lunedì 20 febbraio 2012

News/am.19.2.12/ Alberto Alesina e Francesco Giavazzi: I dati dell'Ocse mostrano che l'Italia detiene (insieme a Messico e Turchia) il record nella percentuale di giovani che né lavorano né partecipano ad attività formative, in una scuola, un'università, o all'interno di un'azienda.

Essere prudenti è poco saggio
Le banche si preparano alla maxi-asta Bce
La collina delle civette e il presagio sui sardi. Claudio Cugusi
Le radici di un popolo. Manlio Brigaglia
Addio a Giovanni Lilliu. Marcello Madau



Essere prudenti è poco saggio
A meno di due mesi dal suo insediamento, il nuovo governo spagnolo ha varato una riforma del mercato del lavoro che affronta alcune delle questioni che sono sul tavolo anche in Italia, a cominciare dalla situazione dei giovani. In Spagna la disoccupazione totale è molto più alta che in Italia (23% rispetto a 9%), ma il rapporto tra la disoccupazione dei giovani (28% in Italia e 48% in Spagna) e quella degli anziani è più grave nel nostro Paese. In Spagna il tasso di disoccupazione dei giovani è il doppio di quello dei lavoratori più anziani. In Italia il triplo.
La nuova legge spagnola accorcia la distanza fra contratti a tempo determinato e indeterminato modificando questi ultimi: il costo, per un'impresa, di licenziare un lavoratore a tempo indeterminato scende da un compenso corrispondente a 45 giorni lavorativi per ogni anno di servizio, a 33 giorni. Quindi, chi aveva un contratto a tempo indeterminato e lavorava da solo 6 mesi riceverà un ammontare equivalente a 16,5 giorni di lavoro. Se lavorava da dieci anni, un ammontare equivalente a 330 giorni (il compenso massimo è di due anni). Se poi l'impresa dimostra che il licenziamento non avviene per ragioni disciplinari, ma economiche (ad esempio se l'impresa non riesce più a vendere i suoi prodotti), il compenso si riduce a 20 giorni per anno di servizio con un massimo corrispondente a 12 mesi di retribuzione netta.
La strada spagnola è quella giusta: far pagare alle imprese una parte dei sussidi di disoccupazione fa sì che esse ci pensino bene prima di licenziare un dipendente, tanto più quanto più a lungo è durato il rapporto di lavoro. Agevolarle se il licenziamento dipende da motivi economici evita che si tengano artificialmente in vita imprese decotte, come invece avviene in Italia quando si prolunga oltre misura la cassa integrazione.
Vincoli simili a quelli imposti dall'articolo 18 del nostro Statuto dei lavoratori erano stati eliminati in Spagna già nel 1997. Nei dieci anni successivi la disoccupazione scese di circa dieci punti: dal 17,8% all'8,3. Ciò che il governo di Mariano Rajoy non ha invece avuto il coraggio di fare è introdurre un contratto unico. Come in Italia, anche a Madrid l'opposizione al contratto unico è venuta dai sindacati e dall'associazione delle imprese. I primi (come mostrano Juan Dolado e Samuel Bentolila, Economic Policy 1994), perché la presenza di lavoratori precari segmenta il mercato del lavoro e consente di mantenere più elevato il salario di chi ha un contratto a tempo indeterminato; le imprese perché i contratti a tempo indeterminato offrono flessibilità a costo zero.
Fino ad oggi una riforma del mercato del lavoro che elimini le disparità fra giovani e anziani è stata un tabù in Italia. Ora, fortunatamente, pare non lo sia più. Il presidente del Consiglio Monti e il ministro del Lavoro Fornero sembrano pronti ad affrontare sia il tema dei contratti che quello dei sussidi, due riforme che vanno fatte insieme perché (come abbiamo spiegato in un articolo del 22 gennaio) non si può riformare il mercato del lavoro senza rivedere il sistema di sussidi alla disoccupazione. E non si tratta solo di riformare il sistema di protezione per chi perde il lavoro.
 I dati dell'Ocse mostrano che l'Italia detiene (insieme a Messico e Turchia) il record nella percentuale di giovani che né lavorano né partecipano ad attività formative, in una scuola, un'università, o all'interno di un'azienda. Una situazione molto diversa da quella tedesca, dove non c'è praticamente alcuna differenza fra il tasso di disoccupazione dei giovani e quello dei lavoratori più anziani (7% contro l'8% dei giovani). Ciò che fa la differenza in Germania (e modalità analoghe esistono in Austria, Svizzera e Olanda) è un sistema che consente ai giovani di inserirsi molto presto nel mondo del lavoro. Terminata la scuola elementare, le famiglie tedesche devono scegliere, per i loro figli, fra tre strade distinte: una scuola simile al nostro liceo, che non prevede formazione professionale; la Realschule in cui si alternano periodi di formazione generale e periodi di esperienza in azienda; e la Hauptschule che prevede un graduale inserimento in azienda già a partire dai 15-16 anni. Non sono scelte irreversibili: previa verifica del suo rendimento scolastico, uno studente può passare da una scuola all'altra.
Un'impresa tedesca su tre offre esperienze di apprendistato e metà dei ragazzi che fanno questa esperienza vengono poi assunti dalla stessa impresa con un contratto a tempo indeterminato. In Italia le imprese usano l'apprendistato come un modo per assumere lavoratori precari e le attività di formazione sono spesso fasulle. Il risultato è che i giovani apprendisti il più delle volte non imparano nulla e alla fine del contratto vengono lasciati a casa (si leggano Pietro Garibaldi e Tito Boeri «Un nuovo apprendistato contro lo spreco di capitale umano» sul sito lavoce.info ). E così ci si continua a illudere che la laurea sia l'unica strada per trovare lavoro: il risultato è che a un anno dalla laurea triennale tre giovani su dieci non hanno ancora trovato un lavoro, e uno su due a un anno dalla laurea specialistica (dati di AlmaLaurea). Anche perché, durante gli anni dell'università, in Italia, diversamente da quanto avviene in altri Paesi, le imprese non fanno alcuno sforzo per avvicinare i giovani al mondo del lavoro, anche solo con stage estivi, e le università sono fabbriche di esami organizzate in modo tale che gli studenti non hanno mai due mesi liberi.
Monti e Fornero possono seguire due strade: procedere con cautela, cambiare pochissimo, cercare il consenso della Confindustria e dei sindacati, e così evitare scontri. Oppure attuare una riforma vera, che parta dal contratto unico a tempo indeterminato per tutti, con la possibilità di terminare il rapporto di lavoro (per tutti, anche i dipendenti pubblici) con i dovuti costi per le imprese o per lo Stato.
Noi pensiamo che vada abbandonata ogni cautela e che si debba avere il coraggio di chiamare «riforma» solo una modifica sostanziale dei contratti, dei sussidi e delle modalità di inserimento dei giovani nel mercato del lavoro. Limitarsi a qualche aggiustamento marginale è peggio che non far nulla: si creerebbe l'illusione che un problema è stato risolto, quando invece non è vero. Lo scoprirà anche la Spagna che si è fermata a metà strada. Oggi la prudenza non è segno né di saggezza né di lungimiranza.
Alberto Alesina e Francesco Giavazzi
20 febbraio 2012 | 7:28

Le banche si preparano alla maxi-asta Bce
dal nostro inviato Maximilian Cellino
PARMA - Soddisfare le esigenze di rafforzamento patrimoniale richieste dall'Eba senza far mancare all'economia reale la linfa vitale dei finanziamenti. Il richiamo alle banche del Governatore della Banca d'Italia, Ignazio Visco, non poteva essere più chiaro ieri. Certo, qualche errore da parte delle autorità europee è stato compiuto, per esempio è stata sbagliata la «sequenza ottimale delle misure adottate»: prima si sarebbe dovuto attivare l'Efsf, il fondo salva stati, e solo successivamente provvedere alle raccomandazioni verso le banche.
Ma non ci sono alibi: il sostegno a famiglie e imprese non deve mancare. Come raggiungere l'ambizioso obiettivo, il numero uno di via Nazionale non lo ha detto, ma ha caldamente consigliato di seguire la via della sobrietà: «ci aspettiamo che le prossime decisioni delle banche in tema di politiche di dividendi e remunerazione dei manager tengano conto di queste necessità», ha sottolineato nell'intervento di ieri al Congresso Assiom Forex, prima di preannunciare indicazioni della stessa Banca d'Italia sui criteri da adottare in merito.
Sullo sfondo resta poi l'enorme opportunità del denaro concesso a tassi di favore dalla Banca centrale europea, anche se Visco non invita (come di recente aveva fatto indirettamente il presidente Bce, Mario Draghi) le banche alla partecipazione all'asta di rifinanziamento triennale in programma fra 10 giorni. Alla prima, lo scorso 21 dicembre, gli istituti italiani si sono aggiudicati 116 dei 489 miliardi distribuiti al tasso dell'1% dal «Bancomat» di Francoforte. La seconda ha tutte le carte in regola per offrire un bis, anche se a parole le banche sembrano giocare a nascondersi.
Ieri, per esempio, il direttore generale di UniCredit, Roberto Nicastro, ha tenuto a precisare di non aver «formalizzato una decisione», anche se si tratta di «un'opportunità interessante». La stessa linea di Victor Massiah, consigliere delegato di Ubi Banca: «Stiamo valutando se aderire o meno, ma confermiamo il nostro interesse all'operazione». È chiaro però che dietro la necessità di non scoprire le carte in anticipo, dettato probabilmente dall'esigenza di evitare quell'effetto «stigma» che lo stesso Draghi ha tenuto a minimizzare, si cela una realtà differente: la coda di banche di fronte all'Eurotower sarà ancora una volta lunga.
«Ci aspettiamo una domanda forte, anche se qualcuno si è dichiarato non entusiasta», ha sottolineato il presidente del consiglio di gestione di Intesa Sanpaolo, Andrea Beltratti, e i numeri dovrebbero dargli ragione.
Di certo il collaterale, cioè l'insieme delle attività finanziarie da depositare come garanzia per ottenere in cambio il denaro, non sembra essere più un problema. Merito della Bce soprattutto, che da dicembre ha allargato la lista degli strumenti che si possono consegnare anche a nuove categorie di prestiti alla clientela, i cui criteri (probabilità di insolvenza del debitore non inferiore all'1%) sono stati poi definiti la scorsa settimana dalla Banca d'Italia. L'intervento di ieri di Visco ha rappresentato anche l'occasione per fare i conti in tasca alle banche italiane e dissipare gli ultimi dubbi sul tema: a fine gennaio, ha ricordato il Governatore, le attività a garanzia stanziate dagli istituti di credito presso via Nazionale (il cosiddetto «collateral pool») ammontavano a circa 280 miliardi di euro, oltre ad attività al di fuori del pool e libere da vincoli che valgono (al netto dei margini di garanzia) 77 miliardi. «Poiché l'esposizione totale nei confronti dell'Eurosistema ammontava a circa 200 miliardi, la capacità di ulteriore rifinanziamento del sistema bancario era valutabile in oltre 150 miliardi», ha rilevato Visco.
Ma a questa cifra occorre aggiungere ancora il nuovo collaterale consentito dall'allargamento dei criteri sui prestiti alla clientela stabilito dalla Banca d'Italia, cioè altri 70-90 miliardi di euro. A fine mese, in altre parole, le banche italiane potrebbero in teoria chiedere alla Bce fino a 250 miliardi di euro. Non è detto che lo facciano, anzi, probabilmente si fermeranno ben sotto questo limite. Il problema, semmai, è capire come sarà utilizzato il denaro: se sarà parcheggiato di nuovo presso i depositi di Francoforte; se sarà invece destinato a coprire il fabbisogno di funding per i prossimi mesi oppure al riacquisto di obbligazioni proprie o di titoli di Stato; se sarà, infine, utilizzato per «sostenere l'offerta di credito», come ha detto ieri Visco, cioè per finanziare i clienti. Le famiglie e il mondo delle imprese, in fondo, se lo augurano.
 19 febbraio 2012



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