sabato 5 novembre 2011

Un Sud ancora fuori dalle rotte

Carlo Carboni


Non riusciamo a venire a capo del nostro problema di fondo: mantenere la rotta del rigore e prendere il vento giusto della crescita economica. Chi è alla guida pensa che da questo guaio pericoloso ne usciremo, prima o poi, grazie alle "scorte" di cui disponiamo; ma queste si riducono giorno dopo giorno ed è aleatorio sperare che qualcuno (la Ue? Il Fmi?) ci venga in soccorso tirandoci fuori da tutti i nostri problemi con cui ci rifiutiamo ostinatamente di fare i conti, come, ad esempio, il Mezzogiorno, un storico punto cieco della nostra crescita nazionale.

Nella ormai famosa lettera inviata all'Ue, il governo cita un piano Eurosud, ma, per ora, si tratta solo dell'annuncio di una revisione (entro 4 mesi) dei programmi cofinanziati dai fondi strutturali 2007-13, a cui si è aggiunta la notizia di 8 miliardi di euro "liberati" dalla riduzione del cofinanziamento nazionale (dal 50 al 25%,) che però abbassa l'investimento complessivo. Resta quindi alto il timore di una nuova promessa tradita. Già un anno fa, il Consiglio dei Ministri aveva varato un "Piano nazionale per il Sud", ma senza risorse aggiuntive. Anzi, il Cipe aveva ridotto quelle del Fas, dirottate verso altri obiettivi, per lo più di spesa corrente. Nel frattempo, il Rapporto Svimez 2011 ha fotografato un arretramento ulteriore del Mezzogiorno a seguito della crisi, superiore, nel triennio 2008-10, a quello del Centro-Nord. Ha così smentito la convinzione della "prima ora" che, di fronte a una crisi esogena, l'economia meridionale, debole sui mercati esteri, ne avrebbe tratto un vantaggio relativo. Così non è stato. Nel 2010, il divario in termini di Pil procapite si è ampliato (-0,3%), la crescita industriale meridionale è stata meno della metà rispetto al resto del Paese (il 2,3% contro il 5,3%), la variazione degli investimenti fissi lordi è stata dello 0,9 % contro il 3,1 per cento.

Il risultato è che un giovane meridionale su tre non lavora e la disoccupazione al Sud insegue solo quella vertiginosa spagnola. Inoltre, l'emigrazione ha accelerato(oltre centomila l'anno), così che il leggendario divario territoriale tra la Lombardia e le regioni più povere del Sud si concretizza con l'emigrazione verso di essa di un meridionale su quattro: "in fuga" anche i laureati, che, a loro volta, risultano in diminuzione nel Mezzogiorno. Per non parlare delle persone a rischio di povertà, che nel Nord-Est sono il 14%, mentre in Sicilia e in Campania sono ben oltre il 40 per cento. Si tratta di una fotografia desolante, aggravata dalla visione nordista negativa e scettica sulla possibilità che il nostro meridione possa farcela a compiere quel salto di qualità che gli consenta di non essere più al traino di una corda tesa, che rischia di spezzarsi.

Non è un mistero che le élite leghiste (ma non solo) ritengono che il Mezzogiorno sia "zavorra", uno stivale da amputare se necessario (secessionismo), un luogo senza insegnamenti per chi voglia apprendere e divenire migliore a causa dell'aspetto torbido e stagnante della vita meridionale, inquinata dalla presenza mafiosa, da buchi neri metropolitani pressoché ingovernabili, dall'indolenza e dal costante lamentoso rivendicazionismo meridionalista. A questa visione secessionista, se ne affianca una scettica di altre élite politiche e governative che non dà credito a fotografie che usano filtri e un grandangolo distorsivi della realtà: il divario di reddito, di occupazione e povertà sarebbe falsato dall'abbondante economia sommersa, dall'evasione fiscale e dall'abusivismo edilizio che ferisce la bellezza indiscussa del nostro Mezzogiorno.

A controprova, si sottolinea il minor divario tra Nord e Sud in termini di consumi e risparmio delle famiglie. Lo scetticismo diventa poi indecisionismo cronico quando si considera che sulle risorse dedicate dallo stato al Mezzogiorno gravano pesanti criticità della "filiera istituzionale", i costi illegali della criminalità organizzata e del mercato politico-clientelare. Tuttavia, queste posizioni non fanno che accrescere l'impotenza verso il più grave e persistente problema del Paese. Non è perciò più tempo di promesse, non credibili se non s'individuano, per esempio, le risorse necessarie per completare il sistema delle infrastrutture di trasporto: al proposito, secondo lo Svimez, mancano all'appello 42 miliardi di euro sui circa 61 necessari. Pertanto, non dovrebbero esserci dubbi a utilizzare per il Mezzogiorno i citati 8 miliardi di euro appena "liberati", data la carenza di finanziamenti adeguati anche per la politica industriale (gli aiuti alle imprese in Italia sono la metà di quelli francesi e tedeschi). Un cambio di passo della crescita del Sud in grado di aiutare quella nazionale non avverrà senza risorse aggiuntive, senza interventi selettivi e verticali al posto dei vecchi automatismi sui quali ronzano, come le api sul miele, gli interessi clientelari intermediati dal ceto politico e le pressioni mafiose.

Quattro appaiono le linee di intervento per sottrarre il Mezzogiorno dal suo storico ruolo passivo di serbatoio del consenso e del consumo: una politica infrastrutturale e logistica; una concreta politica industriale selettiva e di filiera; una valorizzazione delle potenzialità energetiche del Mezzogiorno (dal petrolio lucano alle rinnovabili e alla geotermia); infine, una "fiscalità di vantaggio" per attrarre investimenti, vincendo un annoso braccio di ferro con l'Ue che la esclude in uno stesso paese. Ma al Sud, come nel resto d'Italia, ci vorrebbe una "nuova primavera" delle istituzioni e della società civile.
 5 novembre 2011

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