giovedì 24 febbraio 2011

Politica economica e Finanza pubblica. 24 febbraio 2011

Il grande gelo tra Roma e Berlino.

Irlanda pronta a cambiare pagina.

Svimez: addizionali per i costi extra.

Le bollette saliranno alle stelle? Barricate contro la gestione ai privati.

Il Governo semplifica la burocrazia per realizzare gli impianti atomici

Piano di Bruxelles per rilanciare le Pmi.

La corsa alla Bce. Il quotidiano popolare tedesco critica la candidatura del governatore.

Le mafie costano 37 mld alle regioni del Sud Italia.

L’Italia è il primo esportatore di armi in Libia.
Il grande gelo tra Roma e Berlino. GIAN ENRICO RUSCONI. La visita del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano a Berlino avviene in un momento infelice dei rapporti tra Germania e Italia. E’ inutile far finta di nulla e continuare con le formalità diplomatiche, elencando le ottime relazioni economiche bilaterali tra i due Paesi o le garanzie che il ministro dell’Economia italiano offre, a livello europeo, per la tenuta della politica di bilancio e finanziaria che scongiura tracolli del tipo Grecia e Portogallo (a dispetto delle continue insinuazioni di certa stampa tedesca).
Tra Germania e Italia esiste politicamente da tempo una estraneazione che l’inattesa tragedia libica potrebbe aggravare. Dentro a un’Europa incerta e impotente, c’è il rischio che Germania e Italia prendano posizioni molto distanti tra loro.
L’infelicità dei rapporti italo-tedeschi è radicata nel cuore stesso della politica e dei suoi protagonisti. L’immagine estremamente negativa della persona del capo del governo italiano continua a sollevare gravi problemi di comunicazione pubblica. Ma questi problemi rimandano al crescente disinteresse reciproco di Roma e Berlino a ricostruire quel rapporto particolare che si era stabilito per decenni all’interno dell’Europa, prima comunitaria poi gradualmente allargata, in una informale triangolazione virtuosa con la Francia.
E’ una storia complicata - documentabile soltanto leggendo tra le righe della diplomazia. Certo: italiani e tedeschi, se guardano indietro a De Gasperi e Adenauer (ma anche ai tempi di Genscher, Colombo e Andreotti), davanti alla realtà dell’Unione europea di oggi possono dire insieme con soddisfazione «missione compiuta». Ma ora, davanti alle nuove sfide della fase critica dell’Europa, l’Italia non conta più. O, detto in maniera più elegante, non è più all’altezza delle sue possibilità. Mentre Berlino e Parigi mirano, insieme o in sottile competizione, alla leadership informale dell’Europa, Roma si è tagliata fuori.
Il resto lo fa la cattiva e controversa immagine dell’Italia politica nel mondo, schiacciata sul berlusconismo e le reazioni incontrollabili che provoca. Si badi bene: al di là dei sarcasmi sulle vicende private del premier, sono gli attacchi a testa bassa del Cavaliere contro la magistratura e la Corte Costituzionale che lasciano allibiti i politici in Germania, dove la Corte è il riconosciuto giudice supremo della vita costituzionale del Paese.

Sorge l’interrogativo: l’Italia si è emarginata perché implosa nella sua rissosa politica interna o perché sta sbagliando il suo posizionamento all’interno dell’Unione? Ci sono ancora a Roma uomini politici italiani di statura europea? E in grado di farsi riconoscere dotati di tale statura? La vicenda della candidatura di Mario Draghi alla presidenza della Banca europea sarà un indicatore molto interessante a questo proposito - anche e soprattutto nelle sue argomentazioni, soprattutto da parte tedesca.
Intanto però anche nella politica interna tedesca c’è molto nervosismo. La cancelliera Merkel, che nei mesi scorsi aveva acquistato un alto profilo nel suo tentativo di «disciplinare» la politica finanziaria europea, è costretta a ripiegare sulla politica interna davanti a difficoltà impreviste. Il suo partito, che non è mai riuscito a governare davvero la coalizione con i liberali, ha avuto un duro colpo nelle recenti elezioni di Amburgo, stravinte da una risorta socialdemocrazia. Altri episodi negativi - le dimissioni del presidente della Bundesbank (che era il candidato in pectore tedesco per la Banca europea), gli imbarazzi per la scoperta del plagio nella tesi di dottorato del ministro della Difesa Guttenberg (che stava diventando una star politica democristiana) - lasciano un brutto segno. La prospettiva di andare incontro ad altre sconfitte nelle elezioni regionali della Cdu nei prossimi mesi si fa realistica e paralizzante. E’ l’ora peggiore per la Merkel dopo tanti successi. Reali o apparenti ? - qualcuno incomincia a chiedersi.

Naturalmente il presidente Napolitano non entrerà nel merito di questa situazione. Ma nei colloqui con il suo omologo tedesco Christian Wulff ci saranno sul tappeto importanti temi di dimensione europea e internazionale .In primo piano c’è la questione degli immigrati e della loro integrazione, che da qualche mese è ridiventata molto acuta in Germania, e i massicci nuovi arrivi di disperati sulle coste italiane insieme con aspettative allarmanti per la tragedia della Libia. I due Presidenti non mancheranno - nelle loro competenze - di stimolare i rispettivi governi su questi problemi per i quali occorre concordare una nuova grande politica europea comune. Fatti, non parole. In questo contesto si presenta l’occasione perché Germania e Italia ricomincino a parlarsi direttamente e seriamente inaugurando una nuova stagione dei loro rapporti.

Irlanda pronta a cambiare pagina. Leonardo Maisano. DUBLINO. Dal nostro inviato
I saldi durano tutto l'anno e non c'è nemmeno bisogno di indicarli sulle vetrine spente dei negozi di Dame street, dove i tassisti si offrono con la stessa, non richiesta, generosità degli abusivi di Mosca. I prezzi si asciugano, ma gli affari li fanno in pochi, secondo il perverso avvitarsi di un mondo in deflazione.
«Mai vista una cosa del genere. Gli alberghi irlandesi - sospira Dermot O'Leary - sono probabilmente i più economici dell'Europa occidentale. Crollano i salari pubblici e quelli privati». Mentre l'Irlanda attende la rivoluzione elettorale che verrà domani dalle urne, consegnando all'opposizione il Fianna Fail, dominatore del Dail da Eamon de Valera in poi, il chief economist di Goodbody Stockbrokers si toglie il berretto di superanalista e veste l'abito del normale cittadino, del dubliner , per fermarsi all'icona letteraria. Elenca episodi, evoca immagini, usando le stesse parole di sei mesi fa, quando il piano di salvataggio euro-internazionale non era ancora stato approvato, quando il disastro di una folle corsa al credito per gonfiare il mattone pareva essere emerso nella sua interezza.
A novembre avevamo creduto che la crisi irlandese fosse giunta allo zenith e fosse prossima al rimbalzo. Dublino salvata? Affatto. Dublino non cessa di bruciare nonostante gli estintori della Banca centrale europea e del Fondo monetario. «Lo avevo previsto allora - replica O'Leary in rapido ripiegamento entro la trincea di economista - e lo ripeto oggi nel rapporto intitolato "Un piccolo aiuto da un amico"». Qualche decina di cartelle che fanno rumore, buttate là per dare la sveglia a Bruxelles e Francoforte. L'amico è sempre lo stesso e, oggi, Dublino lo corteggia per evitare di ristrutturare il debito di banche nazionalizzate. L'Europa non vuole che l'Irlanda tagli del 50% i corporate bond con quella procedura che gli inglesi chiamano haircut, una rapata al capitale investito in obbligazioni. Quando i titoli arrivano a maturazione invece di pagare tutto, restituisci la metà. Secondo O'Leary ci sono 21 miliardi e mezzo di euro a rischio sparsi fra Anglo-Irish, Irish Nationwide, Bank of Ireland e Allied Irish, istituti, questi ultimi due, in condizioni molto migliori dei primi, di fatto falliti. E se l'Europa non gradisce la tosata - dicono a Dublino - è meglio che rimetta mano al portafogli, perché così, sulle rive del Liffey, non si va avanti.
Un capitolo che si credeva chiuso, dunque, si riapre. Sul rinnovato "che fare?" per le banche della Repubblica, si consuma, in parte, la battaglia elettorale. Le votazioni si sa già chi le perderà, ma non è affatto detto chi le vincerà. O meglio come le vincerà. I sondaggi dicono che il Fianna Fail si stia dissolvendo, ridotto com'è al 14% dopo poco meno di un secolo di sostanziale potere. Il Fine Gael, d'ispirazione democristiana, ha il 38%, troppo poco per governare senza il Labour che viaggia attorno al 20 per cento. È opinione comune che la partita di domani sia solo quella fra una coalizione, già rodata (in passato), o il monocolore del Fine Gael guidato dall'ex insegnante Enda Kenny. Sarà lui il prossimo taoiseach, il premier, e per questo è già andato a Berlino a sentire gli umori della signora Merkel in vista della prossima campagna d'Europa che l'Irlanda lancerà alla ricerca di altri aiuti, per evitare quegli haircut che molti a Dublino evocano e che la Ue teme possano divenire virus contagioso nel continente. Come dire: è evidentemente pericoloso che possa passare il principio di una sforbiciata al rimborso di bond che, oltrettutto, fanno capo a banche nazionalizzate e di cui lo stato si era detto garante.
Il passo successivo è il rischio per il debito sovrano. «Se le banche irlandesi minacciano il sistema europeo è necessaria una risposta collettiva», insiste O'Leary. Parole che echeggiano quelle immaginifiche di Brian Lucey, docente di finanza al Trinity College. «Se io rompo la vetrata di un negozio devo pagare. Ma se il negozio è assicurato condivido la spesa».
La sensazione di deja vu è abbagliante. Nell'immaginario europeo - fenomeno che a Dublino e dintorni tutti sembrano dimenticare - il piano di salvataggio da 85 miliardi del novembre scorso è già la "risposta collettiva" che ora tanti irlandesi sollecitano. «Quel piano fu un errore - aggiunge Lucey - perché mise sullo stesso livello l'esposizione dello stato e quella delle banche. I capitoli andavano almeno divisi». E il governo di allora non lo aveva capito? «Probabilmente lo aveva preso in considerazione», chiosa Lucey. Ma è la storia di un altro esecutivo, quello passato.
L'opposizione di oggi, forza di governo da domani, promette di ricominciare la battaglia. Con modalità indefinite, ma con accenti diversi. Il Fine Gael usa toni sommessi, il Labour muscolari. Le sfumature sono sostanza e fanno la differenza in una partita in cui l'Irlanda mette sul tavolo, fino a giocarselo, il suo europeismo. Pur di uscire dai guai, pur di togliere quei prezzi da saldo sulle vetrine spente di Dame street.

Svimez: addizionali per i costi extra. Roberto Turno. Sud penalizzato dalla futura autonomia fiscale limitata pressoché esclusivamente all'addizionale Irpef, senza neppure distribuirla in maniera uniforme tra le diverse aree territoriali. Lep (livelli essenziali delle prestazioni sociali) non adeguatamente finanziati. E necessità di dividere le risorse sanitarie non soltanto in base al criterio della «popolazione pesata». Dallo Svimez arrivano tre rilievi allo schema di decreto su federalismo fiscale regionale e costi standard sanitari, sul quale ieri la bicamerale ha proseguito il ciclo di audizioni che oggi completerà con la Corte dei conti.
Sui Lep lo Svimez ha segnalato che il decreto «non garantisce risorse sufficienti alla sostenibilità finanziaria» delle prestazioni da garantire sul territorio. Mentre l'autonomia fiscale regionale è confinata all'addizionale Irpef, senza neppure spalmarla «in modo tendenzialmente uniforme»: tra centro-nord e sud, si fa notare, nel 2008 il divario del prelievo pro-capite era del 41%, la differenza del pil pro-capite del 42% e quello della capacità del tributo di finanziare le spese locali raggiungeva il 51%. In sostanza «il tributo non consente sul territorio una distribuzione del potere fiscale accettabile». Di qui la proposta Svimez, che ricalca le conclusioni della vecchia "commissione Vitaletti": istituire una addizionale Irpef e Irap per finanziare il fabbisogno finanziario eccedente i Lep. Aggiungendo «contributi condizionati riferiti allo sforzo fiscale» finanziati dallo stato.
Altro capitolo portante al centro delle audizioni di ieri della bicamerale, è stata la spesa sanitaria. Sulla quale, oltre a quelli dello Svimez, si sono aggiunti i suggerimenti del Cerm e del Ceis dell'università romana di Tor Vergata, che hanno proposto soluzioni dissonanti a partire dai due aspetti più critici: il benchmark delle regioni "virtuose" e i criteri di riparto della spesa su cui i governatori si stanno spaccando per il riparto dei fondi del 2011. Col sud che reclama gli indici di deprivazione, non solo quelli dell'età della popolazione, e dall'altra soprattutto il Veneto, che si fa forte della proposta del ministero della Salute (che predilige solo l'età della popolazione): senza intesa (e basta lo stop di una sola regione) passerebbe la proposta anti sud.
Accanto allo Svimez, che ritiene giusto considerare altri "pesi" nella distribuzione dei fondi accanto a quelli dell'età della popolazione, s'è schierato ieri il Ceis. Mentre dal Cerm sono arrivate alle bicamerale indicazioni di segno opposto. «Una quota capitaria d'età per fascia d'età omogenea su scala nazionale – afferma il Cerm – ha una sua strutturale valenza redistributiva», magari legandola soltanto a un percorso di «perequazione infrastrutturale». Di più, aggiunge il Cerm concordando con le critiche del servizio del bilancio della Camera: sarebbe un "non benchmark" prevedere necessariamente una regione del nord, una del centro e una del sud, per di più con l'obbligo di prevederne una di piccole dimensioni. Il benchmark dev'essere «puro»: dentro le migliori realtà e solo quelle. E il sud se ne faccia una ragione.

Le bollette saliranno alle stelle? Barricate contro la gestione ai privati. Cinquemila firme raccolte per il no alla privatizzazione dell'acqua, la presa di posizione della Chiesa in questa direzione, quella ugualmente forte delle opposizioni ma anche la convinzione e quindi il sostegno della maggioranza di governo della Regione, sono punti fermi su cui si torna a ragionare per mantenere in piedi un «presidio» naturale in capo all'istituzione locale. Quello che si teme di più sono i costi dell'acqua che potrebbero aumentare e quindi raddoppiare, persino triplicare come è accaduto in alcune regioni italiane dove la privatizzazione è stata già messa in atto. Duro, quindi, l'atteggiamento della regione e della sua comunità su cui anche «Molise acque» si è allineato con i suoi vertici «Abbiamo costruito un sistema tecnico amministrativo e una rete di distribuzione capaci di ottimizzare i costi, di accontentare tutti i cittadini e di dare delle soluzioni anche alle regioni vicine. Questo credo che ci metta nelle condizioni di evitare il Decreto Ronchi - ha detto il presidente di «Molise acque» Stefano Sabatini. Ove non fosse possibile, credo che dobbiamo combattere con tutte le nostre forze chè il sistema idrico locale non passi completamente nelle mani di privati. Abbiamo delle caratteristiche specifiche che non sono contro i futuri dispositivi legislativi che vanno a governare il sistema acqua e questo quindi ci pone in una qualche posizione di vantaggio. Vogliamo costruire una grande società per azioni che distribuisca acqua dai serbatoti comunali fino alle case dei cittadini con la partecipazione dei privati in modo inferiore alla partecipazione pubblica. Voglio infine spiegare un dato numerico. In Francia – conclude Stefano Sabatini –dove è in atto la privatizzazione dell'acqua un privato paga circa 2 mila euro per i consumi idrici in un anno, in Molise i cittadini di questa regione pagano invece 150 euro per dodici mesi». Al.Cia.

Il Governo semplifica la burocrazia per realizzare gli impianti atomici
Critiche arrivano dall'opposizione, secondo cui le nuove norme sono in contraddizione con le recenti sentenze della Consulta
23 Febbraio 2011. Alla luce delle recenti sentenze della Corte Costituzionale e in attesa del previsto referendum di primavera il Governo ha modificato la normativa sul ritorno al nucleare. Su proposta del ministro dello Sviluppo economico il Consiglio dei Ministri ha infatti approvato lo schema di modifica del decreto legislativo del 15 febbraio 2010, con l’obiettivo di velocizzare le procedure di individuazione dei siti e di realizzazione degli impianti. L’autorizzazione ambientale integrata, ad esempio, avrà una validità di 15 anni contro i 5 ordinariamente previsti per altri tipi di impianti; inoltre in particolare si prevede che i benefici connessi all’inizio dei lavori e all’esercizio dell’impianto siano concessi ai cittadini degli enti locali in cui è ubicato l’impianto e a quelli degli enti limitrofi in un raggio di 25 km dall’impianto.

Tra le principali novità del decreto c’è anche l’adeguamento della normativa alla sentenza della Corte Costituzionale riguardo al parere obbligatorio, ma non vincolante, della Regione nel cui territorio ricadrà l’impianto, in merito all’autorizzazione unica alla costruzione e all’esercizio della centrale. Lo schema approvato dal Consiglio dei Ministri sarà trasmesso al Consiglio di Stato, alla Conferenza unificata e alle Commissioni parlamentari per il relativo parere.

«Con queste modifiche, insieme alla recente costituzione dell’Agenzia per la Sicurezza Nucleare – ha commentato il ministro per lo Sviluppo economico, Paolo Romani – diamo un nuovo impulso per la realizzazione del programma nucleare in Italia. Adesso c’è un percorso chiaro e definito che permetterà ai diversi livelli istituzionali di collaborare all’individuazione dei siti e alla realizzazione delle centrali. Dal ritorno all’atomo dipendono lo sviluppo e il recupero di competitività della nostra economia: basti pensare ai grandi vantaggi che potremo ottenere a favore del nostro tessuto produttivo soltanto riducendo i costi dell’energia elettrica, per alcuni utenti superiori del 30% rispetto ai nostri partner europei. Il nucleare è una riforma strutturale per il nostro sistema industriale e noi vogliamo percorrerla fino in fondo».

Critiche al testo governativo arrivano invece dall’opposizione, in particolare dai senatori del Pd Roberto Della Seta e Francesco Ferrante: «Il Consiglio dei ministri, approvando le modifiche al decreto legislativo sull'individuazione dei siti per la realizzazione di impianti nucleari rende sempre più virtuali i controlli sulla sicurezza e sulla compatibilità ambientale delle centrali e dei siti di stoccaggio delle scorie. Questo significa che il Governo accentua il carattere autoritario della procedura e contraddice lo spirito della Consulta, che nel dichiarare l'illegittimità costituzionale dell'art.4 del decreto attuativo del dl in materia di nucleare aveva previsto che la Regione interessata dovesse essere adeguatamente coinvolta nel procedimento. Per rendere i controlli più virtuali il Governo ha infatti deciso che l'agenzia per la sicurezza nucleare dovrà effettuare l'istruttoria tecnica sulle singole istanze per la certificazione dei siti entro trenta giorni dalla richiesta, e che il ministero dello Sviluppo economico sottoporrà poi entro 15 giorni i siti certificati all'intesa della regione»

Piano di Bruxelles per rilanciare le Pmi. Adriana Cerretelli. BRUXELLES. Dal nostro inviato. Creare una nuova impresa in 3 giorni spendendo non più di 100 euro e ottenendo al massimo in 30 giorni tutte le licenze e i permessi entro fine 2013. Fantaeconomia? No, è una delle proposte con cui Antonio Tajani intende facilitare la vita delle piccole e medie imprese in Europa.
«Le Pmi sono il motore della nostra economia, per questo dobbiamo mantenerle forti, innovative e competitive» ha dichiarato ieri a Bruxelles il commissario Ue all'Industria annunciando tra l'altro un giro per le 27 capitali dell'Unione per presentare la versione aggiornata dello "Small Business Act" (Sba), cioè il complesso di iniziative, legislative e non, lanciato per la prima volta nel 2008 con l'obiettivo di rendere meno complicato e costoso intraprendere in Europa. I 23 milioni di Pmi muovono letteralmente l'economia Ue, visto che vi rappresentano oltre il 99% del business, il 66% dell'occupazione del settore privato e il 58% del fatturato totale. Con la grande crisi però hanno perso 3,25 milioni di posti di lavoro. Per rimettere in moto la "macchina" e liberare l'enorme potenziale delle Pmi, Tajani ripropone, arricchendolo, il vecchio piano di azione del 2008 che ha già dato buoni risultati. «Dobbiamo fare di più» ha insistito ieri il commissario Ue prima di partire per Roma, prima tappa del suo viaggio per presentare, insieme al ministro dell'Attività produttiva Paolo Romani, la nuova iniziativa Ue. Cui plaude Vincenzo Boccia, presidente Piccola industria di Confindustria: «Bruxelles va nella giusta direzione, ora tocca al Governo tradurne in pratica le misure e al più presto». Il giudizio positivo riguarda, in particolare, le proposte per un quadro regolamentare e amministrativo favorevole alle imprese, l'invito al rapido recepimento della direttiva sui ritardati pagamenti, il richiamo ad adottare politiche fiscali a supporto degli investimenti, le azioni per incoraggiare le Pmi a sfruttare le opportunità del mercato unico e a internazionalizzarsi. «Il futuro dell'economia europea – aggiunge Boccia – dipende in larga parte da un ulteriore rafforzamento del potenziale delle Pmi che costituiscono il 99,8% delle imprese Ue, garantiscono i 2/3 dei posti di lavoro del settore privato e sono da sempre considerate la “spina dorsale” dell'industria europea».
Il governo si sta muovendo. «La novità – ha detto Romani - è che il 14 marzo sarà calendarizzata in Italia la legge annuale sulle Pmi. Finalmente abbiamo un percorso parlamentare, che ci accompagnerà in attesa della revisione dello Small business act».
Dal 2008 a oggi sono già stati quasi dimezzati i tempi per creare una nuova società: da 12 giorni in media che erano sono scesi a 7, i costi sono calati da 485 a 399 euro. Ora si propone il salto a 3 giorni a soli 100 euro. E ancora: la direttiva sui ritardi di pagamento adottata l'anno scorso obbliga la pubbliche amministrazione a pagare entro 30 giorni i fornitori, il che rimetterà in circolo nell'Ue, ha ricordato Tajani, 180 miliardi di euro entro la fine del 2012. E poi, meno oneri amministrativi per l'accesso alle gare sugli appalti pubblici, la direttiva sulla fatturazione elettronica, il rinvio della contabilizzazione dell'Iva fino ad avvenuto pagamento per le Pmi con fatturato inferiore ai 2 milioni di euro.
Il piano aggiornato continuerà a battere sulla semplificazione, prevedendo anche test per verificare con i diretti interessati che le nuove direttive Ue non ne appesantiscano gli oneri da sostenere. Per garantire che lo Sba venga davvero attuato ieri è stato nominato un Mr Pmi, nella persona dello spagnolo Daniel Calleja, con l'invito però agli Stati membri a nominarne uno ciascuno anche a livello nazionale.
Più facile accesso al credito bancario, ai finanziamenti Ue e al venture capital attraverso anche in questo caso procedure amministrative semplificate e il potenziamento delle garanzie Ue. Per esempio i fondi Ue (1,1 miliardi) per Competitività e innovazione consentiranno alle Pmi di beneficiare di finanziamenti per 30 miliardi nel periodo 2007-13.
Stimolo all'internazionalizzazione. Maggiore apertura dei mercati degli appalti pubblici. Guerra alle clausole commerciali abusive probabilmente con una prossima direttiva Ue. Base comune consolidata per l'imposta sulle società. Nuova strategia per l'Iva per ridurre ostacoli e oneri a carico delle imprese nel mercato unico. Procedure più facili per il recupero dei debiti transeuropei. "Made in" più diffuso e incisivo. Un catalogo imponente di misure sulla strada del rilancio dell'economia europea.

La corsa alla Bce. Il quotidiano popolare tedesco critica la candidatura del governatore. BILD ATTACCA DRAGHI: E' UN ITALIANO [Romano Beda] La corsa alla Bce. Il quotidiano popolare tedesco critica la candidatura del governatore Bild attacca Draghi: un italiano. STEREOTIPI STONATI Dopo il ritiro di Weber it giornale usa pregiudizi e ctichs per colpire gli uomini rimasti in lizza nella successione a Trichet I Beda Romano; FRANCOFORTE. Dal nostro corrispondente. La stampa popolare tedesca ha preso di mira il governatore della Banca d'Italia Mario Draghi. Non tanto per scelte sbagliate di politica monetaria, per un'esperienza professionale limitata o per una preparazione tecnica insufficiente. In realta’ gli attacchi contro il banchiere centrale riguardano la sua nazionalita’. Agli occhi di alcuni in Germania inconcepibile avere un italiano alla guida della Banca centrale europea. Nei giorni scorsi il quotidiano popolare Bild, che ogni giorno vende tre milioni di copie e ha circa dodici milioni di lettori, si lanciato a testa bassa. Colto di sorpresa, come tutti in Germania, dalle dimissioni improvvise di Axel Weber dalla Bundesbarik e quindi dalla sua uscita di scena nella corsa alla
presidenza della Bce, il giornale ha elencato i potenziali candidati alla guida dell'istituto monetario. Accanto alla foto di Draghi si leggeva: Per favore non questo italiano. Mamma mia - scriveva Bild - per gli italiani l'inflazione nella vita e’ come la salsa di pomodoro sulla pasta. Il giornale notava poi che il governatore italiano e’ stato vice presidente di Goldman Sachs, tra il 2002 e il 2005 proprio nel periodo in cui la banca avrebbe aiutato il governo greco a truccare il debito pubblico. A onore del vero, nello stesso articolo Bild prendeva di mira altri potenziali candidati alla guida della Bce. Accusava il lussemburghese Yves Mersch di avere dato il benestare agli eurobonds, lo spagnolo Miguel Ordnez di non aver vigilato sulle banche, il greco Georgios Provopoulos di provenire da un paese indebitato. In tutti i casi il giornale utilizzava cliches, espressioni in lingua originale e vecchi pregiudizi per giungere alla conclusione che ormai l'unico possibile candidato alla Bce e’ un tedesco: Klaus Regling, presidente del fondo salva-stati (Efsf). Appena un anno fa lo stesso giornae pubblico’ un'intera pagina in cui elencava le ragioni per cui Weber sarebbe dovuto diventare presidente della Bce e i motivi per cui invece Draghi non deve diventarlo. In quella occasione, con una buona dose si supponenza, Bild ricordava ai lettori che se ne fossero dimenticati che la lira era la moneta con molti zeri. Razzismo? Nazionalismo? Arroganza? Risponde Hermann-Dieter Schroder, analista dell'istituto Hans Bredow di Amburgo, specializzato nello studio dei media: giornale non razzista, forse un po' nazionalista. E’ un quotidiano popolare, che ama i toni forti per cogliere l'attenzione del pubblico, cavalcando stereotipi e pregiudizi. Chi lo acquista spesso non si identifica con il contenuto troppo estremo e ne prende le distanze, insomma, piu’ entertainment che informazione.
L'osservatore straniero dovrebbe quindi reagire con un'alzata di spalla, volgendo lo sguardo altrove, magari ai molti giornali di qualita’, che in Germania hanno analisi assai piu’ equilibrate. C'e’ il rischio tuttavia che le posizioni di Bild possano influenzare in ultima analisi le scelte del governo tedesco? Si e no - risponde Schroder - si, se le critiche sono argomentate. No, se si limitano a rivangare cliches.

Le mafie costano 37 mld alle regioni del Sud Italia. DI CARMINE SARNO. Oltre 37 miliardi. È il costo della criminalità organizzata nelle regioni del Mezzogiorno, un vero e proprio cancro che sottrae all'economia meridionale il 15% del pil. Le cinque regioni ad alta densità mafiosa come Campania, Calabria, Sicilia, Puglia e Basilicata sono anche quelle con il minor pil pro capite di tutta Italia: in particolare, nelle prime tre regioni (in cui si concentra il 75% del crimine organizzato) il valore aggiunto pro capite del settore privato è meno della metà di quello del Centronord. Il quadro allarmante è stato tracciato da un rapporto della Banca d'Italia sui costi economici della criminalità organizzata consegnato alla commissione parlamentare d'inchiesta sulle mafie. Come si legge nel rapporto «è stata riscontrata una divaricazione che potrebbe raggiungere in media il 15% del pil pro capite» tra le aree del Sud in cui la criminalità organizzata è più presente e le regioni del Nord non gravate da questo onere. E le conseguenze non sono solo economiche, in quanto sono compromesse anche le logiche di mercato e la vitalità del tessuto produttivo. Per boss e picciotti il rischio d'impresa non è contemplato come anche la concorrenza, e l'unica legge che vale è quella del più forte. Su un campione di 800 imprenditori operanti nelle regioni obiettivo 1 (Campania. Calabria. Sicilia, Puglia. B asilicata e Sardegna). ben il 60% ha dichiarato di subire condizionamenti da parte della criminalità e il 40% ha denunciato effetti negativi sul fatturato. ln pratica, senza la presenza mafiosa, il giro d'affari delle imprese del Sud potrebbe aumentare fino al 20%. Anche da Confcommercio hanno denunciato come si tratti di una situazione ormai insostenibile per le aziende. I dati consegnati alla commissione parlamentare d'inchiesta parlano chiaro: tra rapine, furti, usura e racket l'onere economico sopportato dalle imprese del Sud è di oltre 5 miliardi l'anno. A tutto questo, poi, si aggiungono le conseguenze irreparabili lasciate dall'infiltrazione criminale nel tessuta imprenditoriale. Come emerge dalla relazione parlamentare, solo il 6% delle aziende sequestrate alle mafie perviene nella disponibilità dello Stato con capacità operative. Inoltre le aziende confiscate trovano destinazione solo nel 32,7% dei casi: mentre per una rilevante percentuale il procedimento si chiude senza una formale destinazione «resa impossibile da cause di diversa natura». Non solo, le aziende che trovano destinazione nella vendita o nell'affitto corrispondono solamente all'11%, mentre per 1'89% delle attività imprenditoriali la destinazione finale è la messa in liquidazione.

“L’Italia è il primo esportatore di armi in Libia”. di BlogSicilia. 24 febbraio 2011 - Non possiamo avere la certezza della nazionalità delle armi utilizzate dall’esercito di Gheddafi contro i suoi oppositori, però è inquietante sapere che l’industria bellica italiana è tra i leader mondiali nella vendita alla Libia di armi, armamenti, mezzi aerei e tecnologia militare.
Lo abbiamo letto qui, dove si legge che “nel 2009 le esportazioni belliche italiane in Libia hanno raggiunto i 112 milioni di euro”, mentre l’anno precedente “sono stati venduti otto elicotteri A109 e nel 2009 due elicotteri AW139. È stata realizzata pure una parte consistente dell’ammodernamento della flotta di aeromobili CH47″.
Notizia che troviamo anche su Disarmo.org, in cui si riporta la dichiarazione di Maurizio Simoncelli, vice-presidente dell’Istituto di ricerche internazionali Archivio Disarmo, alla MISNA: “Non sappiamo se queste armi vengono impiegate nella repressione delle proteste antigovernative. Ciò che possiamo dire con certezza è che l’Italia è il primo esportatore europeo di armi in Libia dove arriva il 2% del totale della produzione italiana”.
Sulla stessa scia Giorgio Berretti della Rete Italiana disarmo (qui un approfondimento): “I rapporti dell’Unione Europea sulle esportazioni di materiali militari certificano che nel biennio 2008-2009 l’Italia ha autorizzato alle proprie ditte l’invio di armamenti alla Libia per oltre 205 milioni di euro che ricoprono più di un terzo di tutte le autorizzazioni rilasciate dall’Unione”.
“Forse anche per questo motivo – ipotizza Beretta – il ministro degli Esteri Franco Frattini è più in difficoltà dei suoi omologhi europei quando sente parlare di sanzioni contro il leader libico. Gli altri ministri europei hanno avuto almeno la decenza di dichiarare la sospensione dell’invio di armi”.
I dati di Archivio Disarmo, che si basano sui principali accordi stipulati da società italiane con la Libia, parlano di:
30 elicotteri venduti dalla Agusta Westlands.
Aerei adibiti al pattugliamento marittimo venduti da Alenia Aeronautica.
Manutenzione di missili Otomat curata dalla società Itas srl.
Sei motovedette cedute dalla Guardia di Finanza alla Marina libica per il pattugliamento del Mediterraneo.
Attività di cooperazione strategica tra Finmeccanica e diverse società libiche;
Accordo per un sistema di protezione e sicurezza dei confini firmato da Selex Sistemi Integrati.
Insomma, un arsenale coi fiocchi.

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