mercoledì 1 giugno 2011

Rileggiamo Draghi: crescere, crescere, crescere


di Luca Simoni
Roma, 1 giu (Il Velino)  




Da sempre le Considerazioni finali del governatore di Bankitalia meritano una doppia lettura: all’impronta, per coglierne il senso immediato (che in genere si identifica con il giudizio sul governo), e una seconda più meditata, per capirne le indicazioni a lunga gittata. Tanto più stavolta, in cui Mario Draghi ha parlato sì da numero uno di via Nazionale, ma soprattutto da prossimo presidente della Banca centrale europea. In questa veste il segnale di Draghi è chiarissimo. L’Italia deve crescere, e non può differire ulteriormente le relative azioni concrete, gli atti di governo.

Dato merito all’esecutivo, e quindi anche al ministro dell’Economia, di avere affrontato come doveva la fase acuta dell’emergenza finanziaria, tenendo i conti in ordine meglio di altri paesi europei, il governatore ha dedicato alla crescita un intero capitolo, quello centrale della voce “Economia italiana”, della sua relazione. Da futuro presidente della Bce ha inquadrato il problema non in un contesto interno, ma internazionale e soprattutto europeo. Poteva paragonare la nostra crescita asfittica al boom della Germania, ma ha preferito prendere a riferimento la Francia, “paese europeo a noi simile per popolazione”. In realtà si tratta anche del competitor continentale che ha, come l’Italia, un imponente e spesso invasivo apparato pubblico, uno Stato onnipresente, una classe politica litigiosa come la nostra.

Il raffronto è impietoso e Draghi l’ha volutamente esteso agli ultimi dieci anni, quindi a ben prima della crisi, ed a governi di centrodestra come di sinistra. In questo decennio il Pil francese è aumentato di 12 punti, quattro volte quello dell’Italia. La produttività è cresciuta nove punti più di quella italiana. L’afflusso di investimenti esteri è due volte e mezzo quello registrato da noi. Le retribuzioni reali qui sono rimaste ferme, in Francia sono cresciute del nove per cento. I consumi delle famiglie italiane hanno segnato un più cinque per cento, quelli delle famiglie francesi un più diciotto: oltre il triplo.

Analizzando i motivi del gap, Draghi ha puntato l’indice sulla mostruosa lentezza della giustizia civile, ma anche sul basso livello e sulla scarsa concorrenza in base al merito della nostra istruzione. Si tratta di due temi cari entrambi al centrodestra, mentre incontrano le resistenze corporative della sinistra. Ma soprattutto il governatore ha messo il dito sulla piaga degli investimenti nelle infrastrutture: il regno degli annunci a cui non seguono i fatti. Ha denunciato che il governo intende ridurre dal 2,5 del 2009 all’1,6 del Pil le spese programmate per il 2012. E ha ricordato come ai ritardi governativi si sommino le incertezze sugli appalti, la guerra di competenze tra amministrazioni, i rinvii per questa o quella protesta di fronte alle quali sindaci e governatori fanno i pesci in barile, se non addirittura le assecondano. Tirando le somme, ha ricordato che tra fondi europei non utilizzati e investimenti dello Stato tenuti nel cassetto, ci sono 38 miliardi giacenti che servirebbero come il pane a rimettere in moto un Paese che egli ha definito “insabbiato”. Che si aspetta a tirarli fuori?

Ieri, commentando le elezioni, avevamo scritto testualmente: “Troppo facile bloccare tutti i pagamenti pubblici, tranne gli stipendi e le pensioni, troppo facile azzerare o quasi gli investimenti in infrastrutture e poi vantarsi di avere tenuto i conti dello Stato in sicurezza. Così non si governa uno dei primi otto Paesi al mondo, non si gestisce una strategia di crescita e di ammodernamento del Paese, ma si confonde l’immobilismo con la virtù, la rinuncia con il merito. E questo non è più accettabile”. Modestamente ci fa piacere trovare un riscontro nelle autorevoli parole di Mario Draghi. Un altro riscontro lo troviamo nell’auspicio del governatore ad attuare presto e bene la riduzione delle tasse sulle persone e sulle imprese, “in misura significativa”.

Di fronte a questi argomenti l’obiezione che sentiamo continuamente opporre è il vincolo di finanza pubblica. Non si può, si dice, finanziare la crescita e la riduzione delle tasse attraverso il debito. E’ certamente un problema ben presente anche a Draghi, tanto più ora che si avvia a diventare il presidente della Bce, dove il rigore teutonico è un dogma ereditato dalla Costituzione tedesca e dalla Bundesbank, e dove Draghi dovrà certamente rassicurare Berlino. Eppure il governatore non ha esitato a indicare al governo queste priorità. Offrendo in un certo senso anche la soluzione per ciò che riguarda la copertura delle spese.

Da una parte invocando la fine dei tagli lineari a favore di interventi verticali e mirati sui centri della spesa pubblica, ricetta suggerita a gran voce da molti esperti del centrodestra. Dall’altra indicando che la riduzione delle aliquote può essere coperta con i futuri recuperi di evasione fiscale. Infine con questo passaggio, che secondo noi è un po’ la chiave di tutto: “Una manovra tempestiva, strutturale, credibile agli occhi degli investitori internazionali, orientata a favore della crescita, potrebbe, anche mediante una significativa riduzione dei premi al rischio che gravano sui tassi d’interesse italiani, sostanzialmente limitare gli effetti negativi sul quadro macroeconomico”. Tradotto, significa che assumersi un rischio-debito oggi, per finanziare appunto una manovra di crescita seria, credibile e strutturale, farebbe abbassare il tasso d’interesse richiesto dal mercato per collocare Btp e Bot, finanziando la manovra stessa. Un concetto non molto distante, a guardare bene, da quello espresso giorni fa da Standard & Poor’s. Diversamente, continuando di questo passo, aggiunge Draghi, un rigore esclusivamente fine a se stesso finirebbe per essere controproducente proprio per il nostro debito, in una misura che il futuro presidente della Bce ha quantificato in almeno due punti di Pil, 30 miliardi di euro.

Su questi concetti Draghi è tornato nella cartella finale, quella in cui si abbandonano le cifre un po’ aride e si dà il senso delle cose da fare. Ha detto testualmente: “La crescita economica del nostro paese è stata il mio punto fisso”. E ha paragonato questa sua battaglia alle “Prediche inutili” di Luigi Einaudi. Ha ri-spiegato, per chi non avesse compreso, che il pareggio di bilancio è doveroso ma non è un valore di per sé, se non “elemento di propulsione della crescita economica”. Si è chiesto “Quale paese lasceremo ai nostri figli?”, una domanda che qualunque genitore responsabile ha il dovere di porsi, prima di arrendersi all’idea che l’Italia sia ormai un limone spremuto (“Un paese insabbiato”), e, chi può, decida di mandare i propri ragazzi a studiare e lavorare all’estero. E, ostinatamente, ha concluso: “Tornare alla crescita. Con le stesse parole vorrei chiudere queste considerazioni finali”. Non c’è molto altro da aggiungere, per ora.
(Luca Simoni) 1 giu 2011 12:10


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