, sempre e solo spazzatura. Questa è la sola e principale preoccupazione, ancora oggi, degli operatori turistici stranieri. A dimostrarlo, l’unica domanda posta da un gruppo di giornalisti inglesi, occupati in riviste e siti turistici, che fino a domenica sono in città per un educational tour promosso dalla Camera di Commercio e dalla Confcommercio partenopea. A tentare di rassicurare chi avrà il compito di promuovere l’immagine del capoluogo campano e delle zone circostanti, il vicepresidente di Federalberghi Campania e rappresentante dell’ente camerale, Pasquale Gentile, che ha spiegato loro come «la fase emergenziale sia alle spalle e che il Governo ha messo in piedi un piano globale di raccolta per cui, ci si augura, non si debba più ricadere in quella situazione drammatica». Il tour porterà i giornalisti stranieri in giro per la città, a Capri e in alcune località della Penisola Sorrentina, da sempre meta prediletta degli inglesi. Novità dell’iniziativa, la tempestività con cui i giornalisti britannici comunicheranno quanto vedono. I rappresentanti della stampa inglese, infatti, lavorando principalmente per siti turistici, aggiorneranno in tempo reale le proprie pagine web descrivendo quanto vedono e raccontando le sensazioni che luoghi, odori e persone trasmettono loro. Far conoscere Napoli: questo l’obiettivo del progetto della Camera di Commercio e della Confcommercio considerando che, come riferito da alcuni giornalisti inglesi, in Inghilterra si conoscono prevalentemente località vicine, su tutte, Capri e la Penisola Sorrentina e non tanto il capoluogo partenopeo. La città, infatti, è considerata un punto di passaggio e non tanto una meta degna di un lungo soggiorno. «Rilancio e riscatto dell’immagine di Napoli per far ripartire il turismo». È l’appello rivolto ai candidati alla carica di sindaco dalla Federalberghi Napoli la quale chiede una maggiore attenzione alle esigenze del mondo del turismo, «che potrebbe e dovrebbe essere una delle principali fonti di ricchezza per il territorio». «Chiunque sarà eletto sindaco - afferma Salvatore Naldi, presidente dell’ associazione - dovrà affrontare il tema del turismo come una priorità assoluta. È uno degli elementi fondamentali del Pil regionale e deve essere trattato come tale».

Il boom dell’export siciliano. Armao: “Non è solo petrolio”
L’assessore regionale all’Economia fornisce la propria lettura degli ultimi dati Istat. Ripresa la vendita di prodotti agricoli, farmaceutici e derivati del legno. PALERMO - “I dati pubblicati dall’Istat sulle esportazioni delle merci prodotte in Sicilia confermano la tendenza di crescita della penetrazione nei mercati esteri delle imprese siciliane (+47,6%). Un dato significativo in termini quantitativi e qualitativi perché pone la Sicilia tra le prime regioni italiane in termini di percentuale di incremento, che conferma i primi fermenti della ripresa economica siciliana. Una crescita che si esprime nell’aumento significativo delle esportazioni in alcuni settori produttivi innovativi, diversi da quelli tradizionali”. Così ha commentato l’assessore regionale per l’Economia, Gaetano Armao, i dati sull’export che sono stati analizzati in uno studio dell’assessorato.

Lo studio ha rilevato una ripresa nel 2010, rispetto all’anno precedente, delle esportazioni dei prodotti agricoli (+56,2%), di quelli alimentari (+27,9%), di quelli farmaceutici (+71 %), dei chimici (+66,6%), delle attività televisive cinematografiche (+242,5%). è stato registrato anche un trend positivo dei prodotti più tradizionali, come quelli provenienti da cave e miniere,(nel settore lapideo), dei derivati del legno (+114,1%) e dei prodotti petroliferi (+49,9%).

“Non è quindi vero - ha aggiunto - quello che affermano alcuni giornali economici, che la particolare performance della Sicilia sia dovuta all’incremento delle esportazioni petrolifere. Siamo, invece, di fronte a dati che, raffrontati con quelli degli anni precedenti, evidenziano - ha spiegato Armao - la capacità di alcuni settori strategici dell’Isola a confrontarsi con mercati esteri e nuovi, dove siamo in grado di offrire prodotti di qualità e competitivi”.

“Il governo regionale - ha concluso l’assessore - si impegna a sostenere la rinnovata capacità delle imprese siciliane di affermarsi sui mercati esteri con ogni mezzo, soprattutto, con gli strumenti di incentivazione economica inseriti nel Ddl della finanziaria regionale”.

Catania - Immobili comunali invenduti dopo il flop, si pensa ai saldi
di Antonio Borzì
Il bando pubblicato lo scorso ottobre si è chiuso con un fallimento. Si pensa a nuove strategie. L’amministrazione valuta la possibilità di ridurre del 10 % la base d’asta. CATANIA - Il bando di vendita degli immobili comunali indetto lo scorso ottobre si è concluso, come molti ricorderanno, con un fallimento clamoroso. La crisi del mercato immobiliare indicò a molti imprenditori catanesi la strada della prudenza: con la totale assenza di offerte anche per i pezzi grossi inseriti nella lista come Palazzo Bernini e l’ex sede dell’Avvocatura comunale di piazza Verga. Cifre importanti, quelle che il Comune pensava di recuperare dalla vendita degli edifici in questione, ma che non vennero mai introitate dalle casse dell’Ente e che si pensavano ufficialmente perdute.

A distanza di mesi si torna a parlare di quest’affare mancato con una proposta di abbassamento della base d’asta del 10% che sarebbe al vaglio dell’amministrazione. Una possibilità resa praticabile dalla valutazione dell’Agenzia del territorio che fissò il prezzo di vendita degli immobili con un range appunto del 10%. In occasione della prima vendita a Palazzo degli Elefanti decisero di puntare su una soluzione intermedia, mentre adesso si prospetta, anche se ancora nulla è deciso, un ribasso per stimolare possibili acquirenti.

A confermare il tutto giungono anche le dichiarazioni dell’assessore comunale al Bilancio, Roberto Bonaccorsi: “Quella di cui si parla in questi giorni – ha detto – è un’opzione che stiamo attentamente valutando e che ci è concessa dall’Agenzia del territorio, che ha fissato dei paletti precisi per la vendita. È chiaro che si tratterebbe sempre di una base d’asta e che quindi il prezzo potrebbe aumentare”.

Non sembra però esserci fretta di intervenire in tal senso, lasciando spazio invece ad un’attenta riflessione sul da farsi: “Le somme – ha ricordato Bonaccorsi - che dovrebbero essere ricavate dalla vendita saranno impiegate per degli investimenti così come ci impone la legge. In questo senso dunque non abbiamo alcun obbligo che ci impone di correre e stiamo valutando il da farsi”.

Le cifre in ballo sono comunque importanti. Basti ricordare che i prezzi della scorsa asta erano in alcuni casi superiori al milione di euro, con la parte del leone per il complesso di viale Bernini, valutato 7 milioni e 900 mila euro circa.
Ovviamente non sono mancate le polemiche. Se già a ottobre a fronte di una vendita maggiorata del 10% il ritornello era quello della “svendita degli immobili” oggi il quadro non cambia e dai banchi del Pd si chiede la valorizzazione di questi edifici da tempo sul groppone del bilancio catanese. È da ricordare, tra l’altro, come una soluzione non sia affatto rinviabile. Il già citato Palazzo Bernini rappresenta una delle vergogne di Catania (sfruttato ormai soltanto come rifugio per gli sbandati) con il suo abbandono a pochi metri dal salotto buono cittadino e soprattutto con un mutuo da pagare regolarmente. Ora non resta che aspettare nuove notizie dalle sale di Palazzo dei Chierici, sede dell’assessorato al Bilancio, per sapere come e in che modalità verrà indetto questo nuovo bando.

Messina - Un’apertura sulla Zona Falcata, a breve una “cabina di regia” di Francesco Torre
Trovare una sintesi tra le urgenze di Comune, Provincia e Autorità portuale ed Ente porto e Governo. Prove di dialogo da parte del presidente della Regione, Raffaele Lombardo. MESSINA – “Agiremo in unità d’intenti, supereremo i conflitti di competenze, troveremo soluzioni che tengano conto dell’interesse dei messinesi e dei siciliani, cercheremo di coinvolgere il governo nazionale ma in ogni caso faremo tutto ciò che è nei nostri poteri, perché non vogliamo più che il palleggio delle responsabilità diventi un alibi per lasciare le cose come stanno, mantenendo questa porzione di territorio nell’abbandono e nel degrado”. Questa la solenne promessa del presidente della Regione, Raffaele Lombardo, in visita domenica scorsa a Messina, sulla Zona Falcata. Il tentativo di gettare acqua sul fuoco è evidente, e la mano sembra tesa verso un compromesso che possa accontentare tutti. Ma sarà possibile?

Lombardo ha dato appuntamento agli attori della trattativa per domani a Palermo. L’obiettivo è trovare una sintesi tra le urgenze di Comune, Provincia e Autorità portuale da un lato – che premono per una riconversione dell’area in chiave residenziale e turistica – e l’Ente porto e proprio la Regione dall’altro, fautori del Punto franco.

Il calumè della pace offerto da Lombardo a Buzzanca e Ricevuto, però, era stato preceduto da un segnale meno “distensivo”, ovvero l’approvazione in seno al Comitato portuale (otto voti favorevoli, sette astenuti) della mozione per la riattivazione delle procedure regionali propedeutiche allo scioglimento dell’Ente porto. Una richiesta effettuata già altre 1.000 volte almeno, ma che stavolta si arricchisce di contenuti pressoché discutibili. Secondo il Comitato, infatti, “la legge 191 del 1951 istitutiva del Punto franco appare incompatibile con la normativa comunitaria vigente in materia e deve pertanto ritenersi tacitamente abrogata”. Non sanno, i membri del Comitato, che il primo dicembre 2009 il Presidente Napolitano ha firmato un decreto legge proposto dal ministro per la Semplificazione normativa  con il quale si ritiene “indispensabile la permanenza in vigore” proprio della legge 191?

In secondo luogo, sempre i membri del Comitato scrivono che “per quanto riguarda le aree del bacino di carenaggio e della stazione di degassifica, non può essere messo in dubbio che appartenevano e appartengono al demanio marittimo”, quando per ben due volte il Consiglio di giustizia amministrativa “ha sottolineato in modo esplicito la piena e diversa legittimazione alla loro gestione da parte dell’Ente autonomo portuale”.

Ora delle due una. O il Comitato portuale ignora i pronunciamenti del Governo e della Magistratura (stiamo parlando di due dei tre poteri dello Stato) o il suo atteggiamento è deliberatamente eversivo.
Tutte le battaglie sono legittime se condotte entro i limiti della dialettica democratica e nel rispetto delle istituzioni, ma qui ormai questo limite sembra essere stato superato da tempo.

Sicilia/ue: il pil regionale al di sotto della soglia del 75%
Bruxelles - Nel 2008 il prodotto interno lordo (espresso in termini di potere d'aquisto) nella media dell'UE a 27, va dal valore minimo del 28 per cento (registrato nella regione di Severozapaden nel nord della Bulgaria)al 343 per cento del centro di Londra.

La Sicilia si conferma, con Calabria e Campania, agli ultimi posti per ricchezza prodotta in Italia, con un indice del 66 per cento.

I dati elaborati da Eurostat, e appena diffusi, non lasciano dubbi sulla distribuzione della ricchezza nelle 271 regioni europee. Le aree che guidano la classifica del prodotto interno lordo per abitante nel 2008 vedono in testa il centro di Londra (343%), il gran ducato del Lussemburgo (279%), la regione di Bruxelles (216%), Groningen nei Paesi Bassi (198%), Amburgo in Germania (188%) e Praga in Cecoslovacchia (172%).
Quaranta regioni superano il 125 per cento del livello: dieci in Germania, cinque in Olanda, quattro in Austria e in Gran Bretagna, tre in Spagna e Italia, due in Belgio e Finlandia, solo una regione nella Repubblica Ceca, Danimarca, Irlanda, Francia, Slovacchia, Svezia e Lussemburgo.
Le regioni che fanno segnare i dati piu' bassi sono tutte in Bulgaria e Romania. Il record spetta alla regione di Severozapaden nel nord ovest della Bulgaria (28%), seguita dal nord est della Romania (29%). Le regioni di Severen e di Yuzhen, al centro della Bulgaria raggiungono l'indice del 30%. Sessantaquattro regioni hanno indici al dik sotto del 75 per cento. Quindici sono in Polonia, sette nella repubblica Ceca e in Romania, sei in Bulgaria e Romania, quattro in Italia e Portogallo, tre in Grecia, Francia e Slovacchia, due in Gran Bretagna, una in Spagna, Estonia, Lettonia e Lituania.

Le regioni italiane non figurano ne' tra le venti piu' ricche, ne' tra le venti piu' povere. Tutte le regioni del centro nord - tranne l'Umbria ferma al 97 per cento - fanno segnare indici superiori a 100. Si va, dal 106 delle Marche al 137 di Bolzano, seguito dal 143 della Lombardia. Emilia Romagna al 127, Lazio a 123.

Tutti al di sotto di 100 gli indici delle regioni meridionali.
Campania, Sicilia e Calabria fanno segnare il risultato piu' basso, il 66 per cento. La Puglia al 67. Si sta meglio in Abruzzo (85 per cento), in Molise (80 per cento) e in Basilicata (76 per cento).
I dati diffusi da Eurostat hanno una rilevanza che va oltre la pura statistica. La rilevazione dei dati riferiti al 2008 e' infatti quella che nelle prossime settimane influira' sulle scelte della Commissione sulla politica di coesione. Sui criteri cioe' che saranno seguiti nelle politiche di sviluppo e, soprattutto, nella spesa del budget europeo.

La logica seguita fino a questo momento e' stata quella di indirizzare il maggior flusso di risorse comunitarie verso quelle regioni europee meno ricche, utilizzando come "spartiacque" statistico l'indice del 75 per cento della media del prodotto interno lordo Ue.
Secondo questa impostazione, che moltissimi vorrebbero cambiare gia' nel nuovo periodo di programmazione europea, che va dal 2013 al 2020, le uniche regioni italiane ancora nei parametri del cosiddetto "obiettivo convergenza" sarebbero: Campania, Puglia, Calabria e Sicilia.
Nel periodo di programmazione 2007-2013, la Basilicata ha usufruito di un regime agevolato di "phasing-out", in considerazione del fatto che la media del pil regionale sarebbe stata al di sotto del 75 per cento, con un'analisi economica limitata ai 15 stati precedenti all'allargamento.
La Sardegna, fino al 2013 sara' inserita nelle regioni del cosiddetto obiettivo "competitivita' regionale e occupazione", che godono di agevolazioni per la "phasing-in": regioni che sono uscite dall'obiettivo convergenza e si trovano in una fase di primo inserimento tra le regioni piu' ricche.

Sfollati, sale la tensione. E’ protesta
Mercoledì 16 Marzo 2011 13:54 GINOSA - Il tempo che non accenna a migliorare, la lentezza dei lavori di ripristino degli argini del Bradano e nessun segnale sui tempi di rientro nelle case. Sono tutti fattori che tengono in agitazioni i 250 sfollati di Ginosa Marina dove la notte dello scorso 1 marzo si è scatenato il putiferio.

L’alluvione ha costretto i residenti delle contrade Pantano e Marinella a salire sui tetti perché l’acqua ha raggiunto i due metri anche nelle case. Da quel giorno vivono in albergo e a casa di parenti. Non hanno più nulla. Le pareti delle abitazioni restano umide e dentro, i mobili ed i vestiti sono finiti nella discarica ormai resi inutilizzabili dall’acqua. Per tre settimane hanno atteso che soccorsi ed i s t i t u z i o n i agissero, ma i risultati, soprattutto in termini di aiuti economici ancora non arrivano. E’ per questa ragione che si sono riuniti in c o m i t a t o . Uniti dalla rabbia che ormai è subentrata alla paura di quella notte terribile, organizzano la protesta. Sono pronti ad occupare la statale 106 e sabato mattina si riuniranno nel parco comunale per “capire se le risposte alle urgenze sono all’altezza dei bisogni”. A promuovere l’iniziativa è il comitato Unitario dei Cittadini Lucani e Pugliesi “nato - spiega il suo portavoce Gianni Fabbris - per affermare le istanze di chi è stato coinvolto e colpito dall’alluvione”. All’iniziativa sono invitati a partecipare le istituzioni, nonché i parlamentare di Puglia e Basilicata. A loro chiederanno interventi per la sospensione dei pagamenti, delle cartelle e degli atti esecutivi per famiglie e aziende; la certezza delle risorse necessarie al rientro nelle case e la ricostruzione delle opere; la messa in sicurezza del territorio per scongiurare nuove emergenze; un piano di rilancio dell’economia e della tutela ambientale. Intanto anche il consiglio regionale ha approvato ieri un ordine del giorno con il quale impegna il governo regionale ad intervenire con provvedimenti e stanziamenti. Da quei banchi il consigliere Francesco Laddomada suggerisce, inoltre, la convocazione di consigli comunali straordinari. Invito che è già stato accolto dal suo Comune, Crispiano che per il 23, alle 17, registrerà alcune comunicazioni del sindaco Giuseppe Laddomada, fratello del consigliere regionale, in ordine ad iniziative in favore della popolazione ginosina.

Conviene laurearsi? Sì, soprattutto al Sud
di GIANFRANCO VIESTI
Ogni anno, il Rapporto Almalaurea sulla condizione occupazionale dei laureati fornisce informazioni utilissime per interpretare le dinamiche della società e dell’economia italiana. Lo stesso accade anche quest’anno, recentemente presentato. E va ricordato che, al di là delle tendenze d’insieme di cui si dirà qui, dal sito www.almalaurea.it è possibile ricavare molti dati di maggiore dettaglio, riferiti ad esempio a specifici Atenei, o corsi di laurea.

Naturalmente, con il cattivo andamento dell’economia, le notizie sul mercato del lavoro per i giovani qualificati non sono particolarmente buone. Concentriamo l’attenzione sui laureati “specialistici”, cioè su coloro che hanno completato un ciclo di studi cinque anni (laurea triennale più laurea biennale). Per la prima volta abbiamo dati sulla loro situazione, dopo un anno e dopo tre anni dalla fine degli studi. Dopo un anno dalla laurea specialistica soltanto il 55% ha già trovato un lavoro; e il dato è in forte contrazione rispetto al 2007, quando toccava il 63%. Per di più una quota consistente di questo lavoro è precario; solo un laureato specialistico su tre, dopo un anno dalla laurea, ha un lavoro stabile. Almalaurea quest’anno segnala anche un fenomeno preoccupante: quello del lavoro nero. Ben il 7% dei laureati specialistici lavora, ma senza contratto. Non si guadagna molto: la retribuzione media dopo un anno è intorno ai 1100 euro, in sensibile contrazione rispetto agli anni scorsi.

RETRIBUZIONE - Per fortuna la situazione migliora con il passar del tempo. Abbiamo visto quanto sia dura la situazione dopo un anno dalla laurea; a tre anni dalla laurea il quadro migliora, per fortuna. Il 75% lavora, e sale significativamente, fra di essi, la percentuale che ha un lavoro stabile: due su tre non sono più precari. La retribuzione sale a 1300 euro al mese. Vi sono differenze significative a seconda della laurea. Chi trova maggiormente lavoro sono i laureati in medicina, economia, architettura, ingegneria, pedagogia. La situazione più difficile è invece per i laureati in biologia, in chimica (sorprendentemente) e in legge.

Vi sono naturalmente differenze fra Nord e Sud. Il tasso di occupazione dei laureati residenti al Nord è di circa dieci punti maggiore rispetto ai laureati residenti al Sud. Naturalmente il dato sui “residenti al Nord” già comprende tutti i meridionali che si sono spostati per studiare o dopo la fine degli studi in cerca di lavoro. Questa differenza non è si è modificata, né in meglio né in peggio negli ultimi anni. Piuttosto è interessante notare che lo scarto è più forte dopo un anno dalla laurea e tende a ridursi dopo tre anni dalla laurea: al Sud ci vuole più tempo per trovare un lavoro. Vi sono naturalmente forti differenze fra maschi e femmine. Anche qui la differenza nei tassi di occupazione è intorno ai 10 punti; la differenza però è in aumento negli ultimi anni. E i due fenomeni si sommano: le giovani, spesso brillanti, laureate meridionali che vivono al Sud hanno le condizioni più difficili.

Altro elemento interessante è il rapporto fra le scelte universitarie dei figli e le lauree dei loro padri. Vi è spesso una sensibile coincidenza. Questa è relativamente fisiologica per alcuni corsi di studio. E’ relativamente normale che studino ingegneria i figli degli ingegneri, giurisprudenza i figli degli avvocati: questo consente loro una facilità di inserimento molto maggiore sul mercato del lavoro. Ma in Italia questo fenomeno è molto forte, esteso, e coinvolge anche altre tipologie di studi. Non è un elemento positivo della società italiana: tende troppo estesamente a riprodurre nel tempo condizioni familiari e sociali.

COSTI - Ma, allora, vale la pena laurearsi? Vale la pena per le famiglie sopportare i costi degli studi? Per quanto possa sembrare sorprendente dopo tutte le difficoltà che si sono mostrate, la risposta è: assolutamente sì. Si consideri in primo luogo che ben 73 laureati su 100, ancora oggi in Italia provengono da famiglie dove i genitori sono privi di titolo di studio. E’ un investimento fondamentale, dei padri sui figli, e dei ragazzi su sé stessi, per poter aspirare ad una vita migliore. La laurea, infatti, paga. I laureati hanno, nell’arco della loro vita, una probabilità di essere occupati significativamente maggiore (oltre 10 punti) rispetto ai diplomati. La loro retribuzione media è oltre una volta e mezza quella dei diplomati. Occorre insistere. Soprattutto da parte delle nostre famiglie. Soprattutto in questi anni così difficili. Specie per le ragazze, per cui i percorsi di lavoro sono più ardui. Almalaurea ha il grande merito di ricordarci dati alla mano che l’investimento sull’istruzione, specie avanzata, è il principale che una famiglia può fare; resta, pur con tutte le difficoltà di una società bloccata come quella italiana, l’investimento che più può cambiare la vita dei giovani.

La Sardegna punta sulla cattura della Co2 per rivitalizzare le miniere di carbone
La Regione deve ancora ricevere il via libera della Ue per il progetto previsto a Nuraxi Figus (Carbonia-Iglesias). Saranno consegnate oggi al Ministero dello sviluppo economico le schede di fattibilità, predisposte dalla Sotacarbo, relative al progetto di cattura e stoccaggio dell'anidride carbonica nel sottosuolo della miniera di Nuraxi Figus (Carbonia-Iglesias). Lo rende noto la Regione Sardegna, che precisa come il progetto rappresenti “Un vero laboratorio dimostrativo di rilevanza europea che consentirà all'industria nazionale di acquisire una posizione di leadership nella filiera del carbone a ''zero emission', rivitalizzando il mercato del carbone con caratteristiche simili a quello del Sulcis, disponibile in grandi quantità in Asia, America latina, Turchia e altri paesi del mondo”.

''Il sottosegretario Saglia - ha specificato l'assessore sardo all'Industria Oscar Cherchi - riceverà da me e dal Presidente della Sotacarbo, Mario Porcu, tutta la documentazione necessaria da sottoporre alla Commissione europea per dare vita al progetto di cattura e stoccaggio dell'anidride carbonica, che assieme alla realizzazione della centrale elettrica alimentata dal carbone prodotto dalla stessa Carbosulcis, potrebbe rappresentare la svolta per il futuro della miniera. La realizzazione del progetto consentirebbe la creazione di oltre mille posti di lavoro per la fase della costruzione degli impianti e di circa 700 nella fase di esercizio e di ricerca della centrale e del Polo tecnologico, oltre che garantire la continuità occupazionale degli oltre 500 dipendenti della miniera''.

L'assessore Cherchi ha aggiunto di essersi assunto l'onere di farsi carico delle istanze della Carbosulcis-Sotacarbo anche davanti alla Ue: ''Come promesso, abbiamo rispettato i tempi che avevamo indicato. Il gruppo di lavoro incaricato dal Ministero dello sviluppo economico (composto dai direttori generali della Carbosulcis e del mio assessorato, dal presidente della Sotacarbo, dai rappresentanti dell'Autorita' per l'energia, dai direttori generali del Ministero e dallo stesso sottosegretario Saglia) ha svolto un difficile lavoro che però ora dovressere sottoposto alla Commissione europea. L'assessorato dell'Industria seguirà da vicino anche questa fase così da garantire l'impegno della Regione affinchè il via libera all'operazione venga raggiunto, come da programma, entro il 2011''.

Palermo. «Così funzionava il sistema delle mazzette nel fotovoltaico»
Ingrassia, arrestato con il deputato Pd Vitrano, racconta il meccanismo e chiama in causa funzionari regionali
PALERMO - Ecco come funzionava, ecco come si oliava il sistema delle tangenti nel fotovoltaico. A raccontare tutti i retroscena, in un lungo e nuovo interrogatorio, è il «mediatore» Piergiorgio Ingrassia, l'ingegnere arrestato con il deputato regionale siciliano del Pd Gaspare Vitrano, che deve rispondere di concussione. Ingrassia ha risposto per qualche ora alle domande del pm Emanuele Ravaglioli e ha fornito elementi ulteriori sul mercato delle concessioni di nuovi impianti di energia alternativa. Pare che abbia anche parlato del ruolo di alcuni funzionari della Regione «disponibili» a creare artificiosi ostacoli burocratici per indurre gli imprenditori a pagare le mazzette. Sull’interrogatorio, che avrebbe allargato il quadro dell’inchiesta, viene mantenuto il massimo riserbo. Non è stato neppure chiarito se ci sarà un altro interrogatorio e se le risposte di Ingrassia possano preludere a una collaborazione.

IL TARIFFARIO - Secondo i magistrati della Procura di Palermo il «caso Vitrano» non sarebbe isolato ma viene ricondotto a una pratica molto consolidata. L'ingegnere arrestato avrebbe raccontato di un «sistema» di corruzione ma anche del «tariffario» imposto per il rilascio delle licenze per nuovi impianti. Tracce di questi meccanismi sono già entrate nell’inchiesta attraverso le conversazioni, registrate dalla polizia, tra Ingrassia e l’imprenditore taglieggiato. Ingrassia aveva già fatto qualche ammissione durante il primo interrogatorio. La perquisizione nell’ufficio di Vitrano all’Assemblea regionale siciliana aveva anche fatto ritrovare alla polizia documenti su progetti presentati all’assessorato regionale all’energia. Verrebbe così smentita l’affermazione del deputato il quale ha detto di non essersi mai interessato di impianti di fotovoltaico.

LE ACCUSE A VITRANO - Secondo i pm il deputato regionale dei democratici avrebbe intascato una tangente di diecimila euro che, tuttavia, non sarebbe l’unica per agevolare l’iter burocratico di alcuni impianti fotovoltaici. Gli inquirenti sono convinti di avere scoperto un sistema ben strutturato. Più che agevolare le pratiche, il deputato sarebbe stato pagato preventivamente per non ostacolarle. Ingrassia spiegava, infatti, all’imprenditore che lo ha denunciato: «Le assicuro che le fanno finire di lavorare, perchè questo è in grado di fare la politica, questo è in grado di fare con ispettorato del lavoro, questo sono in grado di fare con gli assessorati, questi sono in grado di fare, io le do questo consiglio dopodiché lei è libero di regolarsi come vuole».

Caserta. L'Unità divide, commercianti polemici. Negozi aperti a Caserta? Dal no al sì a metà
Accuse sulla festività dichiarata in ritardo D’Anna (Confcommercio): «Città turistica, giusto lavorare» CASERTA — Persino l’Unità riesce a dividere i casertani. Questa volta si stratta dei commercianti, che si sono trovati in disaccordo sull’opportunità di tenere aperti i negozi nel giorno in cui si celebrano i 150 anni dell’Italia unita. Alla fine si è arrivati, però, a una posizione, univoca: oggi, dunque, le saracinesche dei negozi saranno alzate, almeno per l’intera mattinata. «Inizialmente pensavamo di rimanere chiusi», Dice Mario D’Anna, presidente della sezione provinciale di Ascom-Confcommercio. «Poi ci sono arrivate molte lamentela e richieste da parte di nostri colleghi che ritenevano più giusto lavorare anche in questa giornata. Le motivazioni addotte erano diverse e convincenti. Prima di tutto, c’è stato il ritardo nella proclamazione dell’evento. Festa nazionale sì, festa nazionale no: a lungo il Governo ha dibattuto prima di decidere. Questa titubanza non ha permesso, dunque, ai commercianti di programmare l’attività. Poi la considerazione che saranno certamente molti coloro che arriveranno in città, proprio approfittando della giornata di vacanza. E, in questi tempi di crisi e con la concorrenza spietata dei centri commerciali-sempre-aperti alle porte di Caserta, anche un giorno in più di lavoro fa la differenza», continua D’Anna.

Che aggiunge: «Ciò non significa, ovviamente, che non condividiamo la festa di tutti gli Italiani. Anzi, come tutti ci sentiamo, oggi più che mai, uniti in un comune sentire. Avremmo voluto festeggiare in modo più evidente e partecipe. Nessuno ci ha coinvolto nell'organizzazione delle celebrazioni, nessuno ci ha dato alcun input per programmare qualcosa insieme. Bandiere, coccarde, simboli tricolori avrebbero potuto abbellire i nostri negozi e le nostre strade. Invece, neppure questo è successo. Così, abbiamo perso un'altra opportunità».

Anche la Confesercenti ha scelto la linea dell’apertura. «Ma questa, per noi, non è una novità — sottolinea il presidente della sezione provinciale, Maurizio Pollini — la nostra posizione è, da sempre, quella di lasciare la massima libertà di scelta ai nostri iscritti. Anche in considerazione del fatto che Caserta è, o dovrebbe essere, una città turistica e, in quanto tale, si dovrebbero prevedere deroghe larghe alla chiusura dei negozi». «Però — dice Pollini — per ricordare l’anniversario, abbiamo realizzato dei manifesti celebrativi con i quali proponiamo ai nostri iscritti e ai casertani una riflessione: l’Italia unità è un fatto, acquisito e indiscutibile. Italia una, senza se e senza ma. È da qui che si dovrà ripartire per un altro, necessario Risorgimento».
Lidia Luberto

Demopolis: "Unità d'Italia ancora incompiuta"
17/03/2011. CATANIA - Sia pur senza i significati epici di un tempo, l'Unità d'Italia rappresenta oggi per i siciliani una conquista irrinunciabile. Anche se - come afferma oltre un cittadino su due - in larga parte ancora incompiuta. È uno dei dati più significativi che emerge dall'indagine realizzata da Dmeopolis nel 150° anniversario dell'Unità. Una ricorrenza in chiaroscuro, quella del 17 marzo: attesa tiepidamente, senza troppe emozioni nel Paese.

I siciliani ritengono comunque giusto celebrare il 150° anniversario dell'unificazione nazionale, non solo per rivivere la ragioni più profonde del Risorgimento, ma anche e soprattutto - come afferma il 47% - per riflettere seriamente sulla coesione del Paese e sulle differenze di sviluppo tra Nord e Sud. L'Unità resta un valore condiviso: l'83% dei cittadini, intervistati dall'Istituto Demopolis, lo considera un fatto decisamente positivo per l'Italia.

Differente l'opinione sugli effetti sociali ed economici del processo di unificazione sui diversi contesti regionali, con ampie criticità che attraversano il Paese da Nord a Sud. Colpisce il giudizio fortemente negativo espresso dai cittadini, il 45% dei quali pensa oggi che l'Unità d'Italia sia stata per la Sicilia decisamente penalizzante sotto il profilo economico. Sono in molti ad essere convinti  che l'Unità d'Italia sia stata un bene soprattutto per le regioni del Centro-Nord.

"Emerge chiara la consapevolezza - afferma il direttore dell'Istituto Demopolis Pietro Vento - di un divario di sviluppo che, a differenza di quanto è avvenuto in altri Paesi europei, non è mai stato colmato e si è addirittura progressivamente aggravato. A 150 anni dal 17 marzo 1861, appare diffusa tra i cittadini la convinzione di un'Italia decisamente poco unita sul piano sociale ed economico: troppi, per il 62%, restano gli squilibri tra le diverse aree del Paese".

Dovendo scegliere, in termini di identità, l'appartenenza territoriale preferita, il 40% opta per l'Italia, meno di 1 su 8 sceglie l'Europa; il 48% la Sicilia o la propria città. Più catanesi, palermitani, siciliani che italiani, dunque. Anche dopo 150 anni.

Trend globali. L'economia delle città
Alain Thierstein, economista e urbanista, Politecnico di Monaco di Baviera
14.10.2010   Il mondo sta diventado sempre piu e inesorabilmento urbano. Secondo il rapporto UN-HABITAT "Lo stato delle città nel mondo" per il 2010, entro il 2050 circa due terzi della popolazione mondiale vivrà nelle città. Ma, nonostante la rapida avanzata dell'urbanizzazione, la definizione di "città" non è più la stessa. Oggi, le città non sono più dei luoghi, quanto dei centri di servizi nell'economia globale. L'economista Alain Thierstein ha esaminato le implicazioni che ciò comporta.
Le città sono come i bambini: una diversa dalle altre. Alcune si caratterizzano per le loro attività, principalmente economiche o intellettuali e culturali, come Calcutta nella sua epoca d'oro. Altre per una storia di lotte sociali. I complessi residenziali con accesso sorvegliato e la gentrificazione sono l'espressione più recente di questo tipo di città. Più una città diventa grande, più diventa pressante il problema di come governarla e farla funzionare. Alcune città sono cresciute talmente tanto che le loro aree metropolitane hanno dato vita a una megalopoli, o "città infinita", come la regione cinese di Hong Kong- Shenzhen-Guangzhou.
Le città non sono più isole territoriali
Una conseguenza della globalizzazione è la nuova logica spaziale in cui la struttura di intere società, economie e nazioni è determinata dai flussi di informazione, capitale e potere, indipendentemente dal luogo in cui esse si trovano. In questa società "a rete", le città non scompaiono, ma non sono più definite dalla loro posizione geogra- fica. Al contrario, sono determinate dalla posizione – o nodo – che occupano all'interno di quei flussi. Così Londra, New York, Shanghai, Dubai e Abu Dhabi rappresentano dei nodi principali nel flusso globale di capitali.

Nel tempo, gli schemi dello sviluppo urbano possono diventare così radicati che occorre uno scossone energico perché una città abbandoni i vecchi modi di fare. La persistenza di strutture industriali antiquate, ad esempio, può limitare il talento umano di una città. Tuttavia, come suggerisce il geografo Ron Martin, le città dispongono anche del potenziale per reinventarsi evolvendosi. La capacità di sfruttare con intelligenza risorse, abilità ed esperienze preesistenti può dar vita a nuovi percorsi tecnologici. Questi, a loro volta, possono consentire l'adattamento delle industrie e tecnologie locali a scenari legislativi e mercati in continua evoluzione, che risultano cruciali per far sì che le strutture urbane restino fattibili. Nell'attuale economia della conoscenza a rete globale, la flessibilità è più che mai di fondamentale importanza.

Il mondo è piatto o a picchi?
In quanto macchine generatrici di ricchezza, le città sono punti focali nell'economia globale. Pochi governi locali rinuncerebbero alla propria influenza sulla vita economica, sociale e culturale dei propri cittadini. Ma politici, amministratori pubblici, aziende private, istituzioni e rappresentanti della società civile comprendono bene cosa significhi per una città essere un nodo della rete globale? Le interpretazioni dei trend globali dello sviluppo spaziale sono riconducibili a due diverse prospettive: secondo Thomas Friedman, "il mondo è piatto" e la geografia non ha più nessuna importanza. Al contrario, Richard Florida sostiene che "il mondo è a picchi", in altre parole sempre meno città si contendono il talento che sospinge l'economia mondiale. In un mondo a picchi, le città caratterizzate da picchi diventano importanti perché attraggono le attività globali e migliorano la qualità di vita locale. Proprio questa peculiarità sembra aver dato origine al dibattito: è possibile che i progressi nella tecnologia delle informazioni e delle comunicazioni abbiano ristretto il mondo, ma la fine della geografia e la "morte della distanza" non sono cosa provata.

Perché esistono ancora le concentrazioni geografiche dell'attività economica, cioè le città? Perché in uno "spazio che non favorisce l'assiepamento " persistono "luoghi di concentrazione"? Per rispondere a queste domande, i processi economici vanno visti come connessioni di attività, collegati attraverso flussi fisici e non-fisici all'interno di reti. La crescente importanza delle economie di rete, a sua volta, ha dato origine a nuove idee su spazio, luogo e scala, secondo cui le città e le regioni sono spazi sconfinati, relazionali. Paradossalmente, l'economia della conoscenza rende lo spazio più a picchi per via della sua logica funzionale. Le società dotate di diverse filiali tendono a posizionare le proprie sedi nei luoghi con il miglior accesso a persone altamente qualificate (ad es. Boston o San Diego), altre società concorrenti e mercati di riferimento. Se diversi produttori seguono la stessa logica, il risultato sarà la concentrazione spaziale di funzioni a valore elevato.

Un altro punto del dibattito è la nozione stessa di economia della conoscenza. Il ruolo dei nodi nella gerarchia urbana non è correlato semplicemente alle dimensioni o all'accessibilità, ma alla capacità di mettere insieme il meglio di ogni cosa. Quali sono, allora, i prerequisiti della conoscenza? Secondo l'economista Philip Cooke, le economie della conoscenza non sono caratterizzate dall'applicazione di conoscenze scientifiche specifiche alla produzione, bensì dall'utilizzo di nuova conoscenza per creare altra nuova conoscenza. Analogamente, il sociologo Manuel Castells sostiene che l'effetto della conoscenza sulla conoscenza stessa è un'importante fonte di produttività. A mio parere, un'economia basata sulla conoscenza combina strategicamente abilità e conoscenze altamente specializzate di diverse componenti della catena di valore per rendere possibile l'innovazione e sostenere il vantaggio competitivo.

Due pilastri dell'economia della conoscenza
L'economia della conoscenza si fonda su aziende di servizi avanzati al produttore (advanced producer services, APS) e aziende high-tech. Le aziende attive negli APS offrono servizi specialistici basati sulla conoscenza e informazioni specializzate sui processi ad altri settori di servizi, ad es. a servizi finanziari (Morgan Stanley e HSBC), servizi di consulenza (Bain e McKinsey), servizi ingegneristici (Arup), attrezzature per l'architettura (SOM e Herzog & de Meuron), e servizi logistici (DHL). Dal momento che tutti questi servizi generano, analizzano, scambiano e commerciano informazioni, si tratta di intermediari chiave nell'economia della conoscenza. Il servizio offerto da queste aziende è reso possibile da legami interni fra le sedi che erogano APS in tutto il mondo, nonché da legami molteplici con società e clienti collegati lungo le singole catene di valore. E dal momento che le aziende che offrono APS si stanno espandendo dappertutto, i flussi di informazioni all'interno e fra le aziende svolgono un ruolo cruciale nel collegare le città nell'economia globale.

Il settore high-tech (compresa la produzione è caratterizzato da lavoratori altamente qualificati, molti dei quali sono scienziati e ingegneri, un rapido tasso di crescita, un rapporto spese per ricerca e sviluppo/fatturato elevato e un mercato mondiale per i propri prodotti. La produzione low-tech scomparirà dalle principali città, ad eccezione degli artigiani e dei produttori e fornitori specializzati, che costituiscono l'economia locale. Resteranno locali anche i lavoratori deisettori che non ruotano intorno alla conoscenza e che offrono servizi di supporto ai lavoratori della conoscenza, come vigili del fuoco, polizia, infermieri, insegnanti e custodi. Michael Porter sosteneva che le società e non le nazioni competono sui mercati internazionali. Quindi, le città come fanno a creare e sostenere un vantaggio competitivo? Più di ogni altra istituzione, le reti intra-aziendali di società transnazionali modellano l'economia globale contemporanea. La conoscenza è sempre più multidisciplinare e globale, rendendo così l'innovazione più rischiosa e costosa. Al tempo stesso, i rapidi sviluppi delle tecnologie informatiche hanno contribuito a diffondere le innovazioni. Le strutture delle società transnazionali stanno convergendo verso una configurazione comune, in cui unità sempre più specializzate vengono integrate in una rete di attività che promuove efficienza, ricettività e creatività. Le città sono l'ambiente ideale per queste operazioni, e le città-snodo giocano un ruolo cruciale nelle reti globali della conoscenza, a livello intra-aziendale o extra-aziendale.

La vicinanza è cruciale per la crescita
Perché la geografia in generale e le città (snodo) in particolare sono cruciali per comprendere la creazione di conoscenza? Innanzitutto, perché la conoscenza è di natura fortemente locale. Secondo il geografo Edward Malecki, "dato che la conoscenza non si trova dappertutto, è di particolare importanza sapere dove si trova". Nonostante l'esistenza di "travasi" di conoscenza (scambi di conoscenza fra le persone), rimane la questione di quanta importanza abbia la vicinanza. Qui entra in gioco la differenza fra vicinanza geografica e vicinanza relazionale.

Le piccole distanze geografiche fra individui, organizzazioni o città avvicinano le persone consentendo loro di scambiare delle conoscenze tacite che presuppongono il contatto personale. Quanto maggiore è la distanza fra le persone o le città, meno possibilità esistono che avvenga questo tipo di scambio. La vicinanza relazionale, esemplificata da persone che vivono in luoghi remoti e collaborano in progetti condivisi, è supportata da infrastrutture ricche e diversificate di viaggio e comunicazione globali, anche grazie a treni e voli rapidi e frequenti, reti logistiche sofisticate – treni continentali ad alta velocità e hub aeroportuali intercontinentali – che garantiscono il dinamismo di trasporti e persone, e un facile accesso a diverse strutture per la comunicazione in tempo reale e interattiva. Le aziende che erogano APS e high-tech richiedono un mix di vicinanza geografica e relazionale. Funzioni aziendali differenti, avendo esigenze di ubicazione diverse, sviluppano configurazioni spaziali specifiche. Alcune sono lontane le une dalle altre, altre sono concentrate e co-locate insieme ad altre componenti della catena di valore. Queste ultime si trovano solitamente all'interno della città primaria di regioni caratterizzate da megalopoli "policentriche" (ad esempio, Monaco di Baviera nella grande area di Monaco, che comprende anche Ratisbona e Augusta). Queste regioni, nate da un lungo processo di decentramento da grandi città centrali verso città adiacenti più piccole, costituiscono una delle principali caratteristiche dell'economia della conoscenza. Questi luoghi esistono sia come entità separate, in cui i residenti lavorano in maggioranza sul posto e i lavoratori sono in gran parte residenti, sia come parti di una regione urbana funzionale più ampia connessa mediante densi flussi di persone e informazioni che viaggiano su autostrade, linee ferroviarie ad alta velocità e cavi delle telecomunicazioni.

Città: la prossima generazione
Come sarà effettivamente la città del XXI secolo? Innanzitutto, sarà l'espressione tangibile dell'economia della conoscenza e dei suoi bisogni urbani, in cui i valori forgiati dalla realtà virtuale competono con i valori intrinseci nella realtà materiale. Come tali, le nuove città rifletteranno l'intensa interazione fra modernità e tradizione. Nella maggior parte dei paesi, i trend dell'urbanizzazione e dell'economia della conoscenza sicuramente influenzeranno anche il comportamento dei giovani professionisti, i quali saranno poco motivati a vivere a Inverness, Clermont-Ferrand, Rostock, Gallipoli, Estremadura o altri avamposti. I lavoratori della conoscenza si chiederanno: "quale luogo offre le strutture, l'ambiente e le attività giuste per il tempo libero?".

Le città spesso optano per un'architettura di stile "internazionale". Il rischio è che si creino città-fotocopia, che alle forme urbanistiche tipiche sostituiscono altre forme, invece, monotone. Per adeguarsi alle esigenze dei cittadini e agli scenari concorrenziali e legislativi, le città dovranno fare molto di più che copiare semplicemente l'architettura globale. Dovranno inglobare caratteristiche diverse da quelle offerte dalle altre città per creare un punto vendita unico, indipendentemente dalle dimensioni della città. Seattle e Portland, ad esempio, hanno sviluppato strategie specifiche e distinte per rallentare il traffico nelle aree urbane centrali, compresa una rete di piste ciclabili.

Tre megatrend offrono opportunità alle aziende e alle città disposte a entrare in partnership pubblico-private. I nodi urbani altamente connessi si concentreranno su beni e servizi fortemente imperniati sulla conoscenza da loro ideati, progettati, prodotti e commercializzati. Il risultato sarà una nuova concentrazione spaziale (in contrasto con il trend decennale di sviluppo urbanistico incontrollato e diluizione delle risorse cittadine), ma su più larga scala – regioni costituite da megalopoli policentriche – che in passato. Il secondo megatrend è la ricerca di "beni essenziali", cioè infrastrutture potenti ed efficienti nei settori svago, istruzione, salute, cultura, trasporti e conoscenza. A spazi pubblici tutti uguali le persone preferiranno spazi che, invece, valorizzano al massimo l'eredità e il potenziale locali e favoriscono la socializzazione e l'incontro. Ma soprattutto, vorranno essere parte di qualcosa di significativo.

Infine, dal punto di vista delle risorse, molte aziende saranno pronte, fra l'altro, a organizzare in maniera più efficace la propria rete intra-aziendale in modo che questa sia vicina ai migliori talenti e che i propri talenti siano accessibili quando necessario. Questo processo non può che dare una nuova forma alla gerarchia urbana, e il mondo diventerà più a picchi.

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