martedì 6 novembre 2012

(1) VI.XI.MMXII/ Due forme dell'autolesionismo meridionale.===1. Marco Demarco: Il che vuol dire che il Sud non ha neanche fatto in tempo a strapparsi i capelli per i suoi cervelli in fuga che già deve fare i conti con un altro e ben più vasto fenomeno: quello dell’emigrazione ante lauream, giacché ad andarsene non sono solo i dottori e gli ingegneri, gli skilled, come ormai vengono chiamati, ma anche i fratelli minori, quelli che hanno appena lasciato i licei o gli istituti tecnici.---2. Lo afferma in una intervista al Mattino il presidente dell'Istat, Antonio Giovannini, sottolineando che ''se le regioni del Sud riescono a capire che quest'area del Paese va rilanciata nel suo complesso e non singolarmente, vedranno attrarre molti più investimenti stranieri di quello che si può immaginare''.

I neo-diplomati del Meridione vanno a studiare al Centronord
L'UNIONE SARDA - Economia: L'esercito dei senza lavoro
LA NUOVA SARDEGNA - Economia: «Aiuti sospesi a 12.000 aziende»
La Basilicata è ricca: niente social card
Crisi, Giovannini: "Al Sud il peso raddoppia: intervenire per creare sviluppo e occupazione"
Trst, oltrepadania est. Fermata la norma “salva esuli e rimasti”

I neo-diplomati del Meridione vanno a studiare al Centronord
Sempre più diffusa la migrazione ante lauream
I dati in un saggio di Serena Affuso e Gaetano Vecchione
Il Mezzogiorno perde annualmente il 20% della sua popolazione universitaria potenziale, cioè uno studente su cinque, mentre ne attrae solo il 2%, uno su cinquanta. In termini assoluti, su 26.700 diplomati che ogni anno si iscrivono come fuorisede in un ateneo di un’altra regione, 24 mila sono meridionali che si immatricolano nel Centro-Nord. E in effetti, come è stato recentemente ricordato a Cernobbio, dove pure si è discusso di questi temi, meridionali sono il 70% degli alunni della Luiss di Roma, tanto per fare un esempio, o il 30% del campus economico di Trento. I laureati che dal Sud vanno al Nord, gli studenti ormai formati, sono invece 18 mila. E a questo punto verrebbe da aggiungere «solo» diciottomila. Il che vuol dire che il Sud non ha neanche fatto in tempo a strapparsi i capelli per i suoi cervelli in fuga che già deve fare i conti con un altro e ben più vasto fenomeno: quello dell’emigrazione ante lauream, giacché ad andarsene non sono solo i dottori e gli ingegneri, gli skilled, come ormai vengono chiamati, ma anche i fratelli minori, quelli che hanno appena lasciato i licei o gli istituti tecnici. Sulla base di questi e altri dati, sapientemente raccolti ed elaborati da Serena Affuso e Gaetano Vecchione, autori del saggio «Migrazioni intellettuali e Mezzogiorno d’Italia» a cura dell’Ipe, Istituto per ricerche e attività educative, si può discutere, e infatti si discute, se questa nuova ondata migratoria costituisca un’opportunità per il Sud o se sia invece una sciagura; di conseguenza ci si può dividere tra chi fa suo il punto di vista del brain drain, della fuga dei cervelli e chi, invece, quello opposta del brain gain, dell’opportunità. Ma in un caso o nell’altro, un dato è certo: le università meridionali fanno acqua da tutte le parti, non attraggono più nessuno. E poiché l’università è da tutti indicata come una realtà fondamentale per lo sviluppo socioeconomico, ecco che il Sud su rivela, ancora una volta, massimamente inguaiato.
Il Sud più del Centro-Nord paga le conseguenze di un errore madornale: quello di aver male inteso il ruolo dell'università come driver della ripresa territoriale, di averne minimizzato la portata, riducendola, in buona sostanza, a una questione quantitativa più che qualitativa. Nel periodo 2003-2006, infatti, i comuni che ospitavano almeno un corso di laurea di primo, secondo livello o a ciclo unico sono passati, in Italia, da 217 a 251. Nel periodo successivo 2006-2010, per effetto del calo di fiducia nell’università come strumento di elevazione sociale, sono scesi invece da 251 a 222, sono cioé tornati al punto di partenza. Risultato di questa giostra: il Sud è rimasto con il cerino in mano. Ha le sedi universitarie, ne paga gli alti costi di gestione, ma non ha più tutti gli studenti che aveva programmato di attrarre. Così mentre Lombardia e Lazio registrano negli anni un numero di immatricolati in regione che è superiore al numero degli immatricolati per residenza, la Campania vede una situazione invertita per la quale il numero degli immatricolati campani (36.990) supera il numero degli immatricolati in regione (32.527), condizione che contraddistingue tutte le altre regioni del Sud a eccezione dell’Abruzzo. La Puglia è la quinta regione in Italia per immatricolazioni residenti, mentre per quelle in regione non figura neanche tra le prime otto. In Puglia il saldo migratorio degli studenti è di meno 6.650, in Calabria di meno 5.015, in Campania di meno 4.464, in Sicilia di meno 3.209, in Basilicata di meno 2.459. Saldi negativi si registrano anche al Nord, ma a livelli molto più bassi: meno 1.380 in Veneto, meno 500 in Liguria, meno 272 in Piemonte. A fronte di un calo complessivo degli immatricolati, al Nord come al Sud, il numero degli studenti meridionali che si immatricolano nelle regioni del Centro-Nord è diminuito in valore assoluto rispetto al 2003, ma è aumentato in termini percentuali: ora, si è detto, è del 20%, ma era del 17,52% . Deve poi far riflettere il fatto che tra il 2003 e il 2010 la popolazione universitaria sia diminuita, complessivamente, di circa il 16%, ma nell’ordine del 13,5% nel Centro-Nord e del 19,4% nel Mezzogiorno. Come reagire? Certo, nessuno può pretendere dalle nostre università di portarsi rapidamente all'altezza di quelle esistenti in regioni come l’Emilia-Romagna, la Lombardia e il Lazio, da anni le più attrattive in assoluto. Ma di sicuro qualcosa si può fare subito.
Ad esempio, suggeriscono gli autori del saggio, si possono studiare con attenzione le performance del Piemonte e dell’Alto Adige, due regioni capaci di trasformarsi in breve tempo da esportatrici a importatrici di capitale umano. Come hanno fatto? Questo è un primo aspetto da approfondire. Un secondo punto più generale riguarda invece le motivazioni dell’immigrazione. Quelle economicistiche, suggerisce il saggio di Affuso e Vecchione, reggono solo fino ad un certo punto. Dal 1980 al 2008, infatti, i differenziali di Pil procapite tra Nord e Sud sono costantemente aumentati, eppure l'emigrazione dal Nord al Sud ha fatto registrare impennate solo tra il 1984 e il 1990 e tra il 1994 e il 2000. Come mai? Hanno pesato i contratti nazionali di lavoro che hanno equilibrato le contribuzioni, certo. O le compensazioni assistenziali al Sud. Ma, in ogni caso, questo e solo questo? In compenso, l’emigrazione qualificata è passata dal 5 al 16%. E molti di questi laureati emigrati al Nord, più che rimettere risorse, le hanno assorbite, almeno per molti anni. Non sono loro, insomma, che aiutano i genitori rimasti al Sud, ma viceversa. Viene così a confermarsi una recente ipotesi non adombrata nel saggio: e se quella degli studenti e dei giovani laureati che se ne vanno fosse una forma di rivoluzione silenziosa, di spinta a cambiare le cose? Se fosse il rifiuto di un Sud assistito, inefficiente, panpoliticizzato, clientelare e raccomandato? In questo senso, e a ben vedere, la tesi del brain gain, quella dell’opportunità per il Mezzogiorno, ben valutata ma non preferita da Affuso e Vecchione, potrebbe risultare poi non del tutto campata in aria. Certo, si tratterebbe di una opportunità culturale e non economica. Ma non per questo meno dirompente.
Marco Demarco

L'UNIONE SARDA - Economia: L'esercito dei senza lavoro
06.11.2012
Se i numeri sono il miglior strumento per fotografare la realtà, l'immagine che ci regala l'Osservatorio provinciale per il mercato del lavoro è quella di un disastro: a Cagliari e dintorni i disoccupati e gli inoccupati (cioè quelli che non hanno mai avuto un impiego) sono 125.851. Un esercito in continua crescita (+5,3 per cento dal 2009 al 2011) e purtroppo impreparato alla guerra quotidiana per un posto di lavoro: il titolo di studio più diffuso è quello della licenza media (58mila persone in tutto, i laureati sono invece meno di 10mila), l'età media è alta (circa un quarto degli iscritti al centro servizi provinciale ha tra i 35 e i 44 anni) e nel Cagliaritano si campa sempre di più grazie agli assegni di cassa integrazione (6.616 in tutto).
CONSIGLIO STRAORDINARIO Cifre che fanno quasi passare in secondo piano il tasso di disoccupazione (13,2 per cento, contro una media nazionale dell'8,4) e giustificano ampiamente lo «stato di crisi» dichiarato ieri mattina dal Consiglio provinciale con un ordine del giorno votato all'unanimità. Al dibattito straordinario hanno partecipato i rappresentanti delle categorie protagoniste di questo bagno di sangue, che hanno indicato i motivi del tracollo che nel 2011 lasciato 3.229 persone senza un impiego: «Quando dobbiamo cambiare un macchinario nelle nostre aziende dobbiamo convocare 25 enti diversi. Partiamo da qui per semplificare la vita agli imprenditori», ha detto il presidente di Confindustria Alberto Scanu, che ha concluso: «Le aziende falliscono per i troppi crediti che non riescono a riscuotere e per il poco credito che ricevono dalle banche. Bisogna sostenere l'edilizia, serve una nuova legge urbanistica o non andiamo da nessuna parte. Bisogna anche riordinare l'architettura costituzionale. Magari questa sarà l'ultima volta che ci troviamo in un Consiglio provinciale, almeno con queste competenze». Gianfranco Lecca, presidente provinciale di Confapi ha invece chiesto un'accelerata sulle Zone franche e sullo sviluppo del turismo, ricordando: «Il 10 per cento dei nostri iscritti ricorre alla cassa integrazione: si tratta di 60 aziende, per un totale di 400 dipendenti». Uno strumento che invece non hanno i lavoratori autonomi: «La nostra categoria non ha l'aiuto degli ammortizzatori sociali: spesso siamo sommersi dai debiti, con poche possibilità di ricominciare», ha aggiunto Maria Grazia Dessì, segretario del Cna, che rappresenta il mondo dell'artigianato e le piccole e medie imprese.
IL DIBATTITO In Consiglio provinciale sono tutti d'accordo sul fatto che si sia toccato il fondo: «Si tratta di dati preoccupanti, per quello che ci dicono in termini di povertà, e per quanto ci allontanano dalla ripresa», ha spiegato il presidente della Giunta Angela Quaquero, dopo la presentazione dei dati dell'Osservatorio fatta dall'assessore alle Politiche del lavoro Lorena Cordeddu e dal presidente del Consiglio Roberto Pili. Le possibili contromisure al disastro? «Turismo, zona franca, valorizzazione di Molentargius». Michele Ruffi

LA NUOVA SARDEGNA - Economia: «Aiuti sospesi a 12.000 aziende»
06.11.2012
CAGLIARI «L’Unione europea prepara le nuove regole per la transizione verso il prossimo Programma di sviluppo rurale 2014-2020 e, all’orizzonte, sembrano esserci novità poco piacevoli per l’agricoltura sarda». Lo hanno detto il presidente regionale e il direttore della Coldiretti, Marco Scalas e Luca Saba. «In un documento di indirizzo la Commissione europea vorrebbe bloccare l’importante misura comunitaria dell’Indennità compensativa per tutto il 2014, in attesa dell’approvazione delle nuove regole. Siamo in una fase di transizione – ha spiegato Scalas – in cui si studiano le regole per il passaggio dal corrente periodo di programmazione al prossimo, in partenza nel 2014. Queste regole troveranno attuazione in un provvedimento comunitario ad hoc, che disciplinerà la spendita dei fondi residui dell’attuale Psr». «La Commissione – ha aggiunto Saba – sta formalizzando le sue proposte, nelle quali leggiamo con preoccupazione l’inserimento dell’Indennità compensativa tra le misure non finanziabili in questo periodo di transizione». L’indennità compensativa – sostiene la Colidretti – è un pilastro fondamentale dell’economia agricola sarda, poichè sostiene gli imprenditori che operano in territori che l’Ue ha classificato come svantaggiati e, quindi, a rischio d’abbandono. Oggi a beneficiare dell’aiuto nell’isola sono circa 12.000 aziende che «con dedizione continuano a coltivare, presidiandole, aree che altrimenti sarebbero lasciate a loro stesse, con le prevedibili conseguenze di natura economica anche sotto il profilo del governo del territorio».

La Basilicata è ricca: niente social card
Paradosso social card: il bonus contro il disagio non sarà testato in Basilicata. Fuori dalla convergenza, eppure record di povertà. E il sottosegretario D’Andrea spiega: «Si tratta di provvedimento tattico»
06/11/2012  POTENZA - A dirla tutta, fanno sapere dai palazzi romani del Governo, non è neanche una novità. La notizia che ieri è stata diffusa da Repubblica, in realtà, «è persino datata». E siccome già qualche mese fa fece scalpore apprendere che la nuova tornata di social card terrà fuori la Basilicata, vale la pena ricordare - oggi come allora - la motivazione alla base della scelta.
 «In realtà è un criterio tecnico. Il provvedimento è finanziato con fondi comunitari dedicati», spiega il sottosegretario ai Rapporti col parlamento, il lucano Gianpaolo D’Andrea. Le nuove social card saranno potenziate nelle quattro regioni del Sud, Campania, Calabria, Sicilia e Puglia, che sono ancora nell’area convergenza. La Basilicata no, è in fase di facing-out, sta uscendo dalle zone considerate a rischio critico entro i confini comunitari.
 Eppure, questa condizione non manca di marcare un grande paradosso: da un lato la Basilicata che tende a svettare per crescita positiva, per resistenza alla crisi, regione lontana dai tempi in cui era dentro l’obiettivo uno delle politiche dell’Unione europea. Dall’altro la Basilicata che svetta nelle classifiche Istat sulla povertà, quella in cui un lucano su quattro non raggiunge la soglia minima di reddito considerato utile alla sopravvivenza.La Basilicata resterà così fuori dalla diffusione massiccia della nuova social card, lo strumento con cui il governo tecnico di Monti tenta un argine al sempre più diffuso disagio sociale.
 La social card - esperimento fallito tra burocrazia e intoppi tecnologici nell’era di Tremonti - sarà adesso rilanciata in dodici grandi centri di tutto il Paese (Milano, Roma, Torino, Firenze, Venezia, Verona, Genova, Bologna, Bari, Catania, Napoli e Palermo). Inoltre, sarà assegnata a tutti i cittadini con reddito inferiore ai 3.000 euro, attraverso l’impegno dei Comuni, nelle quattro regioni del Sud di area convergenza.
 Solo in queste quattro regioni la stima - faceva notare ieri il quotidiano diretto da Ezio Mauro - è di un milione e 600 mila famiglia in difficoltà.
 La vecchia card valeva circa 40 euro al mese da investire nei supermercati: allo Stato costò circa 200 milioni di euro.
 Questa volta, spiegavano le anticipazioni di stampa nazionale, il Governo distribuirà questa forma di sostegno facendo ricorso a parte del fondo statale per le Politiche sociali, ma soprattutto alla rimodulazione del Fondo strutturale europeo (quello da cui, per questi capitoli di spesa, la Basilicata è fuori).
 Fin qui, il dato tecnico di criteri e parametri di spesa. Ma sullo sfondo resta l’amarezza di quel paradosso. Non è passato poi molto dalla diffusione degli ultimi dati Istat. Il quadro era quello che veniva fuori dalla chiusura del 2011, l’anno considerato il peggiore del periodo di crisi economica, quello che ha riportato indietro il Paese di decenni su redditi e risparmi.
 Con un Sud sempre più lontano, e la Basilicata in testa, insieme a Sicilia e Calabria, per indice di povertà.
 Ad agosto scorso il Rapporto annuale dell’Istat non lasciava ampi margini al commento: lo scenario descritto dall’indagine è più che critico.
 I dati (riferiti al 2010) parlavano chiaro: al Sud sono povere 23 famiglie su 100, al Nord 4,9. E’ sempre il Mezzogiorno l’area del paese che soffre di più. E a Sud è la Basilicata la regione più povera con un tasso del 28,3 per cento. Praticamente una famiglia su quattro al di sotto della soglia di sopravvivenza. Ma per loro, almeno al momento, non ci sarà social card.

Crisi, Giovannini: "Al Sud il peso raddoppia: intervenire per creare sviluppo e occupazione"
"Regioni dell'area troppo spesso divise"
Nel Mezzogiorno il peso della crisi potrebbe "raddoppiare", perché non c'è una massa critica di aziende esportatrici in grado trainare l'intera area fuori della crisi" e le Regioni dell'area sono spesso divise. Lo afferma in una intervista al Mattino il presidente dell'Istat, Antonio Giovannini, sottolineando che ''se le regioni del Sud riescono a capire che quest'area del Paese va rilanciata nel suo complesso e non singolarmente, vedranno attrarre molti più investimenti stranieri di quello che si può immaginare''.
 "Le previsioni sul Pil 2013 - aggiunge Giovannini - ''sono in linea con quelle del Governo, che per il prossimo anno ha sempre parlato di un -0,2%. E sono migliori di quelle di altre organizzazioni, ad esempio l'Fmi. Quindi l'idea che nel corso del 2013, nel secondo o terzo trimestre, si torni in territorio positivo e' una possibilità anche per noi credibile sia pure non sufficiente ad avere un risultato finale, su base annua, altrettanto positivo''. A ''spingere, anche per l'anno prossimo saranno le esportazioni''. Ma per la ripresa anche nel Mezzogiorno ''dobbiamo intervenire su tutto ciò che crea sviluppo e occupazione''.

Trst, oltrepadania est. Fermata la norma “salva esuli e rimasti”
La Camera giudica inammissibili gli emendamenti presentati per ripristinare i fondi. Rosato: «Faremo immediato ricorso»
di Mauro Manzin
TRIESTE. Brutte notizie da Montecitorio per i finanziamenti destinati alla minoranza italiana in Slovenia e Croazia e alle associazioni degli esuli in Italia. Nella serata di ieri, infatti, la presidenza della Camera ha dichiarato «inammissibili» tutti gli emendamenti presentati praticamente da tutti i gruppi parlamentari con i quali si richiedeva il ripristino dei fondi. La vicenda però non si chiude qui. «Presenteremo appello entro domani mattina (stamane ndr.)- dichiara il deputato del Pd, Ettore Rosato - perché gli emendamenti siano accettati, lavoreremo per questo in collaborazione con uno dei due relatori della legge di stabilità che è il deputato del Partito democratico, Pierpaolo Beretta».
A questo punto però la situazione sembra appesa a un filo. Lo stesso ministro degli Esteri, Giulio Terzi di Sant’Agata ha dichiarato che il suo ministero aveva ripresentato i finanziamenti che però successivamente erano stati cancellati nella predisposizione della legge Finanziaria e ha detto che ora la responsabilità passa al Parlamento. Parlamento che non si è fatto pregare visto che in un clima assolutamente bipartisan, secondo gli schieramenti tradizionali, pronti sono scattati gli emendamenti per il ripristino dei fondi.
L’erogazione dei finanziamenti, lo ricordiamo, sono di vitale importanza vuoi per i nostri connazionali che vivono in Croazia e Slovenia, vuoi per le associazioni degli esuli. Come ribadito dagli organi istituzionali dell’Unione italiana il taglio determinerebbe un drastico ridimensionamento di tutte le attività in calendario con grave nocumento per i settori della scuola e della cultura e provocherebbero altresì la perdita di una cinquantina di posti di lavoro. L’Unione italiana ha inviato una circostanziata lettera alla commissione Bilancio della Camera in cui vi era il dettagliato elenco delle attività che sarebbero state annullate se i finanziamenti non fossero stati erogati. Ma, visto il decorso dei fatti, sembra che l’appello sia caduto nel vuoto.
La decisione avrebbe comunque anche un importante risvolto internazionale. Solo pochi giorni fa alla riunione del Comitato dei ministri di Slovenia e Italia a Brdo pri Kranju il ministro degli Esteri Terzi aveva ribadito l’assoluto interesse prioritario dell’Italia nei confronti dell’unica minoranza autoctona che vive fuori dai confini della madrepatria.
E, bisogna altresì dire, che la Slovenia, pur vivendo una condizione economica catastrofica ha confermato i finanziamenti per la minoranza italiana e quella ungherese presenti sul suo territorio lasciando però aperti i temi relativi al funzionamento di Radio e Tv Capodistria (le sorti ricadono nel calderone riguardante la Rtv di Slovenia e i tagli al canone). A questo punto il vulnus sembra molto grave a fronte di una malcelata mancanza di iniziativa da parte della Farnesina.



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