domenica 20 febbraio 2011

Politica economia e Finanza pubblica, 20 febbraio 2011

1. Banche europee sotto stress Dalla Bce altri 16 miliardi.
2. Il colpevole? La fragilità del sistema.
3. Una salutare frenata federale.
4. Cina: crescono i ricchi, nel 2015 saranno 201 mln.
5. Italia, si risparmia su tutto ma non su bar e ristoranti.
1. Banche europee sotto stress Dalla Bce altri 16 miliardi. Morya Longo. «Gira voce che le banche spagnole siano sotto stress», riferiscono da una sala operativa. «Sono le tedesche, sono le tedesche!», ribattono invece gli operatori in Spagna. «Secondo me i problemi di liquidità sono in Germania», afferma un altro trader. Il gioco del «chi è il prossimo in crisi» è tornato di moda tra le sale operative: dopo la notizia che mercoledì notte qualche imprecisata banca ha preso in prestito dal "bancomat" d'emergenza della Bce ben 16 miliardi di euro, è partita la caccia all'istituto in difficoltà. Caccia rinvigorita dal nuovo dato diramato ieri dalla Bce, secondo cui anche giovedì le banche europee hanno preso altri 16 miliardi d'emergenza. Dato che nessuno prelevava così tanto attraverso il "bancomat" dal 2009, dopo il crack di Lehman Brothers, sul mercato è scattato l'allarme: c'è qualcuno in affanno? Siamo all'alba di una nuova crisi bancaria? Sul mercato girano due ipotesi: la maggior pare degli operatori pensa in realtà che si sia trattato di un errore, altri sono invece convinti che da qualche parte (Grecia? Spagna? Germania? Irlanda?) ci siano istituti veramente in difficoltà.
Prima di esaminare queste due ipotesi, bisogna fare un passo indietro. Le banche hanno tre canali per prendere soldi a breve termine. Il primo è rappresentato dal mercato interbancario: ieri chi avesse chiesto denari per una notte (overnight) o per una settimana avrebbe pagato tassi d'interesse poco sopra lo 0,5-0,6%. Il secondo è rappresentato dalle aste settimanali (o con altre scadenze) della Banca centrale europea: ogni martedì Francoforte presta alle banche qualunque ammontare di denaro al tasso fisso dell'1%. Il terzo canale è invece il "bancomat" d'emergenza (chiamato dai tecnici marginal lending facility): uno "sportello" che eroga denaro al tasso dell'1,75%. Insomma: un "bancomat" costosissimo e proprio per questo usato solo come ultima spiaggia. Per le emergenze. Perché, dunque, qualcuno ha improvvisamente prelevato 16 miliardi? Due sono le ipotesi.
Ipotesi uno: crisi in vista
La prima è quella che da qualche parte, in Europa, ci siano banche in crisi di liquidità. In realtà questa è un'ipotesi minoritaria (in effetti anche in Borsa non c'è stata qualche banca particolarmente penalizzata), ma è stata avvalorata da una fonte anonima citata dalla Reuters. Ed è stata rafforzata da un dato di fatto: è vero che in Europa ci sono tanti sistemi bancari in difficoltà. Non da oggi.
Si pensi che gli istituti di Grecia, Portogallo e Irlanda (che secondo i calcoli di Barclays rappresentano rispettivamente l'1,5%, l'1,6% e il 5,5% degli attivi totali delle banche europee) incassano il 17%, il 7% e il 24% di tutti i finanziamenti erogati dalle Bce. Questo significa che le banche di questi paesi hanno ormai strutturalmente un unico – o pressoché unico – canale di finanziamento: la banca centrale. Insomma: senza la "mamma" a Francoforte che presta loro tutti i soldi di cui necessitano, queste banche faticherebbero a stare in piedi da sole. Ma la crisi di questi paesi non è certo una novità: proprio ieri la Bce ha comprato titoli di stato portoghesi, nel suo piano di sostegno a queste economie.
Ipotesi due: l'errore
Il fatto che ci siano sistemi bancari dipendenti dalla Bce non spiega però il prelievo d'emergenza di mercoledì e giovedì. Anzi: da un lato le due cose sono in contraddizione. Proprio martedì, infatti, la Bce aveva organizzato un'asta in cui aveva prestato a 253 banche europee ben 137 miliardi di euro al tasso dell'1%: qualunque banca, in crisi o no, avrebbe potuto prendere tutti i soldi possibili e immaginabili in quell'occasione. Che senso avrebbe avuto non chiederli in asta all'1%, per poi prelevarli al "bancomat" d'emergenza pagando quasi il doppio? È come se una famiglia che potesse indifferentemente scegliere tra un mutuo al tasso del 4% e uno al tasso del 9%, optasse per quello più caro. Non avrebbe senso.
Ecco perché l'ipotesi più accreditata tra gli addetti ai lavori è quella dell'errore. È possibile che martedì qualche banca abbia sbagliato a chiedere soldi in asta alla Bce (magari digitando 1,75 miliardi invece che 17,5), per cui il giorno dopo si sia trovata a "corto" di denari e sia stata costretta a prelevarli dal "bancomat" d'emergenza. Ipotesi avvalorata dalla nuova richiesta di circa 16 miliardi giovedì: dato che il "prelievo" d'emergenza dura una notte e l'asta una settimana, si può supporre che fino a martedì prossimo la banca distratta continuerà a prendere i 16 miliardi all'1,75%. Che sia questa la verità? In realtà nessuno può dirlo, perché solo la Bce (che non fornisce indicazioni) oppure la banca in crisi/distratta (che non ha alcun interesse a venire allo scoperto) possono conoscere la verità. Gli altri tirano solo ad indovinare.
2. Il colpevole? La fragilità del sistema. Fabio Pavesi. MILANO. Madrid, Atene, Dublino, forse Lisbona e perché no qualche capitale di Land tedesco. La caccia all'indizio sulla banca o le banche che possono aver avuto bisogno di un salvagente dalla Bce non può che concentrarsi qui. Niente di imprevisto. L'anello debole del sistema bancario europeo cinge la periferia del Continente, con una puntata nel cuore di Germania per le difficoltà palesate dalle banche regionali tedesche. Tra gli imputati da tempo sotto osservazione la Spagna, in particolare le sue Cajas, le casse di risparmio locali. Non è casuale che il Governo di Zapatero abbia non più tardi di poche settimane fa ammesso la necessità di ricapitalizzazione per l'insieme delle casse stimato in 20 miliardi. Valori ritenuti bassi da molti analisti. Per Credit Suisse la necessità di capitale per le Cajas dovrebbe essere di almeno 50 miliardi. A cui vanno aggiunti 37 miliardi di cui avrebbero bisogno le Landesbank tedesche. Ma è la Spagna su cui si concentrano le attenzioni per le difficoltà dell'economia e del mercato immobiliare cui gli istituti iberici sono fortemente esposti. Il nodo di Madrid sono le perdite potenziali celate nei portafogli crediti. La Banca di Spagna nei mesi scorsi aveva quantificato le sofferenze sui prestiti dell'universo bancario in 100 miliardi di euro, il 5,5% del totale dell'esposizione creditizia. Un livello che non si vedeva dal '96. Fin qui i dati ufficiali, preoccupanti ma tutto sommato sotto controllo. I calcoli della banca centrale però non tengono conto, come rileva uno studio di Ubs, di tutti i prestiti dubbi su cui c'è un rischio concreto di non rientro da parte dei debitori. Calcolato così il rischio perdite sale dal 5,5% a oltre il 10% del totale dei crediti. Del resto il settore immobiliare assorbe prestiti per il 40% del Pil spagnolo, un livello pari a 4-5 volte la media degli altri paesi dell'eurozona. Barclays Capital dipinge uno scenario ancora più pessimista che arriva a prevedere ben 200 miliardi di buco nei conti degli istituti. Anche Moody's mette il dito sul fragilissimo sistema delle casse di risparmio per le quali, nello scenario peggiore, giunge a stimare un rosso nei conti delle Caixa di ben 140 miliardi di euro.
La stessa Moody's guarda con preoccupazione anche a Dublino. Nei giorni scorsi l'agenzia di rating ha declassato a junk i rating di tutte le banche irlandesi, dopo la scelta del governo di posticipare a dopo le elezioni l'aumento di capitale degli istituti di credito in gran parte agonizzanti.
Il costo diretto del salvataggio pubblico delle banche irlandesi è salito ormai a 45 miliardi di euro. Ma è la progressione della voragine apertasi nei conti di due degli istituti a gettare una luce sinistra su come le banche hanno gestito i loro bilanci negli ultimi anni. Anglo Irish Bank ha cumulato oltre 20 miliardi di euro di perdite negli ultimi 15 mesi dopo che a fine 2008, pochi giorni prima di venire nazionalizzata, presentava conti brillanti. Copione identico per Allied Irish Bank. Conti brillanti a fine 2008 con utili per 720 milioni su 5 miliardi di ricavi. Poi l'abisso con perdite per 2,6 miliardi in pochi mesi e stime che indicano un rosso di bilancio a fine 2010 per 5 miliardi su ricavi scesi a non più di 3,5 miliardi. C'è infine il capitolo greco: alle difficoltà di bilancio per tutti gli istituti dovute al calo degli impieghi si aggiunge il peso dei bond ellenici in pancia alle banche di Atene. Valori che valgono in media 1,5 volte il patrimonio netto degli istituti. Una perdita ulteriore di valore dei titoli pubblici di Atene avrebbe effetti pesanti sui conti delle banche. E non è un caso che siano proprio le banche greche insieme a quelle irlandesi a rivolgersi con più assiduità al rubinetto della Bce con importi che viaggiano sui 100 miliardi per Atene e 130 miliardi per Dublino.
3. Una salutare frenata federale. Innocenzo Cipolletta. La frenata del Parlamento al cosiddetto "federalismo municipale", che non ha superato il vaglio della Commissione bicamerale, è stato un evento positivo. Avrebbe dovuto essere festeggiato soprattutto da quanti, come la Lega, si dichiarano favorevoli al federalismo. In quel provvedimento di federalismo non c'era nulla e si rischiava solo di creare aspettative che poi sarebbero andate deluse, carichi fiscali maggiorati in particolare per le imprese (che hanno il torto di non votare alle elezioni locali), sfondamenti di spesa pubblica con riflessi pesanti per tutti i cittadini e per il paese.
Si continua a dire, da parte della Lega e del governo con tanto di conferenze stampa, che con il federalismo ci sarà maggiore trasparenza perché gli elettori potranno alfine giudicare gli eletti sulla base di quello che sapranno fare con le tasse raccolte sul territorio. Ma questo non è affatto vero. I provvedimenti che vanno sotto il nome di federalismo hanno poco a che vedere con il federalismo di cui si parla.
Gli enti locali (regioni, province e comuni) avranno, forse, una compartecipazione (questa è la parola usata nei decreti fiscali del governo) alle imposte nazionali, sulla base di parametri locali (numero di abitanti, reddito, eccetera). In altre parole, continueremo come prima a pagare le nostre tasse di sempre (Irpef, Ires, Iva, eccetera) allo Stato, che poi le suddividerà agli enti locali: né più né meno di quanto già avviene ora. La sola differenza (di nessun conto) è che verrà predeterminato il tipo e l'ammontare d'imposta che verrà distribuito agli enti locali. Appunto la "compartecipazione" alle tasse dello Stato. Ossia il cittadino paga allo Stato e gli enti locali si spartiscono parte di quei soldi.
È questo il federalismo? È questo il federalismo fiscale? No, perché federalismo fiscale implica tasse locali proprie e autonomamente determinate dalle regioni sui propri contribuenti. Lo Stato al massimo può fare opera di necessaria perequazione per le regioni più povere. Con un articolo pubblicato su questo giornale il 29 dicembre 2010, parlai di «imbroglio federale» a proposito di queste leggi. Più severo di me e con maggiore competenza si è espresso il presidente della Corte costituzionale Ugo De Siervo che (come riportato dal Sole 24 Ore del 5 febbraio) ha parlato di «bestemmia» a proposito di federalismo municipale e di «abuso linguistico», perché la legge che si voleva approvare altro non era che una semplice «legge di autonomia finanziaria dei comuni», che nulla ha a che vedere con il federalismo.
Che dire poi del fatto che l'Italia si avvia, a stare ai propositi del Parlamento, non già a essere uno Stato federale, ma più Stati federali sovrapposti sullo stesso territorio? Infatti si parla da noi di "federalismo regionale" assieme al "federalismo municipale". Immagino che ci sarà anche un "federalismo provinciale" e, forse, in futuro, quello per rioni, quartieri e contrade. Anche in questo caso si sta pericolosamente giocando con le parole. Stiamo attuando una banale forma di decentramento e di autonomia finanziaria locale su più livelli che è implicita nella nostra Costituzione. E lo stiamo facendo molto male perché ci si ostina a dare al tutto una parvenza di federalismo. Che senso ha introdurre sistemi di compartecipazione a specifiche imposte che sono state concepite per essere nazionali? Che senso ha dibattere per distribuire con parametri locali poche entrate nazionali quando l'azione di redistribuzione e di perequazione dovrà essere comunque gigantesca, date le forti diversità nel territorio italiano?
Non era meglio ragionare su come distribuire le risorse sul territorio per garantire a ogni ente locale di adempiere alla propria missione ponendo degli standard ai servizi da erogare? Questi standard verranno comunque posti dal nostro pseudo-federalismo. Ma allora, se tutti gli enti locali dovranno adeguarsi a questi standard nella loro spesa, perché perdere tempo e creare confusione e distorsioni andando a definire quali sono le compartecipazioni di singoli gettiti di specifiche imposte? E, se veramente si voleva dare una qualche autonomia locale, non era meglio creare una vera imposta locale liberamente a discrezione degli enti locali?
Tutto quello che si è fatto sotto l'etichetta del federalismo non significa affatto che stiamo facendo uno storico salto verso uno Stato federale dai gloriosi orizzonti, come si pretende. E non si capisce perché si debbano imbrogliare gli italiani. Forse si pensa che siano tutti ignoranti e che basterà loro la vittoria-simbolo di un federalismo mai realizzato?
Con tutti i problemi che ha oggi l'Italia e con la necessità e urgenza di rilanciare la crescita, di ridare spazio ai redditi delle famiglie tagliati dalla crisi, di offrire una qualche prospettiva alla massa di giovani disoccupati, non è proprio il caso di spendere soldi e energie per questa farsa.
4. Cina: crescono i ricchi, nel 2015 saranno 201 mln. 11:39 19 FEB 2011. (AGI) - Roma, 19 feb. - Continua l'ascesa della classe benestante cinese che si espande a ritmi incessanti al punto che nel 2015, tra appena 4 anni, saranno numericamente pari a paesi come l'Italia, la Francia e la Germania messe insieme. E' quanto si evince da uno studio del Centro Studi di Confindustria. Per "classe benestante" (o "nuovi ricchi") si intende l'insieme di individui con un PIL pro capite di 30.000 dollari a prezzi del 2005 e a parita' di poteri di acquisto (PPA). Nel 2015 i cinesi benestanti ammonteranno a 201 milioni (il 14,5% della popolazione), una dimensione pari alla popolazione Francia, Germania e Italia messe assieme, dove la popolazione nel 2015 e' stimata a 206 milioni e il PIL medio pro capite a 32,738 dollari. Lo stesso ritmo di incremento sara' conseguito nei cinque anni successivi, cosicche' nel 2020 ci saranno 424 milioni di benestanti in Cina, il 29,8% della popolazione totale. Una grandezza paragonabile a quella di tutta la popolazione l'Europa Occidentale, stimata nel 2020 e' di 421 milioni con un PIL medio pro capite di 36,088 dollari (Global Insight, ottobre 2010).
  Nel 2010 si stimano 95 milioni di individui in Cina con un Pil pro capite di almeno 30mila dollari, il 7,1% dell'intera popolazione, una cifra superiore alla popolazione residente in Germania (81 milioni di individui con un Pil pro capite di 32.138 dollari nel 2010, stime Global Insight, ottobre 2010).
  Anche in termini di PIL, la rilevanza della classe benestante cinese raddoppiera' ogni cinque anni fino al 2020. Dati il numero di individui e il PIL pro capite medio di 30.000 dollari, il PIL totale attribuibile alla classe benestante nel 2010 era di 2.863 miliardi di dollari, il 4,2% del PIL mondiale. Nel 2015, grazie alla crescita dei redditi e della popolazione, raddoppiera' a 6.020 miliardi di dollari, il 7,1% del PIL mondiale. Nel 2020 raggiungera' i 12.710 miliardi, il 12,2% del PIL mondiale. Pure in termini di consumi privati, la rilevanza della classe benestante cinese piu' che raddoppiera' ogni cinque anni nel prossimo decennio. Il peso dei consumi privati sul PIL della Cina nel 2010 e' stimato a quasi il 36% (calcolato sui valori nominali). Se il Paese portera' a compimento gli obiettivi di stimolo della domanda interna, tale peso potrebbe raggiungere il 45% nel 2015 e il 50% nel 2020.
  Nel 2009, il consumo privato dell'intera Cina pesava l'8,0% su quello mondiale, calcolato a PPA e l'8,7% nel 2010. I consumi della classe benestante erano il 36% del PIL cinese nel 2010, 34,3% se valutato in dollari a prezzi del 2005 e PPA. Cio' corrisponde a 981 miliardi di dollari (il 34,3% di 2.863 miliardi, il PIL totale della classe benestante), ovvero il 2,6% dei consumi mondiali. Se nel 2015 il peso dei consumi sul PIL raggiungera' il 45% (40,6% in dollari a prezzi del 2005 e PPA), la classe benestante spendera' in consumi 2.442 miliardi, il 5,4% dei consumi mondiali, piu' che raddoppiando la quota in cinque anni.
5. Italia, si risparmia su tutto ma non su bar e ristoranti. 19 febbraio 2011. Anche in tempi di crisi l’italiano non rinuncia alla colazione al bar o alla pizza con gli amici e proprio il Bel Paese è il re dei consumi fuori casa in un’Europa che invece sceglie la strada più economica del consumo dentro casa. E mentre i consumi fuori casa sono stabili o in contrazione nei maggiori Paesi Ue negli ultimi dieci anni, l’Italia allarga la borsa, passando da 0,44 a 0,50 euro (+13,6%) nella spesa a bar e ristoranti rispetto ad ogni euro speso in consumi alimentari domestici. È quanto emerge da una ricerca di Fipe-Confcommercio su “Europa al Ristorante” presentata oggi al Salone alimentare “Sapore” che si è aperto oggi a RiminiFiera. Nell’aumento pari a 21 miliardi di euro dei consumi fuori casa in dieci anni - segnala la ricerca -, l’Italia ha fatto la parte del leone contribuendo con un 98,2%, contro una media Ue del 25,6%. Molto di più sono cresciuti in Europa i consumi alimentari in casa, pari a 37 miliardi, perché in genere - sottolinea la Fipe - a causa della crisi si sta registrando, anche nei Paesi economicamente più forti, un deciso rallentamento dei consumi al bar e ristoranti. I consumi alimentari - aggiunge la Fipe - restano una voce di spesa di primaria importanza nella Ue: valgono 882 miliardi di euro correnti, pari al 13,1% della domanda complessiva. Soltanto per l’abitazione gli europei spendono di più. Se includiamo nella spesa alimentare anche la quota destinata ai consumi fuori casa, pari a 468 miliardi di euro, l’alimentare rappresenta un quinto del budget complessivo di spesa dei cittadini europei.

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