sabato 7 gennaio 2012

Non ho parole, e' la ristampa del libro Quore. Monti: Non era un’Europa a due velocità, quella alla quale pensavano Mazzini e Cavour. Era un’Europa inconcepibile senza la presenza attiva dei popoli mediterranei, area strategica, allora come oggi. Oggi assistiamo all’avvio di una sorta di risorgimento dei popoli della sponda sud del Mediterraneo, con mille problemi e contraddizioni, ma abbiamo il dovere di offrire loro modelli e riferimenti, con apertura e comprensione.


Festa del Tricolore: l'intervento di Monti a Reggio Emilia
7 Gennaio 2012


(Testo non corretto)
Signor Presidente della Regione Emilia Romagna,

Signora Presidente della Provincia,

Caro sindaco Del Rio

Autorità religiose, civili, militari,

cari cittadini di Reggio Emilia


Un anno fa, in questa sala, in occasione della festa nazionale della bandiera, il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, rivolse a tutti noi italiani un appello affinché non venisse perduta l’occasione delle celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia. Rivolse un pressante invito, soprattutto alle istituzioni, Governo, Parlamento, ai partiti e alle forze sociali, agli enti territoriali a “non ritrarsi” da questa riflessione collettiva sul senso ultimo della nostra comunità.

L’Italia non ha perso quell’occasione.

Oggi possiamo dire che quell’appello è stato raccolto da tutti, con entusiasmo inatteso; cittadini,associazioni, comunità ed enti territoriali hanno risposto in una misura sorprendente.

Quell’appello è stato colto proprio nel segno del tricolore, di quella bandiera nata 215 anni fa in questa terra. Quanti tricolori abbiamo visto appesi alle finestre delle nostre case, delle famiglie italiane? Milioni. In tutta Italia, in ogni Regione, in ogni città.

Che cosa hanno voluto dirci, a noi responsabili delle istituzioni, quei gesti semplici?E’ una domanda che i cittadini ci hanno posto e continuano a porci. In primo luogo, il gesto di appendere la bandiera ai balconi, alle finestre, ci invita nei nostri comportamenti a cercare sempre di essere all’altezza del tricolore.

Quel gesto spontaneo ha reso viva, attiva, la scelta dei Padri Costituenti di iscrivere il tricolore italiano come “principio”, all’articolo 12 della Costituzione. Non simbolo, ma principio costitutivo della Repubblica.

Se vogliamo andare oltre il gesto in sé, gli italiani ci chiedono prima di tutto di parlare e di spiegare la crisi economica che stiamo vivendo in spirito di verità. In secondo luogo – di fronte alla crisi – ci chiedono di capire in che direzione i sacrifici porteranno la nostra Nazione. Ci chiedono infine di spiegare meglio il nostro ruolo in Europa.

L’Italia, fin dai tempi della nascita di quella bandiera è legata indissolubilmente alle vicende europee. Nella nostra storia, possiamo affermarlo con certezza, l’Italia ha progredito, si è arricchita di conoscenza e di benessere, solo quando ha saputo marciare insieme agli altri popoli europei, solo quando ha saputo contribuire attivamente alla storia della civiltà europea, a determinarne il modello di sviluppo, morale ed economico.

La Presidenza del Consiglio in questo 150° anniversario ha onorato con la costruzione di moderni “memoriali” i protagonisti del Risorgimento – tra loro avversari -, come Giuseppe Mazzini e il conte Camillo Benso di Cavour. Penso a Quarto dei Mille, al Gianicolo, alla Domus mazziniana a Pisa, alla Stazione Tiburtina, a Caprera. Quei padri fondatori avevano tra loro idee opposte. Ma li accomunava un enorme amor di patria, un europeismo profondo.

Non era un’Europa a due velocità, quella alla quale pensavano Mazzini e Cavour. Era un’Europa inconcepibile senza la presenza attiva dei popoli mediterranei, area strategica, allora come oggi. Oggi assistiamo all’avvio di una sorta di risorgimento dei popoli della sponda sud del Mediterraneo, con mille problemi e contraddizioni, ma abbiamo il dovere di offrire loro modelli e riferimenti, con apertura e comprensione. L’area dell’euro devo continuare a rappresentare un’àncora e un riferimento sicuro, in tutta la sua estensione geografica. Vogliamo anche noi un’Europa con i conti in ordine; un’Europa che sappia assicurare stabilità, anche accettando meccanismi molto severi; essi sono nel nostro comune interesse. Ma nessuno può immaginare un’Europa che rinunzia a crescere. Non è un problema di Nord o Sud. Nessun Paese europeo è tanto forte da poter andare avanti da solo ad affrontare le grandi economie mondiali. L’Europa ha necessità di attuare politiche comuni e coordinate di crescita, nella stabilità finanziaria. L’Italia ha dato alla stabilità dell’area euro un contributo decisivo con la potente azione deliberata dal Governo con il decreto del 6 dicembre - approvata dal Parlamento in via definitiva il 23 dicembre, in tempi eccezionalmente brevi, che testimoniano la volontà compatta dell’Italia. Ora il momento dei compiti è giunto per tutti. Nessuno pensi di poter fare a meno degli altri. L’Europa supererà la crisi solo con un’azione convinta e unita di tutte le componenti dell’Unione. Noi faremo la nostra parte, memori di essere uno tra i paesi fondatori dell’Unione.

I protagonisti del nostro Risorgimento avevano nella mente l’Europa, e nel cuore un pacato ma saldo orgoglio dei nostri valori nazionali. Uno dei documenti più alti della nostra storia, è quel memorandum alle Potenze d’Europa che Giuseppe Garibaldi pubblicò a Napoli il 22 ottobre 1860, 20 giorni dopo la sanguinosa vittoria del Volturno e quattro giorni prima dell’incontro con Vittorio Emanuele II a Vairano-Teano. Garibaldi, che era un guerriero eccezionale, un intellettuale appassionato, un politico disordinato ma visionario, scriveva così, profeticamente: "Supponiamo che l’Europa formasse un solo Stato… ed in tale supposizione, non più eserciti, non più flotte, e gli immensi capitali strappati quasi sempre ai bisogni e alla miseria dei popoli… sarebbero convertiti invece a vantaggio del popolo in uno sviluppo colossale dell’industria, del miglioramento delle strade, nella costruzione dei ponti, nello scavamento dei canali, nella fondazione di stabilimenti pubblici e nella erezione delle scuole che toglierebbero alla miseria ed alla ignoranza tante povere creature…".

L’Italia era un paese poverissimo al momento dell’unificazione. La situazione economica era drammaticamente peggiorata nei primi due decenni dell’Ottocento. L’aspettativa di vita era inferiore del 30% alla media europea. L’agricoltura impiegava mezzi e metodi primitivi. Mancava l’energia. Anche le città più ricche del Nord erano devastate da epidemie di colera. Il territorio, soprattutto al Sud, era privo di infrastrutture. Gli italiani vivevano e morivano nell’analfabetismo. Anche l’Italia appena unificata venne investita da una rivoluzione tecnologica e da una globalizzazione dei commerci. Non fu semplice reggere il mercato, per la navigazione italiana, per il tessile, la produzione di vino e di prodotti per i consumi di lusso mondiali, per le prime embrionali industrie. Lo sviluppo fu lento. Ma gli italiani avevano il desiderio di avanzare, di progredire, anno dopo anno.

Il progresso in questi 150 anni è stato enorme, ma non ha cancellato completamente il divario rispetto alle migliori performance europee. I livelli di infrastrutture, che qualche anno fa erano all’avanguardia, oggi sono obsolete e avrebbero necessità di un generale rilancio. Le nuove tecnologie, la banda larga, oggi è una rete decisiva per la competitività del sistema. Nel 2009 i laureati nella fascia d’età tra i 25 e i 64 anni in Italia non superano il 15%, contro una media europea del 30%. E la situazione migliora troppo lentamente, se nelle fasce di età tra i 25 e i 34 anni, i laureati si collocano al 20% contro una media Ocse del 37%. Anche i diplomati sono ancora troppo pochi: il 54% della popolazione adulta contro una media Ocse del 73!

Dobbiamo tutti studiare di più. Ce lo impone l’impressionante trasformazione tecnologica e di conoscenze che ha investito il mondo e che è all’origine della redistribuzione internazionale del lavoro. Se l’Italia da circa 15 anni cresce meno degli altri Paesi europei, noi dovremmo tra l’altro, urgentemente, migliorare il nostro capitale umano, dedicando a ciò le nostre migliori capacità intellettuali.

E’ vero che dobbiamo guardare alle statistiche con mente aperta e senza semplicismo. Il “gap” di competitività dell’Italia rispetto al resto d’Europa esiste. Ma esiste anche una forza e una vitalità della società e dell’economia italiana che hanno reso il nostro Paese molto flessibile, capace di adattamento. Le famiglie italiane, ma anche le nostre imprese, sono tra le meno indebitate dei paesi industrializzati; la ricchezza netta del settore privato è assai elevata, oltre 8 volte il reddito annuo; siamo dunque in grado di finanziare il nostro debito pubblico. Abbiamo un territorio presidiato in ogni punto del Paese, nonostante il 54% di esso sia montano e raccolga solo il 20% della popolazione; la cultura ecologica si sta diffondendo; anche nelle regioni meridionali assistiamo a un forte miglioramento degli indicatori di raccolta differenziata. Gli indicatori di un Paese vanno guardati nel loro complesso, non solo quelli che interessano i mercati dei titoli di Stato.

Il vero orgoglio del nostro Paese è questa eccezionale base industriale – di cui la vostra terra è ricchissima - costituita di piccole e medie imprese, ma anche ormai di centinaia di “multinazionali tascabili”; questo tessuto lo vediamo nei dati sull’export miracolosamente reggere alla concorrenza sfrenata di ogni genere di produttori, anche alla competizione drammatica di aree che sfruttano il dumping sociale.

Il Governo della Repubblica crede profondamente che l’Italia di domani debba continuare ad essere una grande economia industriale, fondata sulla produzione diffusa, con imprese più grandi, più capitalizzate, più internazionali.

Il tavolo sul lavoro che si sta per aprire dovrà confermare questi principi e favorire l’investimento e l’occupazione, con azioni fiscali come la detrazione dall’IRAP della quota lavoro e dal bonus fiscale per le assunzioni a tempi indeterminato per i giovani, in particolare al Sud; il sostegno fiscale alla capitalizzazione delle imprese attraverso l’introduzione dell’ACE è una misura di cui siamo fortemente convinti.

Se guardiamo dentro noi stessi sappiamo che ce la faremo. Il capitale di energie e di conoscenze degli italiani ha sempre risposto nei grandi momenti di difficoltà.

Certo, sappiamo di aver chiesto sacrifici a tutti. Ma il Governo seguirà come sua stella polare la ricerca della giustizia sociale, dell’equità.

Abbiamo già deliberato importanti strumenti contro l’evasione fiscale e contributiva. Continueremo su questa strada. E’ inammissibile che i lavoratori sopportino sacrifici pensanti mentre una porzione importante di reddito sfugge a ogni tassazione, accrescendo così la pressione tributaria su chi non può sottrarsi al fisco.

Equità sociale in Italia è anche e soprattutto l’azione di ridurre le aree di rendita e di privilegio. Creare concorrenza in settori protetti non è un’azione contro questo o quel gruppo professionale, ma è una esigenza vitale del Paese per ridare fiducia ai giovani, che se messi in condizioni sanno creare essi stessi, da soli, tante nuove occasioni di impiego.

Abbiamo avviato con il Ministro della Giustizia e il Ministro della Funzione Pubblica una riflessione sugli strumenti per dare una scossa e una accelerazione potente alla lotta contro la corruzione, che divora risorse, crea discredito verso le istituzioni, centrali e territoriali, frena gli investimenti esteri in Italia.

Su tutti questi punti, in diversi momenti decisionali, il Governo opererà con provvedimenti legislativi ed amministrativi.

Quello che oggi volevo trasmettervi non è qualcosa su un aspetto o un altro del programma di Governo, ma sullo spirito con il quale lo viviamo.

Dobbiamo operare con urgenza per sbloccare il Paese, per far saltare i colli di bottiglia che lo rendono più lento degli altri. Alcune azioni devono essere avviate per ottenere risultati immediati, nel giro di mesi, altre azioni vanno avviate ma necessiteranno anni per produrre risultati. Eppure, sono ancora più importanti.

L’occhio con il quale affrontiamo la crisi non deve essere quello del breve periodo. Anche nei momenti di emergenza, dove gli eventi assorbono l’intelligenza e accorciano la visuale, dobbiamo avere la forza di guardare al periodo più lungo, alla responsabilità che abbiamo nelle generazioni.

Cinquant’anni fa, nel 1961, il Centenario dell’Unità d’Italia si concluse con un manifesto dove dei bambini correndo dicevano “Arrivederci al 2011!”.

Oggi il 2061 può apparirci lontano. Ma è un errore. Non è lontano. E’ il tempo dei nostri figli, dei nostri nipoti. L’Istat ha già pubblicato le previsioni demografiche al 2065. Conosciamo già i problemi dell’Italia del Bicentenario; la demografia, la scarsità di giovani di origine italiana, la necessità di integrare quel 17% di popolazione che sarà straniera o di origine straniera.

La nostra responsabilità è quella di superare la crisi odierna, ma di riportare l’Italia sulla strada dell’accumulazione di risorse economiche e morali.

Di una cosa sono certo, cari concittadini. I nostri figli, il 7 gennaio di quel 2061, qui a Reggio Emilia, festeggeranno uniti il tricolore.

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