mercoledì 10 novembre 2010

Crisi, il 62% dei posti si è perso nel Meridione


9 novembre 2010, di Patrizio Mannu da il Corriere del Mezzogiorno.
Il tributo più alto alla crisi in termini di posti di lavoro persi l’ha pagato il Mezzogiorno: in due anni sono andati in fumo 361 mila posti di lavoro (vale a dire oltre 15 mila al mese), avendone il resto d’Italia persi 213 mila. Tre su cinque, così, vengono dal Sud; uno su 5 dalla Campania (121 mila in valori assoluti fra il 2008 e il 2010; -7,1%): l’emorragia più copiosa a livello nazionale; un po’ meno grave il caso pugliese: 90 mila posti persi (-6,8%) nello stesso periodo. In un rapido giro di cifre il mito che si sfata diventa presa in giro: quante volte governo e analisti ci hanno raccontato che la crisi ha mietuto occupati più al Nord, visto che lì c’è la maggiore concentrazione industriale? Ebbene, Bankitalia ha svelato le gambe corte della bugia presentando ieri il rapporto congiunturale dell’economia campana (il report pugliese è pubblicato sul sito regionale). Il quadro che ne viene fuori disegna una Campania che ha probabilmente esaurito tutte le speranze, anche se il direttore della sede campana Sergio Cagnazzo parla di «tenue luce in fondo al tunnel» ma che non equivale per nulla al panorama pre-crisi. Insomma, c’è ancora da masticare amaro. Secondo il report della banca centrale, a giungo, il tasso di disoccupazione si è attestato al 14,3%. Un dato che tuttavia, come sottolineato da Giovanni Iuzzolino, responsabile divisione Analisi e ricerca, «misura solo una parte dello scarso utilizzo della forza lavoro disponibile». Secondo le stime, infatti, se al numero di disoccupati si aggiungessero i cassintegrati e tutti coloro che un lavoro ormai non lo cercano più, il tasso di «lavoratori disponibili ma non utilizzati» si attesterebbe al 22% «pari al doppio della media nazionale». Ma non solo. Negli ultimi 15 trimestri, l’occupazione è calata 14 volte e a farne le spese soprattutto giovani e donne. E proprio il livello di inoccupazione femminile in Campania, aggiunge Iuzzolino, «è straordinariamente elevato rispetto a tutte le altre aree del mondo dalle quali possono ricavarsi dati». La flessione occupazionale rilevata è stata «più intensa» nella componente del lavoro autonomo (-2,4%) e si è concentrata soprattutto nell’industria (-15,1%), nell’agricoltura (-5,1%) e nel commercio (-3,7%). Nel primo trimestre dell’anno, il tasso di occupazione della popolazione in età da lavoro è stato pari al 39,9 per cento, valore «più basso tra le regioni italiane» e in calo di 0,7 punti percentuali rispetto al 2009. La mancanza di un lavoro, il più delle volte, si traduce in un avvicinamento alle soglie di povertà. Secondo Bankitalia in Campania il 25% delle famiglie (che rappresentano il 28% della popolazione) vive in uno stato «di grave disagio economico». Un dato che si discosta da quello nazionale che, invece, nelle rilevazioni degli ultimi 5-6 anni, come spiegato, si mantiene stabile e attorno al 10-12%. E l’industria? Secondo il sondaggio congiunturale, tra settembre e ottobre su un campione di aziende con almeno 20 addetti, in relazione al fatturato, per il 36% delle imprese è aumentato, ma per il 28% è in calo; il 31% ammette di aver diminuito la spesa per investimenti, solo il 13 gli ha aumentati; positiva la valutazione da parte delle imprese in merito alle condizioni di accesso al credito: il 68% delle aziende, non ha ravvisato un inasprimento, a differenza di quanto sostenuto dal restante 32%, percentuale tuttavia in diminuzione rispetto al 2009 in cui tale percentuale era del 35,8%. La politica può far qualcosa? «Le risorse sono poche — commenta Iuzzolino — ma possono essere spese meglio pur matenendo parità di bilancio».
Fonte:
http://www.napolionline.org/new/crisi-il-62-dei-posti-si-e-perso-nel-meridione?utm_source=feedburner&utm_medium=feed&utm_campaign=Feed%3A+Napolionline-LaCittaVistaDaDentro+%28Napolionline+-+la+citta+vista+da+dentro%29


Sconfessata la tesi dominante
9 novembre 2010, di Luca Bianchi da il Corriere del Mezzogiorno.
I dati contenuti nei rapporti congiunturali intermedi di Bankitalia pongono in evidenza quanto alto sia stato il prezzo pagato in questa crisi dalle regioni meridionali sul fronte dell’occupazione. Più del 60% delle persone che hanno perso il lavoro nei due anni di crisi (tra la metà del 2008 e la metà del 2010) era impiegata al Sud, dove invece si concentra circa un quarto dell’occupazione italiana. Parliamo di 361 mila posti di lavoro persi al Sud su un totale nazionale di 574 mila. Nella sola Campania siamo in presenza di una vera e propria decimazione del già asfittico mercato del lavoro: -121 mila occupati, un crollo del tasso di occupazione dal 43,2 al 40%. Non sta meglio l’altra grande regione del Sud, la Puglia che ha lasciato a spasso circa 90 mila occupati e 4 punti di tasso di occupazione, sceso al 44,7%. Eppure la storia che ci è stata raccontata in questi mesi è stata soprattutto quella della crisi del settore produttivo del Nord. Anzi, molti pensavano che il Sud assistito fosse protetto proprio dalle sue debolezze e quindi poco sensibile al ciclo internazionale. Invece, è proprio in questa area, peraltro in declino ormai da diversi anni che le molte piccolissime imprese, spesso dipendenti da sub-forniture di imprese del Nord in difficoltà, sono state escluse dal mercato. Ed espulsi sono stati i tantissimi precari, senza alcuna tutela, pagando un costo elevatissimo sul piano sociale. L’abitudine a leggere la dinamica congiunturale sulla base dei dati della cassa integrazione ha finito per trarre in inganno, e far confondere una più forte «debolezza» del Sud nella crisi con una maggiore «protezione» dalla crisi. Se incrociamo infatti i dati della cassa integrazione con quelli dell’occupazione ci accorgiamo come il sistema di ammortizzatori abbia attutito l’impatto della crisi al Nord, garantendo circa 3 lavoratori su 4, lasciando invece senza paracadute 2 lavoratori su 3 al Sud. Un sistema squilibrato, peraltro largamente finanziato con fondi sottratti alle aree sottoutilizzate: la più grande operazione di solidarietà territoriale alla rovescia, di cui nemmeno i meridionali sembrano essere del tutto consapevoli. La stessa discussione meridionalistica, del resto, verte su temi pure decisivi (come gli sprechi delle pubbliche amministrazioni e le riforme — come il federalismo— dagli esiti incerti e i tempi necessariamente lunghi) ma elude il tema decisivo e urgente: il lavoro. Cioè, quali politiche «attive» mettere in campo per allargare la base lavorativa meridionale, soprattutto verso settori e capitale umano qualificati. In fondo, il modo di rispondere alle recenti sollecitazioni di Mario Draghi, non può che essere un piano di interventi mirati all’occupazione dei giovani (e delle donne) ad alta scolarizzazione, attraverso crediti d’imposta e aiuti all’auto-impiego, a gravare su un fondo specifico da finanziare con risorse regionali, nazionali ed europee. Un accordo simile a quello definito per gli ammortizzatori sociali, ma che stavolta avrebbe effetti territoriali a vantaggio del Sud. E non sarebbe (solo) una maniera per riportare un po’ di equità nel Paese. Servirebbe alla crescita di tutti.
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