Lunedì 02 Aprile 2012 11:02
Scritto da Domenico Bonvegna
Sto presentando il libro di Tommaso Romano, Sicilia 1860-1870. Una storia
da riscrivere, edito da Isspe. Prima della rivolta di Palermo occorre
ricordarne altre come quella del 19 marzo 1866 di Canicattì, di Monreale, dove
i rivoltosi esibivano come loro simbolo il Crocifisso, il ritratto di Francesco
II, del Papa, le bandiere gigliate e tricolori senza stemma sabaudo. Altri
centri insorsero come Villabate, Bagheria, cruenta l’insurrezione di Misilmeri
a pochi chilometri da Palermo, dove i rivoltosi gridavano BeddaMatri, viva la
Religione, Viva S. Giusto. Dal 22 settembre al 2 ottobre si svolsero ad
Adernò(l’odierna Adrano)le cosiddette cinque giornate. Infine, altre rivolte a
Santa Maria dell’Ogliastro, Villafrati, Bisacquino, Piana dei Greci e tanti
altri centri. “Comune a tutti gli insorti era quindi il nemico principale
contro cui insorgere e contro cui ribellarsi e che il popolo, senza tante
disquisizioni ideologiche o istituzionali, sentiva come il morso impellente che
l’attanagliava, insieme alla nuova povertà frutto anche di un liberalismo
economico e centralista che privilegiava solo i possessori di capitali, i
grandi manovratori di interessi, gli usurai che pure erano attivissimi, i nuovi
capitalisti alleati con gli inglesi anche in Sicilia, trasformisti che da
repubblicani e federalisti, come Crispi, si ‘scoprirono’ monarchici e
unitaristi”. (pag.127)
Ritorniamo alla rivolta del “Sette e Mezzo” a Palermo, il generale
Cadorna ammise che dal momento dell’inizio della rivolta “le bande siano
rimaste padrone della città, eccettuato il forte di Castellamare, il carcere,
le finanze, il palazzo reale ed il palazzo di città, che restarono sotto il
controllo dell’autorità militare”.Le principali vie di Palermo erano in mano
gli insorti. “Scontri violenti si svolsero in quei giorni fra gli insorti e le
truppe di Masi, Angioletti e Riboty (quest’ultimo alla testa dei marinai)
particolarmente nella zona dell’Orto Botanico, di Piazza Marina, dei Quattro
Canti di Campagna. Dal convento di San Francesco di Paola si aprì il fuoco
contro i governativi - scrive Romano – al comando del generale Cadorna per
sedare la rivolta, gli effettivi raggiunsero la quota di 40.000 uomini.
Inoltre, la città fu cannoneggiata dalle navi della Regia Marina ed anche da
una nave inglese (!) presente nel porto di Palermo”. (pag.143)
In quei giorni Palermo fu teatro di una guerriglia vera e propria, “la
città fu un campo di battaglia, con larga partecipazione di tutti i ceti
sociali alla rivolta, ma con preponderanza del ceto popolare e con significativa
presenza di religiosi, lo stesso Cadorna attesta infatti che ‘parecchi frati
hanno preso parte nei combattimenti, in mezzo alle squadre di malandrini”. Gli
insorti gridavano indifferentemente nelle strade viva la Repubblica, evviva
Santa Rosalia e i monasteri, Evviva Francesco, innalzando bandiere rosse e
bianche, il crocefisso e gli stendardi delle Confraternite defraudate dalle
leggi avversive”. (pag.145) L’ideologo della rivolta, secondo Romano fu
monsignor Gaetano Bellavia, borbonico noto a Questure e Prefetture e poi
naturalmente Vincenzo Mortillaro. Le operazioni della rivolta erano in mano a
Francesco Bonafede. Alla fine della rivolta si contarono un migliaio di morti
tra i rivoltosi, i caduti governativi invece furono circa 200, 87 feriti gravi
e 142 leggeri. Dopo la rivolta si registrarono atti di brutale violenza,
crudeltà e vendetta da parte dei regi, con uccisioni indiscriminate. Il 25
dicembre il Questore di Palermo ripristinò la famigerata “carta di
circolazione”, un passaporto interno, per delimitare i quartieri palermitani,
oltre i quali il documento era necessario. A conclusione del capitolo VIII, il
professore Romano fa parlare Salvatore Natoli e Maria Rosaria De Stefano Natoli
che nel loro libro, La Nazione che non fu, scrivono: “sei anni dopo
l’annessione, la situazione siciliana di quel momento ha molte analogie con le
guerre di insurrezionedella Vandea e la rivolta del Sette e Mezzo ha molti
punti in comune con la battaglia di Savenay specie nelle cause; anche il fatto
scatenante è l’obbligo di leva per trecentomila francesi: è il 1793,
settantatré anni prima”. Dunque le sette giornate di Palermo del 1866 non
possono essere ridotte a un episodio anarcoide o di malandrinaggio collettivo,
certamente si trattò di vera Insorgenza popolare. (pag. 156)
Il libro di Romano dà molto spazio alla repressione e all’azione
anticlericale contro la Chiesa del nuovo governo sabaudo piemontese. Le vere
vittime della rivoluzione risorgimentista furono le case, gli istituti
religiosi, i monaci,le monache e i sacerdoti.“Mai in Sicilia, scrive Maria
Teresa Falzone, se si esclude il periodo della dominazione araba, vi era stata
una soppressione così violenta e di così ampia portata”. Il nuovo regno
d’Italia, attraverso leggi di spoliazione e di laicizzazione colpì pesantemente
la Chiesa in Sicilia e proprio queste leggi “furono ulteriori causa di
malcontento e indignazione popolare che sfociò in insorgenze vere e proprie,
per ciò che si appalesava come un attentato alla fede millenaria, alla tradizione,
all’identità profonda e alla stessa sussistenza che le opere di carità della
Chiesa favorivano per migliaia di persone con il lavoro nelle chiese e nelle
istituzioni cattoliche (circa diecimila persone solo a Palermo).
Sulla soppressione (sarebbe più esatto scrivere ladrocinio) degli
istituti religiosi, il più esaustivo e mirabile studio-ricerca è quello di
Salvatore Cucinotta, col suoSicilia e Siciliani. Dalle riforme borboniche al
rivolgimento piemontese. Soppressioni (Edizioni Siciliane, Messina, 1996).“Un
volume di oltre settecento pagine ignorato dagli storici conformisti che
nonostante abbia veramente colmato una grave lacuna risulta tuttavia assai
difficile da reperire”. Io molti anni fa ne ho visto una copia a padre Giuseppe
Tatì a S. Alessio.
Vittorio Emanuele II, il 18 febbraio del 1861, ai 47 deputati siciliani
ricordò la necessità di nuovi fonti finanziarie, che significava che “non solo
si attingeva alle riserve auree copiose sottratte dall’ex Regno delle due
Sicilie, ma si puntava al cuore delle casse e del vasto patrimonio della Chiesa
per armare lo Stato, imporre la lunghissima e costosa coscrizione obbligatoria,
onde usarla contro i briganti e i legittimisti del Sud”. (pag. 180)Non solo ma
la finalità del nuovo Regno, a detta di molti suoi esponenti, era la completa
laicizzazione dell’Italia, per Romano, ma anche per tanti altri studiosi e
storici cattolici, si puntava dritti al cuore della Cristianità, per
disintegrarla e poi annientarla. “Non sarà inutile ricordare che nel 1860 ben
sessanta vescovi furono cacciati dalle loro diocesi nel Meridione perché
accusati di legittimismo filo-borbonico e che, nel 1863, finirà in carcere per
aver difeso i diritti del Papa Pio IX, il vescovo di Spoleto Giovanni Battista
Arnaldi. Destino che toccherà nel 1867, anche al vescovo di Monreale, Benedetto
D’Acquisto”. Con le leggi sulla soppressione- cancellazione di tutti gli ordini
religiosi, secondo il Cucinotta, furono calpestati i principi del diritto
naturale, dello Statuto e del Codice Civile (…)L’obiettivo era -sempre secondo
Cucinotta – di azzerare quel tessuto socio-religioso che per secoli, in unità
di libero e gratuito servizio, aveva unito il laicato e il mondo religioso, per
cui con le soppressioni, in Sicilia non vi è più storia della Chiesa come
storia della società”. (pag. 188)
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