L'UNIONE SARDA - Economia: L'esercito dei senza
lavoro
LA NUOVA SARDEGNA - Economia: «Aiuti sospesi a
12.000 aziende»
La Basilicata è ricca: niente social card
Crisi, Giovannini: "Al Sud il peso
raddoppia: intervenire per creare sviluppo e occupazione"
Trst, oltrepadania est. Fermata la norma “salva
esuli e rimasti”
I neo-diplomati del Meridione vanno a studiare
al Centronord
Sempre più diffusa
la migrazione ante lauream
I dati in un saggio
di Serena Affuso e Gaetano Vecchione
Il Mezzogiorno perde
annualmente il 20% della sua popolazione universitaria potenziale, cioè uno
studente su cinque, mentre ne attrae solo il 2%, uno su cinquanta. In termini
assoluti, su 26.700 diplomati che ogni anno si iscrivono come fuorisede in un
ateneo di un’altra regione, 24 mila sono meridionali che si immatricolano nel
Centro-Nord. E in effetti, come è stato recentemente ricordato a Cernobbio,
dove pure si è discusso di questi temi, meridionali sono il 70% degli alunni
della Luiss di Roma, tanto per fare un esempio, o il 30% del campus economico
di Trento. I laureati che dal Sud vanno al Nord, gli studenti ormai formati,
sono invece 18 mila. E a questo punto verrebbe da aggiungere «solo» diciottomila.
Il che vuol dire che il Sud non ha neanche fatto in tempo a strapparsi i
capelli per i suoi cervelli in fuga che già deve fare i conti con un altro e
ben più vasto fenomeno: quello dell’emigrazione ante lauream, giacché ad
andarsene non sono solo i dottori e gli ingegneri, gli skilled, come ormai
vengono chiamati, ma anche i fratelli minori, quelli che hanno appena lasciato
i licei o gli istituti tecnici. Sulla base di questi e altri dati,
sapientemente raccolti ed elaborati da Serena Affuso e Gaetano Vecchione,
autori del saggio «Migrazioni intellettuali e Mezzogiorno d’Italia» a cura
dell’Ipe, Istituto per ricerche e attività educative, si può discutere, e
infatti si discute, se questa nuova ondata migratoria costituisca
un’opportunità per il Sud o se sia invece una sciagura; di conseguenza ci si
può dividere tra chi fa suo il punto di vista del brain drain, della fuga dei
cervelli e chi, invece, quello opposta del brain gain, dell’opportunità. Ma in
un caso o nell’altro, un dato è certo: le università meridionali fanno acqua da
tutte le parti, non attraggono più nessuno. E poiché l’università è da tutti
indicata come una realtà fondamentale per lo sviluppo socioeconomico, ecco che
il Sud su rivela, ancora una volta, massimamente inguaiato.
Il Sud più del
Centro-Nord paga le conseguenze di un errore madornale: quello di aver male
inteso il ruolo dell'università come driver della ripresa territoriale, di
averne minimizzato la portata, riducendola, in buona sostanza, a una questione
quantitativa più che qualitativa. Nel periodo 2003-2006, infatti, i comuni che
ospitavano almeno un corso di laurea di primo, secondo livello o a ciclo unico
sono passati, in Italia, da 217 a 251. Nel periodo successivo 2006-2010, per
effetto del calo di fiducia nell’università come strumento di elevazione
sociale, sono scesi invece da 251 a 222, sono cioé tornati al punto di
partenza. Risultato di questa giostra: il Sud è rimasto con il cerino in mano.
Ha le sedi universitarie, ne paga gli alti costi di gestione, ma non ha più
tutti gli studenti che aveva programmato di attrarre. Così mentre Lombardia e
Lazio registrano negli anni un numero di immatricolati in regione che è
superiore al numero degli immatricolati per residenza, la Campania vede una situazione
invertita per la quale il numero degli immatricolati campani (36.990) supera il
numero degli immatricolati in regione (32.527), condizione che contraddistingue
tutte le altre regioni del Sud a eccezione dell’Abruzzo. La Puglia è la quinta
regione in Italia per immatricolazioni residenti, mentre per quelle in regione
non figura neanche tra le prime otto. In Puglia il saldo migratorio degli
studenti è di meno 6.650, in Calabria di meno 5.015, in Campania di meno 4.464,
in Sicilia di meno 3.209, in Basilicata di meno 2.459. Saldi negativi si
registrano anche al Nord, ma a livelli molto più bassi: meno 1.380 in Veneto,
meno 500 in Liguria, meno 272 in Piemonte. A fronte di un calo complessivo
degli immatricolati, al Nord come al Sud, il numero degli studenti meridionali
che si immatricolano nelle regioni del Centro-Nord è diminuito in valore
assoluto rispetto al 2003, ma è aumentato in termini percentuali: ora, si è
detto, è del 20%, ma era del 17,52% . Deve poi far riflettere il fatto che tra
il 2003 e il 2010 la popolazione universitaria sia diminuita, complessivamente,
di circa il 16%, ma nell’ordine del 13,5% nel Centro-Nord e del 19,4% nel
Mezzogiorno. Come reagire? Certo, nessuno può pretendere dalle nostre
università di portarsi rapidamente all'altezza di quelle esistenti in regioni
come l’Emilia-Romagna, la Lombardia e il Lazio, da anni le più attrattive in
assoluto. Ma di sicuro qualcosa si può fare subito.
Ad esempio,
suggeriscono gli autori del saggio, si possono studiare con attenzione le
performance del Piemonte e dell’Alto Adige, due regioni capaci di trasformarsi
in breve tempo da esportatrici a importatrici di capitale umano. Come hanno
fatto? Questo è un primo aspetto da approfondire. Un secondo punto più generale
riguarda invece le motivazioni dell’immigrazione. Quelle economicistiche,
suggerisce il saggio di Affuso e Vecchione, reggono solo fino ad un certo
punto. Dal 1980 al 2008, infatti, i differenziali di Pil procapite tra Nord e
Sud sono costantemente aumentati, eppure l'emigrazione dal Nord al Sud ha fatto
registrare impennate solo tra il 1984 e il 1990 e tra il 1994 e il 2000. Come
mai? Hanno pesato i contratti nazionali di lavoro che hanno equilibrato le
contribuzioni, certo. O le compensazioni assistenziali al Sud. Ma, in ogni
caso, questo e solo questo? In compenso, l’emigrazione qualificata è passata
dal 5 al 16%. E molti di questi laureati emigrati al Nord, più che rimettere
risorse, le hanno assorbite, almeno per molti anni. Non sono loro, insomma, che
aiutano i genitori rimasti al Sud, ma viceversa. Viene così a confermarsi una
recente ipotesi non adombrata nel saggio: e se quella degli studenti e dei
giovani laureati che se ne vanno fosse una forma di rivoluzione silenziosa, di
spinta a cambiare le cose? Se fosse il rifiuto di un Sud assistito,
inefficiente, panpoliticizzato, clientelare e raccomandato? In questo senso, e
a ben vedere, la tesi del brain gain, quella dell’opportunità per il
Mezzogiorno, ben valutata ma non preferita da Affuso e Vecchione, potrebbe
risultare poi non del tutto campata in aria. Certo, si tratterebbe di una
opportunità culturale e non economica. Ma non per questo meno dirompente.
Marco Demarco
L'UNIONE SARDA - Economia: L'esercito dei senza
lavoro
06.11.2012
Se i numeri sono il miglior strumento per
fotografare la realtà, l'immagine che ci regala l'Osservatorio provinciale per
il mercato del lavoro è quella di un disastro: a Cagliari e dintorni i
disoccupati e gli inoccupati (cioè quelli che non hanno mai avuto un impiego)
sono 125.851. Un esercito in continua crescita (+5,3 per cento dal 2009 al
2011) e purtroppo impreparato alla guerra quotidiana per un posto di lavoro: il
titolo di studio più diffuso è quello della licenza media (58mila persone in
tutto, i laureati sono invece meno di 10mila), l'età media è alta (circa un quarto
degli iscritti al centro servizi provinciale ha tra i 35 e i 44 anni) e nel
Cagliaritano si campa sempre di più grazie agli assegni di cassa integrazione
(6.616 in tutto).
CONSIGLIO STRAORDINARIO Cifre che fanno
quasi passare in secondo piano il tasso di disoccupazione (13,2 per cento,
contro una media nazionale dell'8,4) e giustificano ampiamente lo «stato di
crisi» dichiarato ieri mattina dal Consiglio provinciale con un ordine del
giorno votato all'unanimità. Al dibattito straordinario hanno partecipato i
rappresentanti delle categorie protagoniste di questo bagno di sangue, che
hanno indicato i motivi del tracollo che nel 2011 lasciato 3.229 persone senza
un impiego: «Quando dobbiamo cambiare un macchinario nelle nostre aziende
dobbiamo convocare 25 enti diversi. Partiamo da qui per semplificare la vita
agli imprenditori», ha detto il presidente di Confindustria Alberto Scanu, che
ha concluso: «Le aziende falliscono per i troppi crediti che non riescono a
riscuotere e per il poco credito che ricevono dalle banche. Bisogna sostenere
l'edilizia, serve una nuova legge urbanistica o non andiamo da nessuna parte.
Bisogna anche riordinare l'architettura costituzionale. Magari questa sarà
l'ultima volta che ci troviamo in un Consiglio provinciale, almeno con queste
competenze». Gianfranco Lecca, presidente provinciale di Confapi ha invece
chiesto un'accelerata sulle Zone franche e sullo sviluppo del turismo,
ricordando: «Il 10 per cento dei nostri iscritti ricorre alla cassa
integrazione: si tratta di 60 aziende, per un totale di 400 dipendenti». Uno
strumento che invece non hanno i lavoratori autonomi: «La nostra categoria non
ha l'aiuto degli ammortizzatori sociali: spesso siamo sommersi dai debiti, con
poche possibilità di ricominciare», ha aggiunto Maria Grazia Dessì, segretario
del Cna, che rappresenta il mondo dell'artigianato e le piccole e medie
imprese.
IL DIBATTITO In Consiglio provinciale sono
tutti d'accordo sul fatto che si sia toccato il fondo: «Si tratta di dati
preoccupanti, per quello che ci dicono in termini di povertà, e per quanto ci
allontanano dalla ripresa», ha spiegato il presidente della Giunta Angela
Quaquero, dopo la presentazione dei dati dell'Osservatorio fatta dall'assessore
alle Politiche del lavoro Lorena Cordeddu e dal presidente del Consiglio
Roberto Pili. Le possibili contromisure al disastro? «Turismo, zona franca,
valorizzazione di Molentargius». Michele Ruffi
LA NUOVA SARDEGNA - Economia: «Aiuti sospesi a
12.000 aziende»
06.11.2012
CAGLIARI «L’Unione europea prepara le nuove
regole per la transizione verso il prossimo Programma di sviluppo rurale
2014-2020 e, all’orizzonte, sembrano esserci novità poco piacevoli per
l’agricoltura sarda». Lo hanno detto il presidente regionale e il direttore
della Coldiretti, Marco Scalas e Luca Saba. «In un documento di indirizzo la
Commissione europea vorrebbe bloccare l’importante misura comunitaria
dell’Indennità compensativa per tutto il 2014, in attesa dell’approvazione
delle nuove regole. Siamo in una fase di transizione – ha spiegato Scalas – in
cui si studiano le regole per il passaggio dal corrente periodo di
programmazione al prossimo, in partenza nel 2014. Queste regole troveranno
attuazione in un provvedimento comunitario ad hoc, che disciplinerà la spendita
dei fondi residui dell’attuale Psr». «La Commissione – ha aggiunto Saba – sta
formalizzando le sue proposte, nelle quali leggiamo con preoccupazione
l’inserimento dell’Indennità compensativa tra le misure non finanziabili in
questo periodo di transizione». L’indennità compensativa – sostiene la
Colidretti – è un pilastro fondamentale dell’economia agricola sarda, poichè
sostiene gli imprenditori che operano in territori che l’Ue ha classificato
come svantaggiati e, quindi, a rischio d’abbandono. Oggi a beneficiare
dell’aiuto nell’isola sono circa 12.000 aziende che «con dedizione continuano a
coltivare, presidiandole, aree che altrimenti sarebbero lasciate a loro stesse,
con le prevedibili conseguenze di natura economica anche sotto il profilo del
governo del territorio».
La Basilicata è ricca: niente social card
Paradosso social
card: il bonus contro il disagio non sarà testato in Basilicata. Fuori dalla
convergenza, eppure record di povertà. E il sottosegretario D’Andrea spiega:
«Si tratta di provvedimento tattico»
06/11/2012 POTENZA - A dirla tutta, fanno sapere dai
palazzi romani del Governo, non è neanche una novità. La notizia che ieri è
stata diffusa da Repubblica, in realtà, «è persino datata». E siccome già
qualche mese fa fece scalpore apprendere che la nuova tornata di social card
terrà fuori la Basilicata, vale la pena ricordare - oggi come allora - la
motivazione alla base della scelta.
«In realtà è un criterio tecnico. Il
provvedimento è finanziato con fondi comunitari dedicati», spiega il
sottosegretario ai Rapporti col parlamento, il lucano Gianpaolo D’Andrea. Le
nuove social card saranno potenziate nelle quattro regioni del Sud, Campania,
Calabria, Sicilia e Puglia, che sono ancora nell’area convergenza. La
Basilicata no, è in fase di facing-out, sta uscendo dalle zone considerate a
rischio critico entro i confini comunitari.
Eppure, questa condizione non manca di marcare
un grande paradosso: da un lato la Basilicata che tende a svettare per crescita
positiva, per resistenza alla crisi, regione lontana dai tempi in cui era
dentro l’obiettivo uno delle politiche dell’Unione europea. Dall’altro la
Basilicata che svetta nelle classifiche Istat sulla povertà, quella in cui un
lucano su quattro non raggiunge la soglia minima di reddito considerato utile
alla sopravvivenza.La Basilicata resterà così fuori dalla diffusione massiccia
della nuova social card, lo strumento con cui il governo tecnico di Monti tenta
un argine al sempre più diffuso disagio sociale.
La social card - esperimento fallito tra
burocrazia e intoppi tecnologici nell’era di Tremonti - sarà adesso rilanciata
in dodici grandi centri di tutto il Paese (Milano, Roma, Torino, Firenze,
Venezia, Verona, Genova, Bologna, Bari, Catania, Napoli e Palermo). Inoltre,
sarà assegnata a tutti i cittadini con reddito inferiore ai 3.000 euro,
attraverso l’impegno dei Comuni, nelle quattro regioni del Sud di area convergenza.
Solo in queste quattro regioni la stima -
faceva notare ieri il quotidiano diretto da Ezio Mauro - è di un milione e 600
mila famiglia in difficoltà.
La vecchia card valeva circa 40 euro al mese
da investire nei supermercati: allo Stato costò circa 200 milioni di euro.
Questa volta, spiegavano le anticipazioni di
stampa nazionale, il Governo distribuirà questa forma di sostegno facendo
ricorso a parte del fondo statale per le Politiche sociali, ma soprattutto alla
rimodulazione del Fondo strutturale europeo (quello da cui, per questi capitoli
di spesa, la Basilicata è fuori).
Fin qui, il dato tecnico di criteri e
parametri di spesa. Ma sullo sfondo resta l’amarezza di quel paradosso. Non è
passato poi molto dalla diffusione degli ultimi dati Istat. Il quadro era
quello che veniva fuori dalla chiusura del 2011, l’anno considerato il peggiore
del periodo di crisi economica, quello che ha riportato indietro il Paese di
decenni su redditi e risparmi.
Con un Sud sempre più lontano, e la Basilicata
in testa, insieme a Sicilia e Calabria, per indice di povertà.
Ad agosto scorso il Rapporto annuale
dell’Istat non lasciava ampi margini al commento: lo scenario descritto
dall’indagine è più che critico.
I dati (riferiti al 2010) parlavano chiaro: al
Sud sono povere 23 famiglie su 100, al Nord 4,9. E’ sempre il Mezzogiorno
l’area del paese che soffre di più. E a Sud è la Basilicata la regione più
povera con un tasso del 28,3 per cento. Praticamente una famiglia su quattro al
di sotto della soglia di sopravvivenza. Ma per loro, almeno al momento, non ci
sarà social card.
Crisi, Giovannini: "Al Sud il peso
raddoppia: intervenire per creare sviluppo e occupazione"
"Regioni
dell'area troppo spesso divise"
Nel Mezzogiorno il
peso della crisi potrebbe "raddoppiare", perché non c'è una massa
critica di aziende esportatrici in grado trainare l'intera area fuori della
crisi" e le Regioni dell'area sono spesso divise. Lo afferma in una
intervista al Mattino il presidente dell'Istat, Antonio Giovannini,
sottolineando che ''se le regioni del Sud riescono a capire che quest'area del
Paese va rilanciata nel suo complesso e non singolarmente, vedranno attrarre
molti più investimenti stranieri di quello che si può immaginare''.
"Le previsioni sul Pil 2013 - aggiunge
Giovannini - ''sono in linea con quelle del Governo, che per il prossimo anno
ha sempre parlato di un -0,2%. E sono migliori di quelle di altre
organizzazioni, ad esempio l'Fmi. Quindi l'idea che nel corso del 2013, nel
secondo o terzo trimestre, si torni in territorio positivo e' una possibilità
anche per noi credibile sia pure non sufficiente ad avere un risultato finale,
su base annua, altrettanto positivo''. A ''spingere, anche per l'anno prossimo
saranno le esportazioni''. Ma per la ripresa anche nel Mezzogiorno ''dobbiamo
intervenire su tutto ciò che crea sviluppo e occupazione''.
Trst, oltrepadania est. Fermata la norma “salva
esuli e rimasti”
La Camera giudica
inammissibili gli emendamenti presentati per ripristinare i fondi. Rosato:
«Faremo immediato ricorso»
di Mauro Manzin
TRIESTE. Brutte
notizie da Montecitorio per i finanziamenti destinati alla minoranza italiana
in Slovenia e Croazia e alle associazioni degli esuli in Italia. Nella serata
di ieri, infatti, la presidenza della Camera ha dichiarato «inammissibili»
tutti gli emendamenti presentati praticamente da tutti i gruppi parlamentari
con i quali si richiedeva il ripristino dei fondi. La vicenda però non si
chiude qui. «Presenteremo appello entro domani mattina (stamane ndr.)- dichiara
il deputato del Pd, Ettore Rosato - perché gli emendamenti siano accettati,
lavoreremo per questo in collaborazione con uno dei due relatori della legge di
stabilità che è il deputato del Partito democratico, Pierpaolo Beretta».
A questo punto però
la situazione sembra appesa a un filo. Lo stesso ministro degli Esteri, Giulio
Terzi di Sant’Agata ha dichiarato che il suo ministero aveva ripresentato i
finanziamenti che però successivamente erano stati cancellati nella
predisposizione della legge Finanziaria e ha detto che ora la responsabilità
passa al Parlamento. Parlamento che non si è fatto pregare visto che in un
clima assolutamente bipartisan, secondo gli schieramenti tradizionali, pronti
sono scattati gli emendamenti per il ripristino dei fondi.
L’erogazione dei
finanziamenti, lo ricordiamo, sono di vitale importanza vuoi per i nostri
connazionali che vivono in Croazia e Slovenia, vuoi per le associazioni degli
esuli. Come ribadito dagli organi istituzionali dell’Unione italiana il taglio
determinerebbe un drastico ridimensionamento di tutte le attività in calendario
con grave nocumento per i settori della scuola e della cultura e
provocherebbero altresì la perdita di una cinquantina di posti di lavoro.
L’Unione italiana ha inviato una circostanziata lettera alla commissione
Bilancio della Camera in cui vi era il dettagliato elenco delle attività che
sarebbero state annullate se i finanziamenti non fossero stati erogati. Ma,
visto il decorso dei fatti, sembra che l’appello sia caduto nel vuoto.
La decisione avrebbe
comunque anche un importante risvolto internazionale. Solo pochi giorni fa alla
riunione del Comitato dei ministri di Slovenia e Italia a Brdo pri Kranju il
ministro degli Esteri Terzi aveva ribadito l’assoluto interesse prioritario
dell’Italia nei confronti dell’unica minoranza autoctona che vive fuori dai
confini della madrepatria.
E, bisogna altresì
dire, che la Slovenia, pur vivendo una condizione economica catastrofica ha
confermato i finanziamenti per la minoranza italiana e quella ungherese
presenti sul suo territorio lasciando però aperti i temi relativi al
funzionamento di Radio e Tv Capodistria (le sorti ricadono nel calderone
riguardante la Rtv di Slovenia e i tagli al canone). A questo punto il vulnus
sembra molto grave a fronte di una malcelata mancanza di iniziativa da parte
della Farnesina.
http://ilpiccolo.gelocal.it/cronaca/2012/11/06/news/fermata-la-norma-salva-esuli-e-rimasti-1.5978538
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