sabato 20 agosto 2011

Federali.Mattino_20.8.11. Rosemary Righter: I giorni di gloria del “miracolo” italiano del dopoguerra, quando la crescita saliva fino al 10%, non torneranno più, perché non è più possibile ripetere quegli unici guadagni di produttività ottenuti quando i contadini ai limiti della sussistenza si trasferirono dal Mezzogiorno al nord Italia per lavorare nelle industrie.----Diego Gabutti: possiamo ben dirci fortunati che Aldo Cazzullo c'illumini col suo patriottismo e il suo antifascismo così saldi e sicuri. Viva l'Italia! Viva il Piccolo Scrivano Sabaudo! Viva la resistenza! Viva il partito d'azione! Abbasso i piccioni che lordano il monumento ai Fratelli Bandiera! Viva il racconto del mese del maestro Cazzullo!


L’Italia è venale, ma non è la Grecia
Bagarre sulle garanzie alla Grecia
Aldo Cazzullo ce l'ha a morte con il fascismo scandinavo


L’Italia è venale, ma non è la Grecia
di Rosemary Righter – 25 luglio 2011
Pubblicato in: USA
Traduzione di ItaliaDallEstero.info
[The daily beast]
Lo scrittore Luigi Barzini osservò una volta che l’Italia è stata cronicamente instabile dal 4 Settembre dell’anno 476 d.C., il giorno in cui l’ultimo imperatore romano, Romolo Augusto, fu deposto dal sovrano germanico Odoacro.
Barzini con questo commento cinico, ma astuto, affermava che gli stranieri non dovrebbero allarmarsi troppo per la contorta e corrotta politica italiana o per l’asfissiante burocrazia: secoli di queste pratiche hanno affinato l’istinto di sopravvivenza degli italiani, rendendoli capaci di prosperare con scorciatoie e compromessi.
In questo momento, gli stranieri si stanno innervosendo molto e mettono in dubbio la capacità dell’Italia di finanziare il suo pesante debito publico di 1900 miliardi di Euro, equivalente al 119% del PIL. Di recente il mercato dei bonds improvvisamente ha iniziato a innalzare i costi dei prestiti del Paese a livelli che, se mantenuti, farebbero avverare i timori, poiché ogni punto percentuale extra di interessi aggiunge l’1% del PIL ai costi di interesse del debito italiano. Il cambiamento di umore che ha creato panico è stato provocato dal dannoso confronto tra la tedesca Angela Merkel e la Banca Centrale Europea su come aggiustare l’evidente insolvenza della Grecia senza arrivare a dichiarare la bancarotta. Questa ricerca dell’impossibile potrebbe facilmente convertire un problema relativamente risolvibile in una catastrofe sistemica. L’Italia, con la sua economia da 1700 miliardi di euro, è la terza della zona euro e quindi troppo grande per fallire.
Eppure, secondo tutte le statistiche (tranne tre) su cui si basano i mercati, non è chiaro perché l’Italia, e non la Spagna, debba essere sotto accusa. Per quanto sia enorme, il debito pubblico italiano è soltanto leggermente più alto rispetto a quello degli ultimi 40 anni, e più della sua metà è coperta dai livelli elevati dei risparmi privati. Il Paese al momento è fortunato ad avere Giulio Tremonti, un Ministro delle finanze parsimonioso, che nel 2008 dichiarò tranquillamente che l’Italia non aveva soldi per aumentare la spesa e mantenne caparbiamente il bilancio primario in eccesso. Le banche italiane sono capitalizzate meglio che in Spagna, non c’è una bolla immobiliare, e nonostante le grandi differenze regionali, la disoccupazione totale è dell’8%, contro il 21% della Spagna.
I restanti tre pesanti capi d’accusa contro l’Italia sono: primo, la sua economia è cresciuta pochissimo o per niente negli ultimi 20 anni; secondo, da quando è stato lanciato l’euro 10 anni fa, la sua competitività è precipitata e i costi della manodopera sono aumentati di un mostruoso 31%; e terzo, la popolazione italiana sta invecchiando. Senza crescita, l’Italia non può ridurre il peso del debito pubblico, e senza un aumento della produttività non può crescere.
Eppure, i primi due di questi parametri negativi dovrebbero essere trattati con il maggior scetticismo possibile, come del resto tutte le statistiche riguardanti l’Italia. I giorni di gloria del “miracolo” italiano del dopoguerra, quando la crescita saliva fino al 10%, non torneranno più, perché non è più possibile ripetere quegli unici guadagni di produttività ottenuti quando i contadini ai limiti della sussistenza si trasferirono dal Mezzogiorno al nord Italia per lavorare nelle industrie.
Eppure il Paese non si sente tanto povero quanto i tristi indici di crescita fanno sembrare, e ci sono buoni motivi per questo. Il primo è che gli italiani stanno creando molto più benessere di quanto facciano trasparire alla Guardia di Finanza, l’onnipresente polizia fiscale. La stima ufficiale della dimensione dell’economia nera è del 16%, ma in realtà si pensa che arrivi al 27% a causa di una grande zona grigia di lavoratori in aziende di famiglia di piccole dimensioni, specialmente nel settore dei servizi, che dichiarano solo parte dei propri guadagni. Provate a rinnovare una casa e vedete chi è pronto ad accettare un assegno, anziché contanti, dopo aver eseguito una piccola parte del lavoro. Il secondo motivo è che la produttività è terribile in gran parte del settore pubblico, troppo sviluppato e insufficiente nel settore di mercato altamente protetto dai sindacati, anche a causa dell’assenteismo rampante di lavoratori che è impossibile licenziare. Nonostante l’Italia abbia delle ottime multinazionali, come la Benetton e la Finmeccanica, e degli uomini d’affari in gamba, come Sergio Marchionne, e anche se la sua base industriale è al sesto posto nel mondo per dimensioni, gli esportatori italiani stanno perdendo fette di mercato anche nella fiorente Germania, da sempre il mercato più importante.
In contrasto con tutto questo, se hai bisogno di un elettricista in un’emergenza, non solo arriverà velocemente, ma risolverà il problema in modo molto più rapido e affidabile che in Francia o in Gran Bretagna. L’efficienza privata impressionante (e l’essere pronti a lavorare fino a tardi, avere due lavori se necessario) coesiste con le inefficienze strutturali. Semplicemente, nello strato non sindacalizzato dell’Italia, e soprattutto nell’economia nera, devi essere efficiente per sopravvivere.
Persino nei circuiti economici principali la produttività è meno deprimente che nei 10 anni precedenti. La Banca d’Italia riporta ristrutturazioni sostanziali nelle medie aziende, in combinazione con la volontà di espandersi all’estero. Infine, resta il problema del’invecchiamento (così come lo è la tenacia con cui lavoratori più anziani, specialmente nel settore professionale, bloccano l’avanzamento dei giovani talenti) compensato dall’aumento dell’immigrazione. Gli stranieri costituiscono il 7% della popolazione attuale, un cambiamento enorme rispetto all’1% di solo 20 anni fa, e sebbene gli italiani si lamentino molto dell’invasione straniera, questi hanno fornito la necessaria manodopera nelle aziende agricole del sud, nelle aziende del nord e nel settore dei servizi. Una delle riforme più importanti del governo Berlusconi, inoltre, è stata quelle sulla pensione e l’età pensionabile, adesso adeguate all’aspettativa di vita.
Rimane la politica, da tempo immemore il tallone di Achille dell’Italia. Agli occhi degli stranieri, la politica si traduce in due parole: Silvio Berlusconi. Eppure a dire il vero, l’Italia del dopoguerra ha conosciuto governi anche peggiori di quello che lui guida. Profondamente immerso in scandali finanziari e sessuali, il vecchio e svergognato satiro non solo è un imbarazzo nazionale, ma anche una delusione. Avvicinandosi alla fine del suo terzo mandato, questa volta eletto con una forte maggioranza, il magnate reinventatosi politico ha, colpevolmente, pochi risultati da mostrare, nonostante le sue risonanti promesse di liberare l’Italia dalle catene di uno stato debole e dissoluto. Eppure, la recente approvazione quasi a rotta di collo di una finanziaria di emergenza ha dimostrato che l’Italia è più vicina alla governabilità di quanto lo fosse 17 anni fa.
A quei tempi, la Prima Repubblica del dopoguerra crollò sotto il peso della corruzione istituzionalizzata – stimata al 7% del patrimonio nazionale – messa a nudo con l’inchiesta di tangentopoli, che distrusse durante la sua caduta i partiti dominanti Democrazia Cristiana e Partito Socialista e portò in prigione innumerevoli uomini d’affari e politici. Questa è stata la palude da cui Berlusconi è emerso, indirizzando il disgusto pubblico in un movimento populista di centro-destra che, con tutti i suoi difetti, mise l’Italia sulla strada che dal moto perpetuo delle porte girevoli delle coalizioni, la portò a qualcosa simile al bipartitismo che offriva la scelta agli elettori.
Molti italiani ancora ritengono che sia un scelta tra un mostruoso gruppo di sanguisughe e un altro. “Mostruose” è la parola. Circa 450 mila persone sono nel libro paga della politica, guadagnandosi il pane con uno dei 4 livelli di governo (nazionale, regionale, provinciale e comunale) e vivendo anche molto bene. Le cariche più alte, 640 parlamentari e 315 senatori, guadagnano in media 140 mila euro all’anno, accumulando pensioni per ogni sessione parlamentare in cui servono e godendo di circa 12 milioni di euro di assistenza sanitaria gratuita, dentisti e persino barbieri parlamentari. I benefici non includono solo viaggi in aero e in treno gratis, ma anche l’accesso alla flotta governativa di 30 mila auto con autista – ovviamente dotate di sirena blu accesa per tagliare il traffico – al costo di 2 miliardi di euro all’anno.

Il settore pubblico non è meno gonfiato, con compensi e stipendi che da soli consumano il 14% del PIL, e ciò che gli italiani ottengono in cambio è una scuola secondaria mediocre, università di terza classe, una sanità pubblica da lotteria e una burocrazia assetata di permessi che è stata apparentemente progettata per impedire quello che può e ritardare quello che non può impedire. Le finanze italiane potrebbero essere radicalmente migliorate abolendo l’intero livello di governo provinciale che è quasi inutile.
I compensi nel governo provinciale a Perugia, in Umbria, per esempio, consumano più del 90% del suo budget. “Sanguisughe” è il bestseller dell’estate, un’appassionata denuncia del giornalista Mario Giordano dei privilegi dei politici e dei capi del marcio settore pubblico e dei monopoli di stato. Questo prima che il mercato dei bond forzasse Tremonti ad adottare la finanziaria di emergenza allo scopo di sanare il bilancio entro il 2014, ad alzare le tasse ed introdurre tagli di spesa alle pensioni statali, all’istruzione e alla sanità, evitando accuratamente che i politici condividessero le difficoltà con i cittadini anche di un singolo centesimo. Tutta l’Italia è indignata, dagli spazzini all’elite economica. Emma Marcegaglia, presidente di Confindustria, la federazione degli imprenditori, ha dichiarato acidamente: “Non possiamo avere una gran parte del Paese che fa sacrifici, e una piccola parte che non fa niente”.
L’Italia non è la Grecia. Alcune riforme fondamentali la metterebbero in moto di nuovo. In effetti, il governo ha approvato delle leggi nel 2003 per aprire il mercato del lavoro e incoraggiare le persone ad unirsi all’economia formale senza ricevere domande sul passato, ma è necessario fare di più. È urgente eliminare gli assurdi intralci su semplici transazioni, come ad esempio dover pagare un costoso notaio anche solo per vendere la tua vecchia macchina ad un amico. I viziati cartelli professionali italiani hanno bisogno di uno scossone. Le tasse devono essere più giuste e più semplici. I monopoli di stato devono essere privatizzati ed il sistema giudiziario, i cui ritardi sono la disperazione degli italiani e degli imprenditori stranieri, deve essere riformato. Tutte queste riforme sono state promesse da Berlusconi per la terza volta nel 2008. Proprio come promise la riduzione dei privilegi dalla casta politica, che invece ha sfruttato per proteggere se stesso.

Il defunto, grande, Luigi Barzini, che autoironicamente scherzava sulle sue molteplici pensioni, era troppo compiacente sull’egoismo venale della politica italiana. È una cosa importante. Distrugge quel minimo di rispetto per l’autorità senza il quale nessuno stato moderno può funzionare. Aveva ragione sull’inerzia degli italiani. Eppure, una volta, hanno marciato su Roma.
[Articolo originale "Italy Is Venal, But It’s Not Greece" di Rosemary Righter

Bagarre sulle garanzie alla Grecia
di Vittorio Da Rold
La Finlandia dei 'Veri finnici' fa scuola nella sua richiesta populista di garanzie aggiuntive per partecipare al nuovo piano di aiuti da 109 miliardi di euro a favore di Atene. Una fuga in avanti in solitaria che rischia di mandare a fondo l'intesa (ancora da ratificare nei vari Parlamenti) sul secondo piano di salvataggio faticosamente raggiunto il 21 luglio. Diversi Paesi europei come l'Austria (che ha proposto una versione di compromesso che tenga conto anche della partecipazione delle banche private), e l'Olanda stanno chiedendo alla Grecia accordi simili a quello siglato dalla Finlandia che concede collaterali supplementari sul proprio contributo al piano di salvataggio per Atene.

Le richieste sono state avanzate ufficialmente dopo che la Finlandia (che vanta come l'Austria e l'Olanda, il rating di tripla A) ha chiesto e ottenuto, con un accordo bilaterale, il versamento da parte della Grecia di un deposito in contanti pari a 500 milioni di euro che verrà investito in obbligazioni tripla A in cambio della sua partecipazione al salvataggio.
I due Paesi anch'essi tripla A temono che garanzie inferiori a quelle accordate alla Finlandia possano mettere a rischio il loro rating. Ma alle richieste dei tre si sono subito aggiunti la Slovenia, la Slovacchia e l'Estonia creando un pericoloso effetto domino che potrebbe mandare in tilt la ratifica del secondo piano di salvataggio greco. Gli interessi generati dal deposito in cash, accordati da Atene ai finlandesi in via del tutto particolare, servirebbero a coprire una eventuale insolvenza greca.

L'accordo bilaterale che ha suscitato appunto analoghe richieste da altri Paesi europei ora potrebbe complicare l'approvazione del piano e soprattutto una crescita dei suoi costi. L'Austria ha chiesto che le nazioni con poca esposizione bancaria verso la Grecia abbiamo più garanzie mentre Paesi come la Francia e la Germania, fortemente esposte attraverso le loro banche, non ne abbiano affatto. «I negoziati con la Finlandia significano che tutti noi dovremmo pagare di più per garantire che i finlandesi abbiano i collaterali. La richiesta può spazzar via il piano di aiuti», ha detto senza mezzi termini Maria Fekter, ministro delle Finanze austriaco appartenente ai popolari.
Il premier olandese Mark Rutte ha detto che «l'intesa con la Finlandia può solo complicare la vicenda greca».
Pronta la reazione negativa di Bruxelles. «Noi dovremmo evitare l'introduzione di troppe nuove condizioni, l'eccesso di garanzie», ha sottolineato il portavoce della Commissione a Bruxelles, Amadeu Altafaj che ha subito capito la china pericolosa che sta prendendo la questione.
Anche il ministro greco delle Finanze, Evangelos Venizelos, ha messo le mani avanti segnalando che se qualche Paese dovesse sollevare obiezioni all'intesa bilaterale con Helsinki spetterebbe ai leader della Ue sciogliere il nodo.

Venizelos ha rinviato «alla prima o alla seconda settimana di ottobre» lo sblocco del programma di scambio di obbligazioni previsto dal nuovo piano di salvataggio del paese messo a punto da Bruxelles.
Bisognerà aspettare, ha spiegato, «che i Parlamenti votino, e che le banche e i gruppi assicurativi avviino le loro procedure». Lo scambio dei titoli è previsto dal piano di sostegno di circa 160 miliardi di euro (di cui 50 dei privati), deciso il 21 luglio. L'obiettivo della Grecia, ha precisato il ministro, «è che sia finito tutto il più rapidamente possibile». Come se non bastasse Venizelos non ha escluso una contrazione più severa del Pil nel 2011. Il calo potrebbe essere superiore al 4,5%, contro il -3,8% precedentemente stimato.

Aldo Cazzullo ce l'ha a morte con il fascismo scandinavo
 di Diego Gabutti  
Come a Cip, il poliziotto di Jacovitti alto una spanna e sempre vestito di nero, anche ad Aldo Cazzullo non sfugge mai nulla. Mentre tutti gli altri italiani, beoti, sbadiglianti, bevono té freddo seduti nei dehors dei bar e fischiano alle ragazze di passaggio senza dedicare un solo pensiero al Risorgimento, alla Resistenza e a tutti quei cari padri della patria, da Giuseppe Mazzini a Ferruccio Parri, oggi così trascurati, Cazzullo ha visto e capito cosa sta capitando: capita che tutti gl'italiani (lui escluso) se la prendono col fascismo scandinavo.
Fascismo scandinavo? Dopo la bomba di Oslo e il massacro dell'isola di Utoya, non si è parlato d'altro, almeno secondo Cazzullo, che lo scrive su Sette.
Fascismo di qua, scandinavo di là, e io non me ne sono accorto, niente (e nemmeno conosco qualcuno che se sia accorto). Eppure devo averne parlato anch'io, e così chiunque neghi d'averlo fatto o se ne sia anche soltanto dimenticato, visto che di fascismo scandinavo, tranne Cazzullo, pare abbiano parlato e straparlato tutti. E perché abbiamo parlato tanto di fascismo scandinavo mentre Cazzullo ci guardava con quel suo sguardo accigliato a metà tra il maestro buono ma severo del libro Cuore quando contempla con un sospiro il quaderno a quadretti di Franti e il Puffo con gli occhiali nei suoi momenti peggiori? Abbiamo parlato tanto di fascismo scandinavo (e poi ce ne siamo dimenticati) perché l'oblio è la nostra vocazione nazionale e perché non volevamo ricordare che il fascismo «l'abbiamo inventato noi». Nel senso di noi italiani (be', «noi italiani» tranne uno, naturalmente). Squadrismo, Piero Gobetti, Giovanni Amendola, la seconda guerra mondiale, la persecuzione (e la consegna ai nazisti) dei perfidi giudei italiani, poi le bombe sui treni, gli anni di piombo, le stragi, la destra armata, forse pure la P2, il Festival di Sanremo, il delitto di Cogne, e via così, senza rete, un punto esclamativo dopo l'altro. Tutto rimosso, tutto dimenticato.

Ecco la storia d'Italia secondo Aldo Cazzullo, uno che veglia, grazie al cielo, mentre noi dormiamo. Lui non dice una parola sul fascismo scandinavo (sarebbe del resto una sciocchezza, visto che l'opera d'un serial killer psicopatico col fascismo c'entra evidentemente un pero, qualunque cosa lui racconti al suo psichiatra e alla polizia) mentre noi «abbiamo rimosso la nostra responsabilità storica». Noi neghiamo la storia (il fascismo è scandinavo, mica italiano) e, dopo averla negata, alè, la rinneghiamo (vogliamo dividere l'Italia, non abbiamo esposto il tricolore alla finestra, non ci scappelliamo di fronte al monumento del Re Galantuomo o di Peppino Garibaldi, anzi non abbiamo neppure un cappello). Cazzullo no. Cazzullo riporta coraggiosamente e opportunamente a galla quella parte di storia patria che gl'italiani (Cazzullo sempre escluso, inutile dirlo, ma tutti noi compresi) avevano rimosso. Non fosse per lui, che agita la bandiera dei tre colori, che è sempre stata la più bella, mentre noi non ricordiamo neanche il motivetto (figurarsi le parole) dell'Inno di Mameli e per lo più ci guardiamo intorno rintontoniti, con un filo di bava che ci cola dalla bocca, be', non fosse per Cazzullo, come dice lui stesso, tutti gl'italiani, lui escluso, non saprebbero chi fu la Piccola Vedetta Lombarda e parlerebbero di Mussolini alla maniera di Leo Longanesi, Indro Montanelli e Silvio Berlusconi: come d'un «buonuomo» che mandava i suoi nemici in vacanza nelle isole e detestava Hitler più di quanto lo detestasserro Churchill, De Gaulle, Baffone, Roosevelt messi insieme e moltiplicati per l'intero ghetto di Varsavia.

Con tutti i fascistoni e i nemici dell'Italia unita che ci sono in giro, alcuni consapevoli e altri no, in stragrande maggioranza vittime d'una pessima educazione civica e tutti gli altri cattivi educatori, possiamo ben dirci fortunati che Aldo Cazzullo c'illumini col suo patriottismo e il suo antifascismo così saldi e sicuri. Viva l'Italia! Viva il Piccolo Scrivano Sabaudo! Viva la resistenza! Viva il partito d'azione! Abbasso i piccioni che lordano il monumento ai Fratelli Bandiera! Viva il racconto del mese del maestro Cazzullo!

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