mercoledì 23 marzo 2011

Federali-Sera. 23 marzo 2011. I piloti di Sarkozy hanno visto volare i carri armati. Per ora, il primo round è francese! La posizione del governatore Luca Zaia, quanto al ritorno dell’atomo, è arcinota: sì al nucleare in Italia, no al nucleare in Veneto.

Coalizione dei volenterosi:
Clamoroso: "Sarko' ha manovrato la rivolta libica"
Libia, cosa nasconde l’interventismo francese e lo scontro con Roma.
Il piloti di Sarkozy hanno visto volare i carri armati
Un'operazione anglo-americana
Libia. Compromesso sulla Nato
Libia: costo raid e no fly zone potrebbe arrivare a 700 milioni.
Egitto: chiesta l'incriminazione di Mubarak per omicidio.

Profughi e migranti:
Trento. 500 profughi africani arriveranno in Tentino
Vallee' d'Aoste: Emergenza sbarchi: la Valle d'Aosta pronta ad ospitare fino a 100 migranti
Udin. Tondo non vuole accettare altri profughi nel Fvg.
Varese. 50.000 profughi, Regioni pronte
Milano. «Pronti ad accogliere 10 mila profughi»
Padova. Zanonato: "Sul territorio il Carroccio fa solo propaganda".

Stati confusionali:
Stato e imprese fanno blocco e la Francia vince sui mercati
Rischio retrocessione per l'Italia
Parmalat, sale quota Lactalis e titolo cede.
Tassa sulle calamità e commissari: il no delle Regioni
Nucleare in Veneto anche la Lega dice no
Treviso. La Lega esce due volte dall'aula. Presenti i lavoratori di Susegana: «Stanchi di essere strumentalizzati».
Venezia. Ecco tutti gli affari immobiliari dell'Usl 12 di Venezia.

Luis fa la spesa a Trento:
Bozen. Redditi: a Bolzano 1.600 contribuenti oltre i 100 mila euro.
Trento. Fare la spesa. A Trento conviene.


Clamoroso: "Sarko' ha manovrato la rivolta libica"
Mercoledí 23.03.2011 08:49
"Prima tappa del viaggio. Venti ottobre 2010, Tunisi. Qui - scrive Franco Bechis su LIBERO - e' sceso con tutta la sua famiglia da un aereo della Lybian Airlines Nouri Mesmari, capo del protocollo della corte del colonnello Muammar El Gheddafi. E' uno dei piu' alti papaveri del regime libico, da sempre a fianco del colonnello. L'unico - per capirci - che insieme al ministro degli Esteri Mussa Koussa aveva accesso diretto alle residence del rai's senza bisogno di bussare. L'unico a potere varcare la soglia della suite 204 del vecchio circolo ufficiale di Bengasi, dove il colonnello libico ha ospitato con grandi onori il premier italiano Silvio Berlusconi durante le visite ufficiali in Libia. Quello sbarco a Tunisi di Mesmari dura poche ore. Non si sa chi incontri nella capitale dove ancora la rivolta contro Ben Ali cova sotto le ceneri. Ma e' ormai certo che proprio in quelle ore e in quelle immediatamente successive Mesmari getti i ponti di quella che a meta' febbraio sarebbe diventata la ribellione della Cirenaica. E prepara la possibile spallata a Gheddafi cercando e ottenendo l'alleanza su due fronti: il primo e' quello della dissidenza tunisina. Il secondo e' quello della Francia di Nicholas Sarkozy. Ed entrambe le alleanze gli riescono. Lo testimoniano alcuni clamorosi documenti della Dgse (direzione generale della sicurezza estera), il servizio segreto francese e una clamorosa serie di notizie fatte circolare in ambienti diplomatici francesi da una newsletter loro dedicata, Maghreb Confindential (di cui esiste una versione sintetica e accessibile a pagamento). Mesmari arriva a Parigi il giorno successivo, 21 ottobre. E da li' non si muovera' piu'. In Libia non ha nascosto il suo viaggio in Francia, visto che si e' portato dietro tutta la famiglia. La versione e' che e' a Parigi per delicate cure mediche e probabilmente per un'operazione. Ma di medici non ne vedrai mai nemmeno uno.

"Quel che vedra' invece ogni giorno - prosegue Bechis su LIBERO - sono funzionari del servizio segreto francese. Sicuramente ai primi di novembre sono visti entrare all'Hotel Concorde Lafayette di Parigi, dove Mesmari soggiorna, alcuni stretti collaboratori del presidente francese Sarkozy. Il 16 novembre c'e' una fila di auto blu fuori dall'hotel. Nella suite di Mesmari si svolge una lunga e fitta riunione. Due giorni dopo parte per Bengasi una strana e fitta delegazione commerciale francese. Ci sono funzionari del ministero dell'Agricoltura, dirigenti della France Export Cereales e della France Agrimer e manager della Soufflet, della Louis Dreyfus, della Glencore, della Cani Cereales, della Cargill e della Conagra. Una spedizione commerciale, sulla carta, per cercare di ottenere proprio a Bengasi ricche commesse libiche. Ma nel gruppo sono mescolati anche militari della sicurezza francese, travestiti da business man. A Bengasi incontreranno un colonnello dell'aereonautica libica indicato da Mesmari: Abdallah Gehani. E' un insospettabile, ma l'ex capo del protocollo di Gheddafi ha rivelato che e' disposto a disertare e che ha anche buoni contatti con la dissidenza tunisina. L'operazione e' condotta in gran segreto, ma qualcosa giunge agli uomini piu' vicini a Gheddafi. Il colonnello intuisce qualcosa. Il 28 novembre firma un mandato di cattura internazionale nei confronti di Mesmari. L'ordine viene trasmesso anche alla Francia attraverso i canali protocollari. I francesi si allarmano, e decidono di eseguire formalmente l'arresto. Quattro giorni dopo, il 12 dicembre, viene fatta filtrare la notizia proprio da Parigi. Non si indica il nome, ma si rivela che la polizia francese ha arrestato uno dei principali collaboratori di Gheddafi. La Libia si tranquillizza sulle prime. Poi viene a sapere che Mesmari e' in realta' agli arresti domiciliari nella suite del Concorde Lafayette. E il rai's comincia ad agitarsi".

"Quando arriva la notizia che Mesmari ha chiesto ufficialmente alla Fancia asilo politico, Gheddafi si infuria, - continua Bechis su LIBERO - fa ritirare il passaporto perfino al suo ministro degli Esteri, Mussa Kussa, accusato di responsabilita' nella defezione e nel tradimento di Mesmari. Poi prova a inviare suoi uomini a Parigi con messaggi per il traditore: 'torna, sarai perdonato'. Il 16 dicembre ci prova Abdallah Mansour, capo della radio-televisione libica. I francesi pero' lo fermano all'ingresso dell'Hotel. Il 23 dicembre arrivano altri libici a Parigi. Sono Farj Charrant, Fathi Boukhris e All Ounes Mansouri. Li conosceremo meglio dopo il 17 febbraio: perche' proprio loro insieme ad Al Hajji guideranno la rivolta di Bengasi contro i miliziani del colonnello. I tre sono autorizzati dai francesi a uscire a pranzo con Mesmari in un elegante ristorante sugli Champs Elyse'e. Ci sono anche funzionari dell'Eliseo e alcuni dirigenti del servizio segreto francese. Tra Natale e Capodanno esce su Maghreb Confidential la notizia che Bengasi ribolle (in quel momento non lo sa nessuno nel mondo), e perfino l'indiscrezione su alcuni aiuti logistici e militari che sarebbero arrivati nella seconda citta' della Libia proprio dalla Francia. Oramai e' chiaro che Mesmari e' diventato la levain mano a Sarkozy per fare saltare Gheddafi in Libia. La newsletter riservata su Maghreb comincia a fare trapelare i contenuti della sua collaborazione. Mesmari viene soprannominato 'Libyan Wikileak', perche' uno dopo l'altro svela i segreti della difesa militare del colonnello e racconta ogni particolare sulle alleanze diplomatiche e finanziarie del regime, descrivendo pure la mappa del dissenso e le forze che sono in campo. A meta' gennaio la Francia ha in mano tutte le chiavi per tentare di ribaltare il colonnello. Ma qualcosa sfugge. Il 22 gennaio il capo dei servizi di intelligence della Cirenaica, un fedelissimo del colonnello, generale Aoudh Saaiti, arresta il colonnello dell'aeronautica Gehani, il referente segreto dei francesi fin dal 18 novembre. Il 24 gennaio viene trasferito in un carcere di Tripoli, con l'accusa di avere creato una rete di social network in Cirenaica che inneggiava alla protesta tunisina contro Ben Ali'. E' troppo tardi pero': Gehani con i francesi ha gia' preparato la rivolta di Bengasi. Che scoppiera' - conclude Bechis su LIBERO - da li' a qualche giorno..."

Libia, cosa nasconde l’interventismo francese e lo scontro con Roma. Gli attacchi militari della coalizione, Italia compresa, contro il regime di Gheddafi sono stati fortemente voluti, anzi, anticipati a sorpresa dai francesi. Il Presidente Nicolas Sarkozy, in questa faccenda, si è mosso con assoluta autonomia, tanto da destare dubbi e irritazione persino nella Casa Bianca. Ma il ritrovato interventismo della Francia cosa nasconde?
La questione è molto complessa e riguarda l’intero scenario nordafricano in evoluzione. La Tunisia di ben Alì, storicamente, è stata molto vicina alla Francia e ai suoi interessi post-coloniali in Nord Africa, ma dopo gli eventi che hanno travolto il suo regime, la Francia si è trovata con un solo alleato fedele in Maghreb, l’Algeria. Ma anche il potere di Bouteflika sembra vacillare e tutt’al più durerà solo qualche anno ancora. In Libia, al contrario, gli interessi francesi sono stati preceduti da quelli italiani, tanto che Eni è il primo operatore a Tripoli, nel campo energetico, davanti alla transalpina Total.

Dopo i primi tumulti contro il regime di Gheddafi, i francesi hanno fiutato l’opportunità storica di sovvertire le sorti della patria, cacciando il colonnello e portando al potere un gruppo di oppositori, che potrebbero fare gli interessi di Parigi, quanto meno per spirito di riconoscenza, a discapito dell’Italia, così identificata con il vecchio gruppo dirigente di Tripoli.

Non è un caso che la Germania si sia astenuta nella risoluzione sulla “No Fly Zone”. Gli interessi energetici dei tedeschi non sono nel Mediterraneo, ma viaggiano verso est, Russia in testa. E Berlino non ha convenienza a irritare l’amico russo, contrario all’intervento, nè a faciliatare gli interessi dei francesi sul Nord Africa. E l’Italia ha tutto l’interesse strategico a evitare che questa guerra sia guidata dai francesi, e che Sarkozy porti al potere gruppi di ribelli a lui vicini. Qui la democrazia non c’entra. E nemmeno i diritti umani!

Il piloti di Sarkozy hanno visto volare i carri armati
di Pierluigi Magnaschi  
La risoluzione adottata dall'Onu contro il regime libico di Mu'hammar Gheddafi, in difesa dei diritti civili delle persone investite dai bombardamenti libici, parla chiaro. Essa prevede l'imposizione all'intera Libia della «no fly zone», cioè l'espresso divieto per i jet militari di questo paese di alzarsi in volo. La misura mira a impedire le operazioni militari contro gli insorti. Questa misura di interdizione non è nuova. Essa, per esempio, fu applicata, su vasta scala e per molti anni, sul Kurdistan iracheno, la regione al Nord dell'Iraq ricca di pozzi di petrolio, subito dopo che Bush senior era riuscito a cacciare Saddam Hussein fuori dal Kuweit e a metterlo con le spalle al muro anche in Iraq. Quell'interdizione si proponeva di impedire che il dittatore irakeno colpisse, con i suoi jet militari, la popolazione del Kurdistan. Adesso, la stessa misura della «no fly zone» è stata imposta dall'Onu alla Libia. Il dispositivo è stato immediatamente portato a conoscenza del governo di Tripoli, avvisandolo che, se i suoi aerei militari si fossero alzati in volo, le forze alleate erano autorizzate ad abbatterli. Non solo. La Libia deve spegnere i radar usati per l'intercettazione e la neutralizzazione degli aerei alleati. Questo obbligo si presta a due interpretazioni operative. La prima, più blanda, è che i dispositivi antiarei libici non vengono bombardati fino a che essi non hanno dimostrato, almeno una volta, di essere utilizzati in modo offensivo. L'interpretazione più dura invece consiste nel preventivo smantellamento, con bombardamenti mirati, di ogni capacità antiaerea libica. Questa seconda ipotesi, ovviamente, comporta il bombardamento dei radar (anche se disattivati) e di tutte le postazioni missilistiche o anche semplicemente contraeree. È questa la scelta adottata dalle forze alleate anti Gheddafi e, in particolare, dei jet francesi che sono stati i primi ad attaccare. Questi ultimi però, colpendo anche carri armati libici (che, fino a prova contraria, non possono prendere il volo) e anche le truppe libiche in movimento al suolo, hanno pesantemente abusato del mandato dell'Onu, scendendo arbitrariamente in guerra contro le forze del Colonnello che, essendo crudele ma non stupido, aveva rispettato alla lettera la «no fly zone». I francesi hanno fatto da apripista per cui, poi, le navi Usa hanno bombardato anche Tripoli anche se pure questa città non era in grado di decollare. Il risultato è che questa guerra non dichiarata da nessuno e non autorizzata da nessuno è un atto di pirateria militare internazionale. Un colpo di mano, non l'attuazione di una direttiva Onu.

Un'operazione anglo-americana
Già un mese fa gli inglesi stavano preparandosi all'attacco. di Piero Laporta  
La polemica sul comando alla Nato è tardiva e posta male. La Triplice ha intrappolato il Cavaliere, in un tunnel di cui non si vede uscita. Come abbia fatto tuttavia non è chiaro. Italia Oggi scrisse, in tempi non sospetti, che la Nato non ha a che fare con questa macelleria bombarola.

Non c'è il presupposto del mutuo soccorso fra alleati, perché è Gheddafi l'aggredito. Non è un intervento concertato in Consiglio atlantico, perché nessuno dei paesi alleati lo ha chiesto. La Lega per tali fondanti ragioni ha esecrato il protagonismo e la precipitazione di Ignazio La Russa, grazie al quale oggi sembriamo e siamo chierichetti di Francia e Germania.

L'ombrello della Triplice è certamente statunitense, contrariamente a quanto sostengono in queste ore personaggi contigui a Washington, come Carlo Pelanda, secondo il quale la Francia si è appropriata dell'operazione. Tesi rilanciata da “il Sussidiario”, vicino a Comunione e Liberazione. L'operazione non consiste solo di bombe e missili, non di meno più censurati della bufala iniziale dei diecimila morti causati da Gheddafi. Bombe e missili illuminano la Francia proprio per nascondere il ruolo di Usa e Gran Bretagna.

È statunitense, con la collaborazione britannica, la ragnatela contro Ben Alì e Mubarak, con la collaborazione dei Fratelli Mussulmani, a premessa del colpo su Gheddafi. I rancori dopo l'Iraq e l'Afghanistan sono ancora vivi nel mondo mussulmano. Usa e Gran Bretagna devono apparire il meno possibile. La Triplice ha quindi disegnato un piano preciso e articolato:

1) fomentare la rivolta delle piazze mussulmane che non mancano di materia prima, il dissenso, con regimi di quella fatta;

2) drammatizzare la scena grazie ad agenti prezzolati e ai boatos delle agenzie statunitensi e britanniche;

3) accusare Gheddafi di bombardare i civili (Italia Oggi ha dimostrato tecnicamente i falsi che sono in circolazione);

4) ottenere una risoluzione che desse spazio, grazie alla formula “con tutti i mezzi possibili” all'immediato impiego delle armi;

5) mettere in primo piano la Francia, unico paese mediterraneo della Triplice, per fare velo sui rimanenti due;

6) soccorrere i civili libici con i missili e le bombe su altri civili libici, che tuttavia diventano “scudi umani” di Gheddafi, secondo un copione collaudato.

La bufala da cui tutto questo ambaradam è partito, i 10mila morti ammazzati da Gheddafi (questa notizia falsa, non a caso, è stata lanciata, a freddo, dalle agenzie statunitensi e britanniche) brilla dopo il terremoto in Giappone che invece è stato sul serio piegato dai suoi reali 10mila morti.

Le operazioni delle forze speciali britanniche, che Italia Oggi anticipò largamente, nel silenzio assordante della stampa italiana ed internazionale, sono infine state confessate dal ministro della Difesa britannico, Liam Fox, quando una loro pattuglia è stata arrestata. Secondo Fox questa pattuglia stava scortando due diplomatici inglesi che cercavano contatti col governo ribelle. È mai possibile che gli azzimati diplomatici inglesi sfuggano alla cattura meglio degli atletici SAS? E che ci facevano, questi due diplomatici, così lontani da Bengasi? Fox allora confessa che erano lì da tre settimane per assistere eventuali piloti abbattuti. Quindi il governo inglese sapeva, almeno un mese prima, che avrebbe bombardato. In realtà i loro uomini erano lì da ben prima. Patetico. Non di meno, queste balle sono state bevute come se fossero vere dalla stampa italiana e dai consiglieri del governo, imbarcandoci così, tutti, e quanti, in questa avventura. Ma il conto non torna ancora. Qual è il governo ribelle? Dov'è il capo? Ma neppure in Italia il conto torna.

Come mai, per Gheddafi, tutta l'opposizione italiana ha indossato l'elmetto? Gheddafi è un terziario francescano se viene paragonato a Saddam Hussein, per il quale la stessa opposizione italiana fu accanitamente contraria e insistentemente pacifista. La Francia, potrebbe essere una risposta, allora non era in prima fila in Iraq. Lo era già stata nei Balcani e con effetti analoghi sulla nostra politica interna/estera. Come mai Berlusconi, dopo il baciamano di settembre a Gheddafi, oggi lo pugnala?

Sono queste le domande che Umberto Bossi va ponendosi, poiché sente puzza di eterodirezione sulla politica interna ed estera italiana, come accadde negli anni '90, com'egli sa molto bene. Un bel dubbio, non c'è che dire.


Libia. Compromesso sulla Nato
Adriana Cerretelli
BRUXELLES. Dal nostro inviato
Accordo politico di principio tra Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti, al termine di una giornata di consultazioni telefoniche per creare un comando unificato delle operazioni militari in Libia. Nel comando ci sarà anche la Nato ma leadership sarà internazionalizzata, secondo una formula ancora tutta da definire nei suoi dettagli concreti. Oggi a Bruxelles tornerà a riunirsi il consiglio atlantico. Alla nuova struttura parteciperanno i membri della coalizione, ma non tutti i membri della Nato, e i paesi arabi. La Germania ieri ha deciso di ritirare i 500 uomini e le due fregate con le quali era impegnata nel Mediterraneo.
La decisione è stata annunciata in tarda serata, dopo una giornata convulsa nel corso della quale erano emerse molto profonde le divisioni tra i 28 Paesi dell'alleanza atlantica: da una parte Italia e Gran Bretagna, cui ieri si erano aggiunti gli Stati Uniti, che insistevano perché il comando venisse affidato alla Nato e dall'altra Francia e Turchia che, pur con una posizione più morbida, continuavano ad opporsi.
Tutto questo non aveva impedito alla Nato di decidere il blocco navale. L'accordo raggiunto ieri a Bruxelles dai 28 paesi dell'Alleanza, che per decidere devono sempre ottenere l'unanimità dei consensi, prevedeva l'imposizione con la forza dell'embargo sulle armi alla Libia, in attuazione della risoluzione Onu n. 1973. Ad annunciarlo è stato Anders Fogh Rasmussen, il segretario generale dell'Alleanza: sotto il comando dell'ammiraglio Usa James Stavridis il cui quartier generale sarà a Napoli. Rasmussen ieri ha anche precisato che «sono ormai completati i piani per assicurare il rispetto della no-fly zone».
Dopo essere stata tentata dal disimpegno tout court, il più rapidamente possibile, per evitare di ritrovarsi militarmente impantanata nel terzo paese musulmano dopo Afghanistan e Irak, l'America di Barak Obama ieri ha sterzato, pronunciandosi in favore del comando Nato.
La scelta è stata annunciata con una dichiarazione della Casa Bianca al termine della telefonata di ieri tra il presidente Obama e il premier Tayyip Erdogan, che sembrerebbe aver avuto l'effetto di superare alcune delle obiezioni turche. Nel testo si dice che i due hanno concordato sul fatto che la missione militare in Libia includa i paesi arabi e avvenga «sotto l'unico comando multinazionale della Nato e relativo controllo delle capacità militari per assicurarne la massima efficacia». Questo non aveva impedito qualche ora prima a Erdogan di attaccare duramente i bombardamenti occidentali avvertendo che la Turchia «non punterà mai le proprie armi contro il popolo libico».
Fino a ieri l'intervento militare in Libia procedeva sotto il cappello di tre distinti comandi: americano, francese e inglese. Per questo l'Italia, in sintonia con la Gran Bretagna di David Cameron e ora gli Stati Uniti – come aveva ripetuto il ministro Franco Frattini – insisteva sul comando unificato Nato, ventilando l'ipotesi, in caso contrario, di riprendere il controllo delle 7 basi messe a disposizione della coalizione.
La Francia non pare disposta ad abbandonare le luci della ribalta libica, occupate con la "politica del primo colpo" contro il regime.
Nel tentativo di superare la polemica Nato sì, Nato no, e con la motivazione che l'Alleanza, in quanto invisa al mondo arabo, sarebbe lo strumento sbagliato da utilizzare nel ruolo di leadership delle operazioni, anche se "molto utile in funzione di supporto" della coalizione, ieri il ministro degli Esteri Alain Juppé ha lanciato così l'idea di creare una cabina di pilotaggio politico della missione della quale dovrebbero fare parte tutti i ministri degli Esteri dei paesi della coalizione e i 22 della Lega Araba. Chiamati a regolari incontri.

Libia: costo raid e no fly zone potrebbe arrivare a 700 milioni. 10:29 23 mar 2011
(AGI) - Washington, 23 mar. - Imporre la No Fly zone sulla Libia potrebbe arrivare a costare fino a un miliardo di dollari, piu' di 700 milioni di euro, se l'operazione dovesse trascinarsi per un paio di mesi. E' la stima di un esperto militare americano, Zack Cooper del Centro per le valutazioni strategiche e di bilancio. In base ai suoi calcoli, i soli raid per distruggere le difese aeree di Muammar Gheddafi sono costati ai Paesi della Coalizione dei volenterosi tra i 400 e gli 800 milioni di dollari (280-560 milioni di euro). Soli i missili da crociera Tomahawk lanciati da unita' Usa e britanniche hanno un costo stimato in 200 milioni di dollari. Secondo gli esperti, una volta conclusa la fase dei bombardamenti e dei raid aerei, le spese per il mantenimento della No Fly zone sono stimabili in una cifra compresa fra i 30 e i 100 milioni di dollari alla settimana. Si tratta di cifre comunque irrisorie rispetto alla guerra in Afghanistan, il cui costo per la coalizione internazionale e' stimato in nove miliardi di dollari al mese.

Egitto: chiesta l'incriminazione di Mubarak per omicidio. 09:12 23 MAR 2011
(AGI) - Il Cairo, 23 mar. - In Egitto e' stata chiesta l'incriminazione di Hosni Mubarak per omicidio volontario. La Commissione che indaga sulle violenze durante le manifestazioni contro l'ex Rais, dimessosi l'11 febbraio, ha chiesto alla procura di incriminare Mubarak e il suo ministro dell'Interno, Habib al-Adli per le uccisioni di centinaia di manifestanti. A riferirlo e' il giornale Al Ahram. Durante la Rivoluzione del 25 gennaio, almeno 360 persone morirono e migliaia rimasero ferite, spesso da colpi d'arma da fuoco, proiettili di gomma e getti degli idranti sparati dalle forze di sicurezza. L'ex ministro dell'Interno al-Adli, gia' rinviato a giudizio per riciclaggio e sperpero di denaro pubblico, e' accusato di aver ordinato di aprire il fuoco sui manifestanti. Per la repressione delle proteste sono gia' stati arrestati diversi alti ufficiali della polizia.

Trento. 500 profughi africani arriveranno in Tentino
23/03/2011 08:39
TRENTO - Il Trentino è pronto ad accogliere profughi provenienti dall'Africa. «Si tratta però di rifugiati politici - precisa il presidente della Provincia Lorenzo Dellai - non dell'emergenza di chi sbarca disperato». Tanto che, più che dalla Libia in fiamme e dal Nordafrica, potrebbero provenire soprattutto dai paesi subsahariani. Ieri l'assessore alla convivenza Lia Giovanazzi Beltrami ha partecipato a Roma al vertice tra il ministro dell'interno Roberto Maroni e le Regioni.

Il ministro ha delineato un piano che prevede un massimo di 50 mila richiedenti asilo da accogliere in proporzione alle dimensioni dei territori. In Trentino, quindi, dovrebbero essere circa 500 ma in pratica, affermano i vertici provinciali, saranno meno. «La riunione è stata interlocutoria - dice l'assessore Beltrami - Non ci è stata richiesta una esplicità disponibilità, abbiamo soprattutto ascoltato e chiesto chiarimenti tecnici». Il piano, ha dichiarato il ministro Maroni, «terrà conto nella distribuzione dei migranti del criterio del numero di abitanti per regione, nel senso che le regioni più popolose accoglieranno un maggior numero di persone, ma ci saranno dei correttivi: le regioni che hanno già una forte pressione migratoria (Sicilia, Calabria e Puglia) e l'Abruzzo che ha avuto il terremoto, saranno salvaguardate».

In base a questo criterio, al Trentino toccherebbe un massimo di 500 rifugiati. «Si dovrà tener conto, però, anche della conformazione del territorio - puntualizza Dellai - anche perché per le persone con i requisiti dell'asilo politico non si prevedono certo campi di tende, ma alloggi e altri servizi di accompagnamento e apprendimento linguistico». «Le stime sono teoriche, per ora - aggiunge Lia Beltrami - tuttavia dobbiamo essere pronti a condividere e preparati in caso di emergenza». Finora in Trentino i richiedenti asilo sono 30. «Li abbiamo accolti nell'arco di tre anni - precisa Beltrami - È la quota che ci è stata assegnata annualmente, ma ci vuole tempo per esaminare la pratica». La distinzione tra i profughi che potrebbero essere accolti e i nordafricani che stanno sbarcando a Lampedusa è netta ed è stata ribadita da tutti i governatori, soprattutto da quelli della Lega Nord come il veneto Luca Zaia . Si tratterà, più che di libici o di tunisini, di persone provenienti dal Corno d'Africa, come quegli eritrei cristiani che sono stati costretti nei mesi scorsi a vagare per tutto il Nordafrica senza essere accolti da nessuno. Ora, con la crisi del regime dispotico di Tripoli, il canale si è riaperto.

Vallee' d'Aoste: Emergenza sbarchi: la Valle d'Aosta pronta ad ospitare fino a 100 migranti
Due le condizioni: che si tratti di profughi e che l'accoglienza sia per un periodo transitorio
23/03/2011   AOSTA. La Valle d'Aosta ha risposto positivamente alla richiesta di un suo coinvolgimento nel "Piano profughi" del Ministero dell'Interno ed accoglierà fino ad un massimo di 100 migranti dal Nord Africa.
Il presidente della Regione, Augusto Rollandin, al termine della riunione di ieri a Roma con le Regioni ed il Ministro Roberto Maroni sull'emergenza sbarchi spiega che «anche la Valle d'Aosta ha offerto la propria disponibilità ad ospitare i migranti, a condizione però che le proporzioni siano quelle concordate, ovvero correlate al numero di abitanti di ogni regione».
«Alla luce di tale distribuzione, il numero ipotizzato sarà quindi di alcune decine, comunque sotto le 100 unità» precisa Rollandin.
«Abbiamo inoltre chiesto - riprende il presidente dell'Esecutivo regionale - che le persone da ospitare siano nella condizione di profughi, donne e ragazzi, e che l'accoglienza sia per un periodo transitorio. Poiché non disponiamo sul nostro territorio di grandi strutture, come invece possono fare le altre regioni, dovremo organizzarci perché i migranti siano ospitati in piccole unità».
Il "Piano profughi", secondo le stime del Viminale, riguarderà 50.000 migranti che giungeranno in Italia dai paesi del Maghreb. Tra gennaio e metà marzo, sempre secondo quanto riferito da Maroni, sono già giunti 15.000 immigrati.
redazione - e.g.

Udin. Tondo non vuole accettare altri profughi nel Fvg. di Anna Buttazzoni
Maroni: "esentate" le regioni già sotto pressione. Fontanini: «L'Europa deve fare la sua parte»
UDINE. Il governatore Renzo Tondo ripete: il Friuli Venezia Giulia ha già dato. Il suo vice, Luca Ciriani, è appena uscito dall'incontro con il ministro dell'Interno Roberto Maroni e i presidenti di Regione. Un appuntamento convocato al Viminale sull'emergenza-profughi. Le previsioni del ministro dicono che nei prossimi due mesi in Italia arriveranno 50 mila immigrati, mentre negli ultimi sessanta giorni sono stati 16 mila. Il ministro chiede quindi l'aiuto delle amministrazioni locali per l'accoglienza e dai governatori arriva il sì sperato da Maroni.

Da quasi tutte le Regioni, non dal Friuli Venezia Giulia. «Noi - conferma Tondo raggiunto al telefono mentre si trova in vista istituzionale in Romania - abbiamo già fatto la nostra parte. Anche altre Regioni che fino a ora non si sono mosse, diano segnali di disponibilità».

Il governatore quando ripete quanto fatto dalla Regione pensa al Cie - centro di identificazione ed espulsione - di Gradisca d'Isonzo. Una struttura al collasso, dove, dopo tentativi di fuga e rivolte, è rimasta agibile una sola camerata, otto letti in tutto rispetto ai 105 immigrati ospiti. Al Centro di Gradisca è dunque rivolto il pensiero di Tondo. Che se chiude le porte a nuovi arrivi in regione, non nasconde però il senso di solidarietà. «L'apporto del Friuli Venezia Giulia non mancherà per affrontare eventuali emergenze umanitarie», chiarisce ancora il governatore.
E Tondo trova sulla sua linea di pensiero il segretario regionale della Lega, Pietro Fontanini. «Sono assolutamente d'accordo con il presidente Fvg», fa sapere il numero uno della Lega, elencando le azioni pro-immigrati. «Nel Cie di Gradisca stiamo dando il nostro contributo per l'emergenza immigrazione - ripete Fontanini - e parliamo di una struttura piena, al limite. Per quanto riguarda il Friuli Venezia Giulia, però, penso anche ad altre situazioni, come all'accoglienza data in Carnia agli albanesi».Poi il leghista fa di più, sollecita l'Europa. «C'è l'emergenza profughi, è vero, ma mi auguro e mi aspetto una risposta dall'Unione europea. Perché - argomenta Fontanini - se la Francia è risoluta e lesta nel bombardare, dev'essere altrettanto brava sul fronte dell'accoglienza, che non può essere un problema solo italiano», conclude il segretario regionale del Carroccio.
Maroni però ha ricevuto l'ok dalle altre regioni italiane, pronte a ospitare i profughi che dovessero arrivare dal Nord Africa, con un criterio che sarà basato sul numero degli abitanti. «Si tratta di un piano d'emergenza - spiega il ministro - che prevede la distribuzione fino a un numero massimo di 50 mila profughi, una previsione che purtroppo temiamo essere molto realistica».
Maroni assicura che ogni regione sarà coinvolta e che il criterio della distribuzione terrà conto della «forte pressione migratoria» sostenuta da alcune, come Sicilia, Calabria e Puglia, e della «difficoltà di carattere umanitario», riferendosi all'Abruzzo terremotato.
Il ministro sarà oggi in Tunisia «per verificare con il governo locale iniziative in grado di mettere fine ai flussi migratori».

Varese. 50.000 profughi, Regioni pronte
Varese torna all’opera grazie ai fratelli Zecchini
Maroni ottiene il sì al suo piano. Anche la Lombardia in prima linea
di ELENA CRIPPA
La macchina dell'accoglienza è già in movimento: se ci sarà la temuta maxi ondata di profughi in fuga dal Nord Africa in guerra, le regioni italiane tenderanno le braccia a una Lampedusa ormai al collasso. E anche la Lombardia non sarà da meno, come ha garantito ieri il presidente Roberto Formigoni, annunciando che nei prossimi giorni sarà messa a punto una roadmap degli edifici e dei siti che potrebbero ospitare centinaia di "dannati" in fuga da una Libia "grandinata'"dalle bombe.
Il patto nel nome della solidarietà tra Governo, regioni ed enti locali è stato siglato ieri a Roma, al termine di un incontro convocato dal ministro Roberto Maroni per affrontare l'emergenza degli sbarchi sulle coste della Sicilia.
Se dalla Libia dovessero arrivare flussi massicci di profughi, i governatori si impegnano ad accoglierne fino a 50mila. E le regioni più popolose avranno un ruolo di maggior peso: stando alle linee guida messe a punto dal Viminale, infatti, gli esuli saranno ripartiti nella quota di mille per ogni milione di abitanti. "La Lombardia é pronta a fare la sua parte, come ha sempre fatto - osserva Formigoni - ma l'emergenza profughi non è solo una questione italiana. Anche gli altri Paesi europei, si devono far carico prontamente di questa accoglienza umanitaria". D'accordo anche l'assessore alla Sicurezza, Romano La Russa, che ieri ha rappresentato il Pirellone al Viminale. E' proprio lui a lanciare l'appello a Roma: "il criterio con cui saranno distribuiti gli immigrati, proporzionale alla popolazione residente in ogni regione, non penalizzi ulteriormente la Lombardia". Calcolatrice alla mano, infatti, la Lombardia, con i suoi 9 milioni di abitanti, dovrebbe farsi carico, nel caso di un'ondata eccezionale di profughi, di circa 9 mila esuli. Una cifra che preoccupa l'assessore che mette le mani avanti: " sul nostro territorio è già presente il 25% degli stranieri residenti in Italia". Paletti che erano già stati messi nei giorni scorsi dalla Lega con l’eurodeputato Matteo Salvini.

Milano. «Pronti ad accogliere 10 mila profughi»
La Regione: faremo la nostra per ospitare i libici. De Corato: noi abbiamo già dato abbastanza
MILANO - Erano gli unici che stavano perdendo radici in terra padana. Trent'anni fa i libici «milanesi» erano quasi duecento: oggi i residenti in città non arrivano alle 80 unità, mentre domani chissà, questione forse di pochi mesi, potrebbero sfiorare in Lombardia quota diecimila. Vietato però chiamarla emergenza. La questione profughi comincia però a scaldare i palazzi della politica milanese. Di ieri l'incontro dei rappresentanti delle Regioni al Viminale, dal ministro dell'Interno Roberto Maroni. Si disegnano scenari, si fanno ipotesi. La peggiore dice che in Italia potrebbero arrivare cinquantamila disperati in fuga da bombardamenti e guerre civili. Rifugiati.

Secondo i criteri dettati ieri dal Viminale - mille profughi ogni milione di abitanti - alla Lombardia ne spetterebbero novemila abbondanti. Cautela, prudenza. Ma la ricerca delle eventuali strutture «idonee a garantire ospitalità» è a buon punto. In città sarebbe per esempio a disposizione la (ex) caserma di viale Suzzani ed eventualmente un dormitorio in zona Gratosoglio. Ma si cerca anche e soprattutto fuori dai confini metropolitani. A Pavia sarebbe pronto l'ex Arsenale, nel Lecchese una struttura nel Comune di Vendrogno. E poi Lonate Pozzolo, vicino a Malpensa, mentre hanno perso quota le ipotesi Robecco sul Naviglio, Peschiera Borromeo e Bresso. «Siamo preoccupati» dice l'assessore alla protezione civile Romano La Russa, di ritorno da Roma. «Inutile nasconderlo - aggiunge -: si rischia l'invasione. E l'Europa non può far finta di niente. Io ho sommessamente fatto presente al ministro che in caso di disimpegno di Bruxelles noi dovremmo considerare anche l'ipotesi di un respingimento dalle nostre coste dei profughi».

Lampedusa scoppia, Milano litiga. Il governatore Roberto Formigoni prova a gettare acqua sul fuoco: «Il numero di 50 mila profughi dal Nord Africa che le Regioni si sono dichiarate disposte ad accogliere è un numero massimo teorico. E poi stiamo parlando di profughi e non di clandestini. Ogni quantitativo sarebbe spalmato sul territorio proporzionalmente al numero di abitanti delle singole Regioni. Se ci dovesse essere un'emergenza è giusto che la Lombardia faccia la sua parte». Ma Formigoni concorda col suo assessore soprattutto su un punto: «C'è la necessità che altri Paesi europei, a partire dai più zelanti nel condurre le operazioni militari, si facciano carico prioritariamente di questa accoglienza umanitaria». In particolare, Francia e Inghilterra. «Che hanno spinto al massimo per ottenere questa missione di "no fly zone" che potrebbe provocare un afflusso di profughi che vengono in Italia solo perché ha le coste più vicine, ma che devono essere considerati profughi da tutta Europa».

Attacca però il Pd, che col segretario regionale Maurizio Martina osserva: «È giusto e responsabile che tutte le regioni si facciano carico dell'accoglienza dei profughi. Ma il governo si è mosso tardi rispetto alla dichiarazione di disponibilità delle stesse Regioni formalizzata addirittura due settimane fa. Ci si doveva muovere prima, dando subito direttive precise. Qualora la Lombardia dovesse gestire direttamente una parte di questa situazione sapremmo di poter contare sull'efficienza della nostra protezione civile, che non ha eguali. Semmai il punto dolente è come opereranno alcune giunte comunali tra cui sicuramente Milano. Infine, dobbiamo constatare amaramente, ancora una volta, la debolezza in campo europeo del governo Berlusconi». E nonostante le direttive arrivate direttamente da Maroni, anche la Lega predica prudenza. «Riflettere seriamente sulle reali possibilità di accoglienza in Lombardia dei profughi», esorta per esempio il presidente dell'aula del Pirellone, Davide Boni. Più secco il vicesindaco Riccardo De Corato. «Semplicemente: Milano rischia d'esplodere».
Andrea Senesi


Padova. Zanonato: "Sul territorio il Carroccio fa solo propaganda". Il sindaco: "Ho mostrato a Maroni come ci insultano i suoi militanti". PADOVA. A modo suo, si è tolto una soddisfazione. Flavio Zanonato, sindaco democratico e uomo-simbolo dell'Anci, da giorni aspettava il confronto diretto con i leghisti delle istituzioni di fronte al ministro leghista del Viminale. Ieri ha aspettato anche la fine del summit. Poi ha affrontato Roberto Maroni: «Da persone schiette. Gli ho ricordato che non è certo il massimo per un sindaco essere attaccato dal partito della sua maggioranza solo perché si muove in base alle indicazioni di governo e prefetto».
Il banchetto leghista contro i clandestini alla caserma Romagnoli, giusto?
«Appunto. Gli ho mostrato il manifesto che attaccava anche il prefetto Sodano...»
E lui?
«Ha replicato dicendosi informato. "So che anche a Rovigo la Lega mi ha contestato" ha aggiunto...»
Sindaco, e con Luca Zaia com'è andata a Roma?
«L'ho salutato. Eravamo vicini. Zaia ha fatto un intervento durato... 7-8 secondi. D'accordo con Cota: impedire l'arrivo dei clandestini. Ecco il suo contributo».
E poi?
«Alla fine, ci siamo salutati di nuovo. Ho salutato anche Beltotto. Nonostante abbia recentemente cercato di "stanare" Zaia per quel che gli compete da guida della Regione, non mi ha mai risposto nel merito».
Sindaco, torniamo al focus della riunione?
«Volentieri, ma va fatta una distinzione. Altrimenti, si fa confusione...»
Prego.
«Un conto sono gli immigrati che sono, come dire?, già arrivati o in arrivo. Un altro conto è il piano predisposto in vista dell'emergenza che riguarda la Libia».
Andiamo con ordine?
«Il ministro Maroni ha comunicato che a Lampedusa risultano, nel momento in cui ci parlava, sbarcati 4.822 immigrati per lo più tunisini. Metà ha chiesto asilo. Ce ne sarebbero altri 10 mila che non si capisce bene come, dove, quando in arrivo».
Su questo «fronte», cosa succede?
«Come Anci, abbiamo rinnovato la nostra collaborazione. In particolare, con i "micro-progetti" Sprar: significa Sistema protezione per i richiedenti asilo e rifugiati. Vede impegnati circa 200 Comuni e 16 Province. Così ospitano circa 3 mila persone. Progetti finanziati: con 35 euro al giorno per immigrato (rispetto ai 60 che altrimenti paga il governo) si avviano forme di integrazione e formazione. A Maroni abbiamo chiesto di garantire finanziamenti a progetti che porterebbero a 4.125 il numero degli ospitati».
Secondo tema del vertice: il flusso dalla Libia.
«Il ministro (che venerdì incontrerà i prefetti a Venezia, e si parlerà anche di profughi ndr) ha comunicato che sono previste 50 mila persone: occorre predisporre un sistema per far fronte a questi arrivi. Si tratta di profughi di un teatro di guerra da trattare conseguentemente».
Alla comunicazione cos'è seguito?
«L'intervento di Vasco Errani (che presiede l'Emilia e la conferenza delle regioni). Ha scandito: alt, vanno spalmati in tutto il territorio».
E sarà effettivamente così come richiesto?
«Con l'eccezione dell'Abruzzo alle prese con il post terremoto. Maroni si è impegnato a stilare un piano su base regionale. E in base a questo si vedrà di suddividere gli arrivi con le prefetture ed i Comuni».
Numeri, tempistica, destinazioni?
«Per questo bisognerà aspettare che Maroni presenti il piano».
E la Romagnoli?
«Buona per l'indegna propaganda leghista, come ho ricordato al ministro».
Alla fin fine, se e quando sarà, magari serviranno altri tipi di strutture?
«Di certo, occorre lo spirito di correttezza istituzionale. Magari, in collaborazione con le associazioni e il volontariato. Mi limito solo ad osservare che stiamo parlando di profughi. Gente che non si può rinchiudere in un Cie come i clandestini. Le caserme non si prestano al massimo per chi sarà libero di muoversi. Meglio immaginare strutture di tipo "alberghiero". In ogni caso, prima di tutto serve il piano Maroni».

Stato e imprese fanno blocco e la Francia vince sui mercati
Marco Moussanet
PARIGI. Dal nostro corrispondente
Il protagonismo francese di queste settimane sulla scena internazionale, politica ed economica, è il frutto insieme di una debolezza e di una forza. La debolezza di un presidente e la forza di un sistema.
Nicolas Sarkozy, che sul fronte interno registra livelli storici di impopolarità, aveva deciso di giocare tutte le sue carte sulla visibilità nelle iniziative all'estero, cercando di approfittare della contemporanea guida del G-8 e del G-20 per recuperare consensi in vista delle presidenziali del maggio 2012. Ma l'anno si è aperto in modo a dir poco disastroso. La gestione della vicenda tunisina è stata imbarazzante, per una media potenza che sogna ancora di essere grande, a maggior ragione sulla sponda Sud del Mediterraneo. E ha costretto Sarkozy a sbarazzarsi del proprio ministro degli Esteri, Michèle Alliot-Marie, nominato appena tre mesi prima.
Con la Libia è stato ben attento a non commettere gli stessi errori. Appena ha visto che si presentava l'occasione di diventare agli occhi del mondo (arabo e non) il salvatore degli oppressi contro un personaggio impresentabile come Gheddafi ne ha subito approfittato. In maniera persino troppo precipitosa, tanto da mettere inizialmente in difficoltà il navigatissimo Alain Juppé, nuovo titolare del Quai d'Orsay. Per ora gli è andata bene, la Francia è con lui.
Quanto all'offensiva industrial-finanziaria scatenata in Italia la tempistica è del tutto casuale, nel senso che ognuna delle operazioni realizzate o tentate fa storia a sè. Ed è il frutto di scelte che vengono da lontano, dagli anni 70 e 80.
Quando infatti in Italia impazzava lo slogan "piccolo è bello", inneggiando ai meriti (che peraltro ci sono stati) delle piccole e medie aziende familiari, in Francia si optò per i "campioni nazionali" e le filiere industriali. Nell'energia, nella finanza (banche e assicurazioni), nella difesa, nei trasporti, nelle costruzioni, nell'agroalimentare. Per citare solo i settori più rilevanti.
Scorrere la lista delle società del Cac 40 è abbastanza impressionante: da Axa a Vinci è un lungo elenco di gruppi che stanno nelle top five o al massimo nelle top ten mondiali. La seconda caratteristica di queste grandi aziende è di essersi fortemente internazionalizzate da tempo. Mentre molti altri ci stavano ancora arrivando, negli ultimi anni hanno potuto consolidare la loro presenza sui mercati che solo per abitudine continuiamo a chiamare emergenti. Un esempio per tutti, scelto da un comparto - quello del lusso - che sta andando per la maggiore: Lvmh, che ora si è comprato Bulgari, ha aperto il suo primo negozio in Cina vent'anni fa.
Quando una piccola o media azienda italiana, per gioiellino che sia, ha bisogno di crescere e di avere sbocchi sui mercati più promettenti è quindi normale che la sponda francese sia la più allettante.
Senza peraltro trascurare che lo shopping non è avvenuto solo in Italia ma, rimanendo in Europa, anche sugli altri mercati più permeabili: la Spagna (per esempio nella grande distribuzione) e la Gran Bretagna (l'acquisizione di International Power da parte di Gdf Suez è stata la più grande operazione di m&a del 2010).
A questi elementi se ne aggiungono almeno altri due. Da un lato i rapporti interni - e le complicità - di una classe dirigente che ha fatto in larga parte lo stesso percorso formativo, quello delle grandi scuole, e dall'altro l'interventismo pubblico. Che a sua volta si esprime in due modi. Il primo riguarda la presenza che lo Stato azionista ha ancora oggi in molte aziende ritenute di interesse nazionale, nell'energia, nella difesa, nei trasporti (gli asset pubblici sono stimati in circa 660 miliardi e continuano a crescere con l'utilizzo del Fondo strategico voluto da Sarkozy). Il secondo la sua capacità di fare pressione sulle singole operazioni. Quando PepsiCo fece capire di avere mire su Danone il governo trovò il modo di mobilitare gli agricoltori e nel contempo fece sapere al governo americano che l'operazione non sarebbe stata ben vista.
Eccoli, i veri meccanismi anti-Opa dei francesi. Eccoli, i veri strumenti di quello che loro chiamano «patriottismo economico» e altri protezionismo. La legge (il decreto di fine 2005 su difesa e sicurezza nazionale) non c'entra nulla.

Rischio retrocessione per l'Italia
MARIO DEAGLIO
Ieri Bulgari, oggi Parmalat? Le acquisizioni straniere di imprese italiane non comprendono solo marchi notissimi della moda come Valentino, Gucci e Ferré. L’elenco si allunga sensibilmente se, oltre al «Made in Italy», si considerano banche e società finanziarie.

A queste si aggiungono le piccole e medie imprese industriali operanti soprattutto in «nicchie» molto specializzate sulle quali dovrebbe basarsi il futuro produttivo del Paese. Non bastano a fare da contraltare le pur numerose acquisizioni italiane di imprese straniere: se si eccettua il caso Fiat-Chrysler, decisamente atipico, in questi ultimi anni gli acquisti all’estero sono stati prevalentemente effettuati da imprese medie e medio-piccole impegnate in una difficile crescita internazionale mentre l’estero mira tranquillamente ai bersagli grossi.

Perché imprese che sono diventate sinonimo di eccellenza, simboli mondiali della capacità italiana di produrre bene non attirano a sufficienza l’interesse (e i capitali) degli investitori italiani? Perché Prada, altro grosso nome della moda ha scelto addirittura Hong Kong e non Milano per quotarsi in Borsa? Perché, come documentato alcuni mesi fa da questo giornale, oltre un centinaio di piccole imprese hanno lasciato la Lombardia per trasferirsi in Svizzera?
Non ci sono risposte facili ma è possibile individuare un fattore importante, di tipo culturale prima che finanziario, che riguarda il modo di agire degli imprenditori italiani: pieni di inventiva e di coraggio quando si tratta di realizzare nuovi prodotti, non lo sono altrettanto quando si tratta di impegnare fino in fondo nelle aziende i propri capitali. Spesso geniali, tra un colpo di genio e l’altro, non amano le strategie «lunghe» e noiose, assomigliano più a Garibaldi che a Napoleone.
Per non fare il passo più lungo della gamba, hanno tradizionalmente ricercato la «sponda» delle banche o del settore pubblico per finanziamenti, garanzie e occasioni di crescita mentre i loro colleghi stranieri ricercano prima di tutto il consenso, e quindi i finanziamenti, del mercato. Dalle banche e dal settore pubblico non possono più ricevere, a differenza del passato e a causa della crisi finanziaria, garanzie sufficienti a costituire un piedistallo sul quale poggiare l’espansione della loro azienda o finanziamenti sufficienti per sostenere lunghe strategie espansive. E la Borsa, dalla quale in teoria potrebbero provenire nuovi capitali e nuove idee, sembra aver perso slancio dopo l’unione con Londra: i progetti migliori e gli affari più importanti passano sempre più frequentemente per la capitale britannica, o per il lontano Oriente, mentre le famiglie sono tradizionalmente molto caute e timorose nell’impiegare i loro risparmi in titoli azionari.
Soli e stanchi, gli imprenditori cercano un’altra «sponda». La trovano sovente all’interno di grandi gruppi stranieri che da un lato impongono loro una disciplina finanziaria che raramente saprebbero darsi da soli, dall’altro forniscono garanzie sugli sbocchi produttivi che altrimenti non potrebbero più trovare. La loro stanchezza fa da contrappunto alla visibile stanchezza del sistema politico nazionale, incapace di formulare, o anche solo di indicare, linee guida per la crescita. E non è possibile dimenticare le notissime complessità amministrative, la pesantezza fiscale, la penalizzazione di fatto delle iniziative nuove, che fanno scappare in Svizzera le impresine lombarde, né la mancanza di garanzia sulla sicurezza personale in alcune aree del Paese.
In questo modo il sistema produttivo tende lentamente ad assottigliarsi, a perdere energie e punti di orientamento così come una perdita di energia e di orientamento è chiaramente visibile dalla mancanza di obiettivi generali di lungo periodo. Il confronto con la Francia è particolarmente bruciante se si considera che la Danone (che può essere considerata la «Parmalat francese») è stata, nel corso degli anni, incoraggiata a crescere mediante fusioni e acquisizioni all’interno della Francia, con l’obiettivo specifico, condiviso da governi di vario orientamento, di farne un leader del settore alimentare europeo e mondiale.
In Italia, l’interesse sul caso Parmalat si è incanalato pressoché unicamente sulle questioni giudiziarie, sul passato - naturalmente degno della massima attenzione e rispetto - dei risparmiatori da risarcire e non sul futuro, ossia sulle strategie, di una Parmalat rimessa a nuovo con alle spalle un’importante e preziosa esperienza multinazionale. Proprio per questa mancanza di sensibilità alle strategie future gli italiani sono stati completamente spiazzati dall’azione finanziaria francese, condotta con rapidità ed efficienza.

In Francia, nel 2005 un tentativo di scalata alla Danone da parte dell’americana Pepsi fu respinto con decisione dal governo. Successivamente la Danone fu inserita in un ristretto gruppo di imprese dichiarate irrinunciabilmente francesi, una protezione molto discutibile ma applicata, in una forma o nell’altra, nei principali Paesi «di mercato», Stati Uniti compresi, per quanto riguarda le industrie ritenute essenziali. In Italia, la Parmalat è alla mercé di qualsiasi azione acquisitiva di chi si dimostri sufficientemente intraprendente, svelto e amante del rischio per comprarsi, nello spazio di qualche settimana, una bella azienda con oltre 4 miliardi di fatturato. E proprio per non essere amante del rischio, l’Italia rischia grosso: di non ritrovarsi più prima fila nell’economia globale.

Parmalat, sale quota Lactalis e titolo cede. Ore cruciali per il futuro dello stabilimento di Collecchio. Ieri, i francesi di Lactalis sono riusciti nel loro intento di acquisire la quota del 15% dei fondi scandinavi Zenit e Skagen As, arrivando così al 29% del capitale di Parmalat. Una mossa che ha spiazzato gli italiani, che coordinati dall’ad di Intesa, Corrado Passera, avrebbero voluto acquisire loro la quota dei fondi per potere mettere con le spalle al muro i francesi. Ma la lentezza della cordata italiana, in particolare di Ferrero, è stata disarmante e così oggi Parmalat è sempre più francese e gli italiani tratteranno, se potranno e vorranno farlo, da una posizione di minoranza con Lactalis.

Non avendo ricevuto comunicazione alcuna, infatti, i due fondi hanno preferito vendere le loro azioni alla buona cifra di 2,80 euro ciascuna. Un prezzo di tutto riguardo, se pensiamo che ieri il titolo è scivolato sotto 2,30 euro.

Adesso, la costituenda cordata dovrà acquisire le azioni altrove, magari rivolgendosi ai piccoli azionisti o trattando una compravendita con la stessa Lactalis, ma a questo punto il conto sarebbe salatissimo. La quota in mano ai francesi vale infatti 1,5 miliardi e difficilmente essi rivenderanno agli italiani, dato che puntano al rinnovo del cda previsto a metà aprile, quando potranno avere un management amico.

Difficile sapere cosa avverrà. La sensazione è che Ferrero, Granarolo e Intesa non staranno con le mani in mano, ma dovrebbero almeno imparare ad essere più pronti e meno elefantiaci, quando vogliono operare sui mercati. Per ora, il primo round è francese!

Tassa sulle calamità e commissari: il no delle Regioni
di di Anna Buttazzoni
Il vicepresidente Ciriani al vertice con il governo. Saro: nessun rischio per la terza corsia dell'A4 e la laguna
UDINE. La modifica della "tassa sulle calamità" e delle nuove procedure per le gestioni commissariali. Il Friuli Venezia Giulia punta a trasformare il Milleproroghe che ha introdotto la "rivoluzione" nel sistema di Protezione civile. Ieri a Roma, alla Conferenza delle Regioni, il vicepresidente Fvg Luca Ciriani ha ribadito l'atteggiamento dell'amministrazione, che corrisponde a quello degli altri governi regionali. Il provvedimento - è la sintesi dell'incontro - va cambiato. «Il nostro giudizio sugli elementi introdotti è fortemente critico e negativo», ha confermato Ciriani. La prossima mossa è dunque un vis-à-vis con il governo, in primis con il ministro per la Semplificazione Roberto Calderoli (Lega) che Vasco Errani, presidente della Conferenza delle Regioni, dovrebbe incontrare già oggi.

Il Milleproroghe ha introdotto la "tassa sulle calamità": davanti a un disastro le Regioni dovranno rispondere con proprie risorse, se serve aumentando le tasse o l'accise sulla benzina. Anche perché il Fondo di Protezione civile dello Stato è azzerato. Quello della Regione Fvg, invece, ammonta a circa 21,5 milioni e comprende anche le spese ordinarie della struttura, dagli stipendi al funzionamento delle sedi fino alle attrezzature. «Il decreto del governo - ha spiegato Ciriani - prevede che davanti a un disastro le Regioni riparino i danni con risorse proprie, aumentando le tasse. Questo meccanismo è obbligatorio, noi invece chiediamo che sia programmato come eventuale o complementare rispetto all'intervento dello Stato, perché è penalizzante e mette a rischio la funzionalità della Protezione civile».

Altro capitolo è quello che riguarda le gestioni affidate a strutture commissariali in base a ordinanze della Protezione civile. In Friuli Venezia Giulia le due "emergenze" assegnate a un commissario sono la terza corsia - incaricati a seguirla il presidente Fvg Renzo Tondo e l'assessore alle Infrastrutture Riccardo Riccardi - e la bonifica della laguna di Grado e Marano, consegnata a Gianni Menchini. Due gestioni affidate commissariali nate dall'esigenza di accelerare gli iter burocratici e quindi le esecuzioni dei lavori. Un'esigenza che ora il Milleproroghe potrebbe annullare, perché d'ora in poi per qualunque azione o per realizzare un'opera saranno necessari il parere preventivo dal ministero delle Finanze e dalla Corte dei conti.

Tondo ha già fatto sapere che la norma va modificata, altrimenti non sarà garantita l'operatività della struttura commissariale per l'allargamento della A4. Ciriani rafforza il Tondo-pensiero. «Si tratta di un grosso appesantimento delle procedure che - ha aggiunto il vicepresidente Fvg - non ha senso d'esistere se si vogliono velocizzare gli iter. Capisco che negli anni c'è forse stato un uso improprio delle ordinanze di Protezione civile, ma ora le gestioni commissariali rischiano di diventare farraginose. Chiediamo quindi - ha concluso Ciriani - che il nuovo meccanismo si applichi solo ai futuri commissari o che si chiarisca nel dettaglio il rapporto con la Corte dei conti». Ciriani sarà di nuovo a Roma domani. Quando ciò che sarà della Protezione civile si farà più chiaro. Forse.

A difendere il Milleproroghe è invece il senatore del Pdl Ferruccio Saro. «La terza corsia e la laguna di Grado e Marano non corrono alcun rischio perché le risorse che sono a disposizione non saranno toccate. Era necessario, invece - ha detto Saro -, introdurre uno strumento per il controllo delle spese, perché è inaccettabile che lo Stato non ne sia a conoscenza. Per questo serviranno i pareri del ministero e della Corte dei conti, che però avranno l'obbligo di rispondere entro sette giorni. Non ci saranno problemi perché nessuno ha interesse a bloccare opere prioritarie per il Friuli Vg».

Nucleare in Veneto anche la Lega dice no
Pdl isolato: «E’ la solita politica dei due forni» Interrogazione a Bruxelles sull’impianto sloveno: si controlli Krsko
VENEZIA — Colpo di scena nucleare. Le paure di Fukushima non spingono soltanto il governo a rivedere i suoi piani atomici (il ministro Romani proporrà all’esecutivo una moratoria di un anno) ma anche la Lega Nord a chiarire una volta per tutte la sua posizione sul punto, dopo un saliscendi da brivido tra Roma e Venezia. E così, proprio nel giorno in cui era prevista la discussione in consiglio regionale delle mozioni Pd e Idv e delle risoluzione della Federazione della Sinistra (tutte, va da sé, «no nucleari»), il capogruppo del Carroccio Federico Caner ha tirato fuori dalla tasca una mozione verde padano in cui si legge, all’ultimo punto: «Si impegna la giunta regionale ad esprimere parere negativo all’installazione di una centrale nucleare nel territorio della Regione Veneto». Stop. Caustico il commento di Laura Puppato, Pd: «Come già nel caso dell’Unità, siamo al pentitismo elevato a sistema di governo. Ormai sono i sondaggi a decidere per loro». Mentre Dario Bond del Pdl attacca: «La politica dei due forni non può funzionare sempre e comunque». La posizione del governatore Luca Zaia, quanto al ritorno dell’atomo, è arcinota: sì al nucleare in Italia, no al nucleare in Veneto. Perché «non ci sono le condizioni».

Il gruppo leghista di stanza a palazzo Ferro Fini si mette in scia e nella mozione inanella le seguenti ragioni: innanzitutto «il Veneto, rispetto alle altre Regioni italiane, vanta già un cospicuo "pacchetto energia" garantito dal rigassificatore in alto Adriatico e dalla riconversione al carbone della centrale di Porto Tolle». In più, «è fortemente antropizzato e quindi non sussistono i requisiti di morfologia del territorio e densità demografica per poter collocare una centrale nucleare» che, per giunta, «potrebbe avere conseguenze negative sull’economia turistica del Veneto, che rappresenta la maggiore "industria" della regione» e semmai venisse collocata «in zone agricole di particolare pregio rispetto al contesto paesaggistico culturale o caratterizzate da produzioni agro-alimentari di qualità, comprometterebbe negativamente la valorizzazione delle tradizioni agroalimentari locali e di qualità presenti nel nostro territorio ». Non basta? «Il Veneto presenta alti livelli di rischio sismico».

La mossa leghista spiazza l’alleato pidiellino, rimasto adesso isolato nella sua posizione «possibilista », e infatti il capogruppo Bond non la prende tanto bene: «E’ chiaro che quel che è successo in Giappone impone una pausa di riflessione ad ogni livello, così come è noto che in Veneto la sismicità del territorio e l’assenza di zone adeguate, non turistiche, con la disponibilità d’acqua richiesta, depongono a favore del no a centrali qui. Oggi la Lega presenta questa mozione, e va bene, ma come la mettiamo con la disponibilità manifestata da Zaia al governo? Non si può giocare sempre su due tavoli, così è troppo comodo». Caner allarga le braccia: «La questione è troppo delicata, va ben oltre gli accordi di partito. Come per l’aborto, lasciamo libertà di coscienza ». E il sì a Roma? «Non è cosa che riguarda il nostro gruppo in Regione». E mentre l’eurodeputato Pdl Sergio Berlato, coordinatore per il Nord Est del movimento ecologista Fare Ambiente, rincara: «Le ambiguità di comodo della Lega favoriscono le strumentalizzazioni della sinistra», la sua vicina di scranno a Bruxelles Mara Bizzotto presenta un’interrogazione alla Commissione europea chiedendo che intervenga «con urgenza per verificare le effettive condizioni in cui opera la centrale nucleare di Krsko, in Slovenia, costruita in zona sismica a poche centinaia di chilometri dal confine italiano e austriaco e a soli 240 chilometri in linea d’aria da Venezia.

Le poche e fumose rassicurazioni della Slovenia non bastano, - scrive l’eurodeputata leghista - soprattutto se si considerano i ripetuti e recenti incidenti verificatisi in questa centrale, che desta moltissime preoccupazioni ed apprensione non solo nel Nord Est, ma anche nella vicina Austria, come dimostra la presa di posizione del ministro austriaco dell’Ambiente Nikolaus Berlakovich».
Marco Bonet

Treviso. La Lega esce due volte dall'aula. Presenti i lavoratori di Susegana: «Stanchi di essere strumentalizzati». di Renza Zanin. CONEGLIANO. Lo avevano detto i lavoratori dell'Electrolux prima del consiglio comunale di ieri sera in cui veniva discussa una mozione sulla loro vicenda: «Siamo stanchi di essere strumentalizzati in vista delle elezioni», ma quella a cui hanno assistito è stata l'ennesima discussione politica, con la maggioranza spaccatasi con l'uscita della Lega dall'aula. «Perché non è stato raggiunto l'accordo con l'amministrazione e la maggioranza», ha spiegato a margine il capogruppo della Lega, Giovanni Bernardelli. Due i punti che hanno creato la diatriba: la modifica del regolamento dell'imposta comunale sugli immobili e la modifica del regolamento per la vendita dei beni immobili di proprietà comunale. Se il primo punto ha ricevuto l'approvazione della maggioranza rimasta in aula, il secondo ha dato vita a un botta e risposta tra maggioranza e opposizione con sospensione del consiglio comunale di tre minuti. Il Pd ha prima proposto il ritiro del punto con il consigliere Borsoi e poi minacciato di far cadere il numero legale con Feltre. Il presidente del consiglio Floriano Zambon ha definito «di buon senso» la proposta di ritirare il punto e proseguire nella discussione con il punto seguente all'ordine del giorno: la mozione sulla questione Electrolux. Feltre ha accettato di rimanere in aula «per rispetto dei lavoratori dell'Electrolux», lo stesso ha fatto il Pdl per bocca del capogruppo Dugone. Diverso l'intervento di Mauro Luigi Deidda (An nel Pdl) che, prima di abbandonare l'aula, ha dichiarato «Se avessimo un minimo di dignità dovremmo abbandonare l'aula - afferma Deidda - e lasciare i tre galopppini della Lega da soli con le loro responsabilità davanti ai lavoratori Electrolux». La discussione della mozione è proseguita in sua assenza, ma con il rientro della Lega in aula. Chiedevano «concretezza» i lavoratori dell'Electrolux, lo ha fatto per loro fuori dall'aula Gabriele Manfrin, delegato Rsu Fiom Cgil, hanno ricevuto reciproche accuse tra maggioranza e opposizione anche su una questione che riguarda il loro futuro.

Venezia. Ecco tutti gli affari immobiliari dell'Usl 12 di Venezia. Dal 2000 ad oggi si contano 101 vendite di immobili di proprietà dell’Usl 12 nel centro storico. E nessuno sa quanti sono e quanto rendono. Ecco come si possono dribblare le graduatorie degli affitti. VENEZIA. Dal 2000 al 2011 si contano 101 vendite di immobili di proprietà dell'Usl 12 nel solo centro storico di Venezia. Il numero arriva dalla Conservatoria degli atti immobiliari, dunque è inoppugnabile. Sono tanti, sono pochi? Tendiamo a rispondere che sono tanti, per il semplice motivo che nemmeno il direttore generale Toni Padoan voleva crederci. Non si ricordava un numero così elevato, benché più di metà di questi passaggi di proprietà risultino registrati in un solo anno, il 2003, quando lui era alla guida dell'Usl Veneziana ormai da 24 mesi. E solo tre prima del 2001, l'anno del suo insediamento. C'è una spiegazione possibile: la vendita di beni di enti come le Usl segue un processo lungo. L'avvio dell'iter va senz'altro retrodatato, forse addirittura agli anni Novanta. Ed è vero che i grandi lotti di queste vendite non sono molti: l'Ospedale al Mare, l'Umberto I di Mestre, l'isola delle Grazie, il palazzo ex Inam ai Tre Ponti. Al quinto piano della direzione generale di Mestre considerano tutto il resto minutaglia: piccoli vani, negozi, magazzini. Spesso male in arnese, lasciati andare in abbandono dal Comune di Venezia, al quale la legge affidava la gestione del patrimonio della sanità.

Quanto ha reso la vendita di questa «minutaglia»? Chi lo capisce è bravo. Da un elenco di immobili alienati fino al 2003 saltano fuori 13 milioni di euro. Tutti reinvestiti - tiene a precisare Padoan - per migliorare la sanità veneziana. Se invece conteggiamo le cifre citate nelle delibere regionali che autorizzavano le vendite dal 2000 al 2011, siamo tra i 130 e i 150 milioni di euro.

Poco, tanto? Forse le domande da fare sono altre: c'è qualche posto che può essere considerato di scarso valore a Venezia? Il patrimonio dell'Usl Veneziana arriva da lasciti secolari, è sottoposto a vincoli. Una volta alienato il bene, cosa resta all'Usl: la cassa, che si rivaluta meno di una cantina?

Partiamo da Venezia, città esclusiva, e dall'Usl 12, grande proprietario immobiliare, per un viaggio tra i patrimoni degli enti pubblici del Veneto, adesso che tutti stanno aspettando l'arrivo del decreto sul federalismo demaniale: trasferirà alle Regioni molte proprietà dello Stato, c'è una guerra in corso per intercettarle, con strategie adeguate. La tecnica per il demanio statale prevede come prima mossa il declassamento del bene: si prende atto che l'immobile è vecchio e cadente, oppure che non serve più allo scopo per il quale era stato costruito. In entrambi i casi è aperta la porta per la vendita: a chi, a che prezzo? Domanda oziosa: c'è sempre qualcuno già dentro che avrà il diritto di prelazione. Naturalmente la perizia per stabilire il prezzo sarà affidata da uffici dello Stato ad altri uffici dello Stato. Una procedura super partes, a prova di bomba, che fa arrivare il bene al destinatario che vogliamo. Con i dovuti adattamenti può essere applicata a qualunque patrimonio pubblico: Usl, Ipab o Ater.

Sugli affitti arriva un business ancora più grosso. I criteri per le assegnazioni sono rigorosamente pubblici, ma per uscire dalle graduatorie basta ad esempio che l'affittuario si impegni a ristrutturare l'immobile. Magari promettendo un impegno a 5 zeri, tanto più che una parte viene sostenuta dall'ente. C'è qualcuno che andrà a controllare? Solo a Venezia centro storico, dati del Catasto, l'Usl 12 ha 251 immobili. L'Ire, l'antico Istituto di ricovero ed educazione, ne ha addirittura 709. Venezia non è un caso unico: nelle città capoluogo di provincia le Ipab, ex Opere pie, sono titolari di grandi proprietà, per lo più frutto di lasciti e donazioni. Formalmente si tratta di enti pubblici, amministrati da persone indicate dai Comuni, che gestiscono il patrimonio attraverso procedure sottoposte al controllo delle Regioni. Ma periodicamente emergono scandali: dal Pio Albergo Trivulzio di Milano alla Fondazione Breda di Ponte di Brenta, Padova. Nel Veneto la legge di riforma delle Ipab, imposta da Titolo V della Costituzione, è in discussione da dieci anni. Entriamo nell'undicesimo, senza che si capisca chi frena. di Renzo Mazzaro

Bozen. Redditi: a Bolzano 1.600 contribuenti oltre i 100 mila euro.
di Davide Pasquali
BOLZANO. In città i Paperoni - se così si può definire chi dichiara un reddito imponibile ai fini delle addizionali Irpef superiore ai centomila euro - sono soltanto 1.593, su un totale di 64.022 persone fisiche che nel 2009 hanno versato imposte al Fisco. In totale, i bolzanini hanno dichiarato redditi totali per quasi 1,8 miliardi di euro. In media, fanno 27.789 euro pro capite. Sono i dati appena pubblicati dal Dipartimento delle finanze presso il Ministero dell'economia.

LE DICHIARAZIONI. Riguardano il reddito imponibile ai fini delle addizionali Irpef, ossia il valore sul quale si applica l'aliquota per determinare le addizionali regionale e comunale. Si tratta, per la precisione, del reddito complessivo al netto del reddito relativo all'abitazione principale e degli oneri deducibili. I dati appena pubblicati riguardano l'anno di imposta 2009 e sono stati desunti dalle dichiarazioni dei redditi presentate dai contribuenti e trasmesse all'Agenzia delle entrate fino alla fine di ottobre 2010. Si tratta delle dichiarazioni Unico e 730 presentate dalle persone fisiche e delle dichiarazioni 770 presentate dai sostituti d'imposta, tipologia che comprende sia i datori di lavoro dipendente e/o di lavoro autonomo sia gli enti erogatori di pensione. Dai modelli 770 sono stati ovviamente estratti i soli dati riferiti ai contribuenti, cioè alle persone fisiche, che non hanno presentato i modelli 730 o Unico. Questa la doverosa premessa.

POCHI PAPERONI. Le tabelle ministeriali pubblicate online suddividono i contribuenti per classi di reddito complessivo in euro. In totale, come detto, il reddito complessivo dichiarato dai bolzanini assomma a 1,78 miliardi di euro, spalmati su 64.022 contribuenti. Facendo la media - anche se mai come in questo caso poco indicativa - si parla di circa 27.800 euro a testa. Però le classi di reddito sono ovviamente molto dissimili fra loro. Si dividono sostanzialmente in tre grandi famiglie. La prima e l'ultima con meno rappresentanti, la mediana che contiene la maggior parte dei contribuenti bolzanini. La prima fascia è quella di chi sta sotto i 10.000 euro l'anno, e parliamo di 6.355 persone; i bolzanini che stanno fra i 10.000 e i 50.000 euro l'anno sono 51.817; e infine ci sono quelli che guadagnano più di 50.000 euro, che in totale sono 9.512. Le fasce più basse
contano poche centinaia di persone fisiche l'una; le più elevate stanno fra le mille e le duemila persone l'una.

IL RAFFRONTO. Effettuando un raffronto con il 2005, emerge che i redditi complessivi sono lievitati da 1,58 a 1,78 miliardi di euro, mentre i contribuenti sono saliti di numero da 63.522 a 64.022. L'unico fenomeno degno di nota è che sono diminuite di numero le persone che appartengono alle fasce di reddito comprese fra i 2.000 e i 26.000 euro, mentre sono salite di numero quella sotto i 2.000 e tutte quelle sopra i 26.000. Il dato che comunque colpisce di più, è il limitato numero di chi appartiene alle classi di reddito superiori: 1.734 bolzanini fra i 50.000 e i 60.000 euro; 974 fra i 60.000 e i 70.000 euro; 1.549 fra i 70.000 e i 100.000; 1.593 oltre i 100.000 euro. Numeri che, specialmente l'ultimo, a ben vedere lasciano piuttosto perplessi in una città benestante come Bolzano.

PREZZI. Intanto, l'Osservatorio provinciale ha rilevato i prezzi del minipaniere di dicembre (39 prodotti fra generi alimentari, mobili, servizi e spese di ristorazione). Il confronto fra singoli prodotti di marca a Bolzano, Innsbruck e Trento rivela che per molti prodotti il margine di prezzo risulta più alto a Bolzano. In particolare, nel capoluogo altoatesino il differenziale massimo, cioé la differenza tra prezzo medio e massimo, in diversi prodotti è molto più consistente che a Trento e Innsbruck. I prezzi di prodotti tipici mediterranei come caffè, olio d'oliva e pasta aumentano costantemente man mano che ci si sposta da Trento, passando per Bolzano e arrivando a Innsbruck. Non mancano comunque prodotti che non si distinguono molto per il prezzo massimo, ma che a Bolzano, nei negozi giusti, sono più economici.

Trento. Fare la spesa. A Trento conviene. 23/03/2011 09:11
TRENTO - Fare la spesa a Trento è più conveniente rispetto a Bolzano e Innsbruck. Lo rileva l'osservatorio provinciale prezzi per il mese di dicembre 2010. Il minipaniere riguarda 39 prodotti di diversi capitoli di spesa delle famiglie, quali generi alimentari, mobili, servizi e spese di ristorazione. Il confronto fra singoli prodotti di marca rivela alcune tendenze: per molti prodotti il margine di prezzo risulta più alto nel comune di Bolzano, rispetto che Innsbruck e Trento.

I prezzi di prodotti tipici mediterranei come il caffè, l'olio d'oliva e soprattutto la pasta aumentano man mano che ci si sposta da Trento, passando per Bolzano ed arrivando a Innsbruck. I prezzi relativi alla cura della persona sono al contrario relativamente simili. I pannolini a Innsbruck sono solitamente molto più convenienti, ma in questo caso il prodotto più economico è stato rilevato a Bolzano: infatti un pacco da 30 pezzi è costato 3,34 euro contro i 5,14 euro di Innsbruck e i 5,99 euro di Trento. Alla fine, come detto, la somma più bassa per la spesa spetta a Trento (140,95 euro). Bolzano, con 144,92 euro si trova leggermente al di sopra, mentre il centro tirolese di Innsbruck raggiunge una somma di 157,55 euro.

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