mercoledì 30 marzo 2011

Federali-Sera. 30 marzo 2011. Cresce di ora in ora la preoccupazione per l'insostenibile situazione dei nord africani in arrivo a Lampedusa, anche a Marco la popolazione non dorme sonni tranquilli, con la concreta prospettiva di veder arrivare al Centro della protezione civile all'ex polveriera un numero ancora imprecisato di profughi. Si impadroniscono delle panchine. Fora d’i ball!

Comandanti partigiani:
Tremonti: il federalismo è una specie di diesel
Napolitano, l'Italia non fallirà
Bossi comanda

Ansieta' ed isterismi femminei:
Rovereto. La rivolta di Marco «No ai profughi»
Udin. Immigrati, Tondo punta i piedi contro le due tendopoli in Fvg
Pordenone. Profughi, il grande silenzio sulla tendopoli al Ciaurlec
Venezia. Libia, il sì del Comune: «Venezia ospiterà i profughi».
Venezia. San Dona'. «Basta stranieri sulle panchine»
Varese. La mafia tra noi, cinque arresti
Modena. Distrutto l'accampamento rumeno.
Bologna. Libia, attesi 4 mila profughi in regione

Italianita' delle vacche padane:
Il cibo del Belpaese è terra di conquista.
Parmalat. Contro i francesi solo lo stop di Bossi
Le illusioni su Parmalat
Franco Mosconi: "Le unioni funzionano solo se rafforzano il core business"
Ministro Romano: fare l’impossibile per mantenere Parmalat in mani italiane


Tremonti: il federalismo è una specie di diesel
di Nicoletta Cottone
Il federalismo «è una specie di diesel. Se si pensa che avrà effetti istantanei vuol dire che non si ha chiaro il contenuto dei decreti. L'attuazione avrà la forza lenta e tranquilla di un motore diesel». Con questa immagine il ministro dell'economia, Giulio Tremonti, ha descritto l'attuazione del federalismo. Il ministro ne ha parlato in audizione alla Camera dinanzi alla commissione Bilancio, nell'ambito dell'indagine conoscitiva relativa all'esame della comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni sull'analisi annuale della crescita: progredire nella risposta globale dell'Ue alla crisi.

L'economia italiana è duale ma non divisa
Parlando dell'esito del Consiglio europeo sugli accordi post-crisi, Tremonti ha ribadito che l'economia italiana é «duale ma non divisa», ma »lo sforzo sul Sud é essenziale». Il Paese, ha detto il ministro, «può crescere di più ma solo al Sud». Secondo il ministro, «certamente la via del rigore delle finanze pubbliche é il federalismo fiscale, che é stato visto da un lato non dall'altro, il più rilevante dei criteri di standardizzazione e moderazione della spesa pubblica». Nell'ambito degli impegni italiani in sede europea Tremonti ha detto che «vorremmo molto forzare sul Meridione. Non vogliamo un paese diviso e i differenziali di crescita si stanno aprendo». Ha parlato di nserire nella Costituzione, come già fatto da altri partner europei, una norma "blocca-debito", recependo le indicazione del nuovo Trattato per superare la crisi emerse in Europa. E superare così l'articolo 81 che «non ha impedito la formazione del terzo debito del mondo»

In arrivo un piano per le riforme
Il ministro ha parlato della riforma della governance europea che rende più stringenti le regole per i bilanci pubblici: la Ue, ha detto, ha già fatto molto, ma «adesso il lavoro deve proseguire». L'Italia, ha sottolineato, presenterà un piano nazionale per le riforme: da quella della contabilità pubblica in linea con le novità Ue, all'attuazione del federalismo, fino alla riforma fiscale. Il nuovo Trattato per il ministro dovrebbe essere tradotto «in una regola costituzionale nuova».

Sul nucleare valutare costi di decommissioning e rischi
Sul fronte del nucleare il ministro, analizzando le conseguenze dell'incidente a Fukushima in Giappone, ha detto che si deve anche «cominciare un ragionamento non solo sul dare ma anche sull'avere, anche dei costi delle strutture atomiche: quanto costa il decommissioning, quanto costa il rischio? Non lo so, non ci ho ancora pensato, ma certo che io sappia i costi non sono ben evidenziati in bilancio privati e pubblici. Mettiamo in conto anche il costo futuro». E la politica deve tenere conto anche della "componente emotiva". Parlando della riflessione in atto in molti Paesi, il ministro ha rilevato che «se si radicalizza una tendenza negativa, cambia una geografia politica di vaste aree: abbiamo un elevato numero di centrali nucleari in Europa, molte vecchie, abbiamo una proliferaizone di centrali in altre parti del mondo, si pone una grande questione di natura economica se continua una tendenza che ha trovato riflesso negli ultimi giorni».

Il meccanismo eurobond non è reversibile
«Credo che in un meccanismo europeo come il fondo formalizzato con questo Trattato c'è dentro l'idea degli eurobond. Puoi ancora avere fattori contrari, di contrasto ma credo che sia un processo politico non reversibile», ha detto il ministro dell'Economia, Giulio Tremonti. «La dimensione degli eurobond è politica, non finanziaria. Non è un modo di fare più debiti, di aggirare i vincoli di disciplina, è un modo per costruire il futuro». IIllustrando i contributi dell'Italia alla nuova governance, Tremonti ha osservato che «la sovranità degli Stati non può essere trasferita alle agenzie di rating». Le agenzie, ha tuttavia detto, «servono se usate con intelligenza».

Napolitano, l'Italia non fallirà
Libia, economia: parla il presidente della Repubblica
di Mauro Romano  
Crisi libica, immigrazione, ma anche tanta economia declinata sotto le voci inflazione, ripresa e occupazione con l'aggiunta di riflessioni su debito pubblico e operazioni di salvataggio. Questi i temi affrontati dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, nel corso di un'intervista esclusiva rilasciata negli Stati Uniti a Maria Bartiromo di Cnbc.
Intervista che sarà trasmessa oggi alle 11.40 e alle 13.40 su Class Cnbc (canale 507 di Sky) e alle 14 e alle 18.35 su ClassNewsMsnbc (canale 27 del digitale terrestre) e giovedì alle 14.40 su Class Cnbc e alle 16,35 su ClassNewsMsnbc. Di seguito ampi stralci dell'intervista.
Domanda (Maria Bartiromo). A proposito dell'economia italiana... come vanno le cose?
Risposta (Giorgio Napolitano). Si sta riprendendo, non senza difficoltà, e potrei dire che ci sono alti e bassi in questa ripresa. Sappiamo che abbiamo qualche debolezza, soprattutto riguardo al debito pubblico. Ma abbiamo anche dei punti di forza... Abbiamo un indebitamento privato molto basso. Un basso indebitamento sia per le famiglie che per le aziende. Abbiamo un sistema bancario efficiente. E stiamo riducendo il nostro rapporto deficit/Pil che è la precondizione per ridurre il livello del nostro debito pubblico.
D. Può parlare più in concreto dello stato attuale dell'economia italiana?
R. Siamo a buon punto del percorso di ripresa.
La nostra principale preoccupazione non è solo di uscire dalla crisi, ma di avere prospettive positive per il futuro e in particolare per l'occupazione.

D. Come gestirete tutto questo? Qual è la soluzione per creare posti di lavoro in Italia?
R. Crescere di più. È vero che si può avere crescita del Pil e non registrare un'analoga crescita occupazionale. Ma dobbiamo assolutamente azzerare questo divario...
D. Il rapporto deficit/pil italiano si attesta circa al 120%. Può garantire che l'Italia non avrà bisogno di operazioni di salvataggio?
R. Siamo in grado di gestire questo indebitamento e, allo stesso tempo, possiamo fornire ottime garanzie. In ogni caso, abbiamo già preso misure restrittive. E andremo avanti su questa strada nel tentativo di arrivare a un rapporto deficit Pil pari a zero. Su questa base possiamo, se la crescita della nostra economia rimane al 2% annuo, ridurre il livello di indebitamento.
D. Parliamo di quello che succede in Libia. Che tipo di minaccia rappresentano i disordini in Libia per l'economia italiana?
R. Abbiamo importanti relazioni con la Libia nel campo dell'energia ma non sono certamente decisive per la nostra economia... Per questo non abbiamo problemi sulla politica energetica. E di certo possiamo gestire la situazione in Libia. Questo è il motivo per il quale diamo il nostro contributo alle operazioni delle nazioni Unite in modo da avere una nuova, più stabile più sostenibile situazione in Libia. E in modo da continuare, come nel passato, ad avere utili relazioni con a Libia in diversi settori economici.
D. In che tipo di soluzione sperate?
R. Speriamo di evitare una repressione dei ribelli e dei loro diritti, oltre che delle aspirazioni del popolo libico... E che Gheddafi e il suo entourage capiscano che gli è ormai impossibile governare il paese.
D. La comunità internazionale avrebbe dovuto essere più risoluta?
R.: Io non penso che il problema sia mandare via Gheddafi... Forse era di intervenire più velocemente. Ma in ogni caso la decisione ora è stata presa e noi siamo pienamente favorevoli a un comando Nato.
D. L'ondata di disordini nel Nord Africa sta provocando spingendo una nuova massa di immigrati sulle vostre coste. Come la gestirete?
R. Vogliamo gestire l'emergenza insieme agli altri paesi europei. Non si tratta solo un problema nostro, solo di una questione italiana, ma dell'intera Europa e abbiamo bisogno di politiche univoche sia sull'immigrazione che sull'asilo politico.

Bossi comanda
E Silvio rischia i voti siciliani
MARCELLO SORGI
Oltre a segnare una nuova esplicita occasione di attrito tra il Quirinale e Palazzo Chigi, l’emergenza Lampedusa che ha superato ogni limite di tollerabilità è una chiara conseguenza dell’indebolimento del governo e del centrodestra in versione ridotta, con Bossi che, o detta la linea, o si mette di traverso. La visita di Berlusconi nell’isola annunciata per oggi difficilmente potrà essere risolutiva. Ma il Cavaliere si dev’essere reso conto che l’abbandono in cui è stato lasciato il problema degli sbarchi e le proteste dei cittadini di Trapani e Mineo per lo spostamento massiccio di clandestini dall’isola piccola a quella grande rischiano di compromettere il granaio di voti siciliani che ha sempre rappresentato una certezza per il Pdl.
Se solo si riflette sulla velocità con cui tre anni fa il governo appena insediato aggredì il problema rifiuti di Napoli, o alla capacità di trasformare il terremoto in Abruzzo in un’occasione di solidarietà mondiale con il G8 dell’Aquila, è arduo spiegarsi la confusione, l’approssimazione e le goffaggini con cui è stato gestito il calvario di Lampedusa. A parte la professionalità con cui Guardia costiera, Finanza e Carabinieri hanno affrontato la serie imprevedibile di sbarchi, evitando fin qui affondamenti delle carrette del mare e offrendo i primi soccorsi ai disgraziati che si avventurano a bordo per le traversate, non c’è un intervento, dicasi uno, del governo che abbia funzionato.
La soluzione proposta dai ministri Maroni e Frattini alle autorità tunisine di contribuire con 1500 euro per ogni clandestino rimpatriato s’è rivelata impraticabile e priva di coperture. Il piano di distribuzione degli immigrati nella misura di uno per ogni mille abitanti su tutto il territorio nazionale s’è scontrato con i “no” di molte regioni e s’è rivelato inoltre costruito in modo da evitare alle città del Nord, dove la percentuale prevista è già saturata dagli extracomunitari presenti, di doverne ricevere altri. La minaccia di procedere d’imperio, senza il consenso delle autorità locali, sta sollevando reazioni ingestibili in Sicilia, figuriamoci altrove.
Ma la ragione di tutto ciò non è solo legata alle dimensioni del problema, di per sé imprevedibili. La verità è che il governo fin dal primo momento ha mostrato rispetto agli immigrati il fianco debole di una politica basata solo su interventi di sicurezza e limitata dall’estrema sensibilità leghista alla questione immigrati. Se la linea è quella esposta ieri in una battuta da Bossi – “Fora d’i ball!” -, sarà difficile anche per Berlusconi trovare un rimedio, considerato che lo svuotamento di Lampedusa, se gli sbarchi proseguono a questo ritmo, non basterà certo.

Rovereto. La rivolta di Marco «No ai profughi»
30/03/2011 08:35
ROVERETO - Cresce di ora in ora la preoccupazione per l'insostenibile situazione dei nord africani in arrivo a Lampedusa, anche a Marco la popolazione non dorme sonni tranquilli, con la concreta prospettiva di veder arrivare al Centro della protezione civile all'ex polveriera un numero ancora imprecisato di profughi. L'altra sera il Consiglio circoscrizionale si è riunito d'urgenza proprio per assumete una presa di posizione sull'argomento, la sala gremita dalla popolazione che ha voluto far sentire la propria voce.

Molte le proteste («Dove abita il sindaco Miorandi? Gli portiamo gli immigrati a casa sua e di tutta la giunta» poi «Perché tutti concentrati a Marco? Il resto del Trentino non va bene?» ed ancora «A Trento c'è un carcere appena dismesso, con muratura, servizi e stanze, perché non ospitarli lì?»). Tanti commenti a ruota libera, dettati anche dalla mancanza di informazioni certe, in un tourbillon di notizie incontrollate. E qualcuno ha anche passato il segno, lanciando dalle ultime file l'idea di « nar zò coi manganèi ». «Il sindaco mi ha incaricato di dirvi che, non appena gli verrà data un'informativa attendibile, è disponibilissimo a venire ad incontrare la popolazione di Marco - così l'assessore Leone Manfredi, presente alla seduta -. Al momento non c'è nulla di certo, a noi risulta che la Provincia ha dato disponibilità al governo ma dalla Protezione civile non ci è arrivata alcuna comunicazione. Dove ospitarli non è una scelta dell'Amministrazione comunale, che deve dire soltanto se è d'accordo o meno, la scelta è della Protezione civile».

L'ex assessore Giacomino Filippi ha ricordato che «dire adesso che non siamo d'accordo è troppo tardi perché ora possiamo soltanto limitare i danni, si sapeva dal 2001-2002 che all'ex polveriera era previsto che si potessero ospitare fino a 1000 persone». Il consigliere Luca Airoldi ha ricordato che «nel 2005 si scriveva che il centro dei Lavini può ospitare fino a 7000 sfollati: se arriva un numero adeguato di profughi, non clandestini, vale a dire 60 persone, famiglie con donne e bambini, che si fermano al massimo due mesi, finché preparano loro una sistemazione adeguata, posso essere d'accordo, altrimenti no». Per Italo Capobianco «si è visto in tv che stanno preparando il centro con i container dei Nuvola, forse bisognava intervenire un po' prima come Circoscrizione, una volta deciso tutto cosa possiamo fare? Serve controllo e che sia un soggiorno temporaneo, possiamo fare una grande manifestazione di protesta. Una richiesta da fare al sindaco è che chieda l'intervento delle Forze armate per pattugliare la città».

Tito Parisi si professa «contrario al 100% perché quello non è il posto adeguato, non è sorvegliabile ed in un attimo arrivano a Marco. Mi sembra che ci sia uno scaricabarile, mi sembra impossibile che il Comune non sappia niente, è un mese che se ne parla. Mandano sempre tutto a Marco, dopo la discarica, il canile, la Tav, ci sono le carceri dismesse perché non le utilizzano?». Per Marco Failoni «la struttura ormai è stata pianificata, mi auguro che il Comune possa assicurare a noi e alle nostre famiglie la giusta protezione» ed Andrea Vaccari evidenzia come «non abbiamo molta voce in capitolo, dobbiamo sicuramente evidenziare l'inadeguatezza della struttura e chiedere la giusta protezione».

Udin. Immigrati, Tondo punta i piedi contro le due tendopoli in Fvg
di Anna Buttazzoni
Il presidente: «A Roma ripeterò a Maroni che il Fvg già ospita clandestini a Gradisca». Moretton (Pd): «L’accoglienza è un dovere»
TRIESTE. «Non esiste alcuna comunicazione ufficiale e non cambio idea: il Friuli Venezia Giulia ha già dato, segnali di impegno arrivino ora da altre regioni, perché noi abbiamo già centinaia di immigrati sul nostro territorio». Il presidente Fvg Renzo Tondo non ci sta. Oggi ci sarà lui a palazzo Chigi, a Roma, per l'incontro tra gli esponenti delle Regioni e il ministro dell'Interno Roberto Maroni (Lega).

È stato il ministro a indicare la strada per uscire dall'emergenza-profughi per svuotare Lampedusa, chiedendo la disponibilità delle Regioni, spiegando che l'accoglienza dovrebbe essere tradotta in mille immigrati ogni milione di abitanti e prevedendo anche dei correttivi per le regioni che ospitano già strutture come Cie - centro di identificazione ed espulsione - e Cara - centri di accoglienza per richiedenti asilo. Dal Viminale è poi arrivata l'indicazione di 13 siti adatti all'ospitalità, tra i quali due in Friuli Vg: Clauzetto e Sgonico.

Ma Tondo, l'assessore alla Sicurezza, la leghista Federica Seganti, e i capigruppo del centro-destra insistono: l'accoglienza arrivi da ogni regione d'Italia. Oggi, poi, in Consiglio regionale sarà discussa la mozione presentata dalla Lega per “blindare” il no agli immigrati in regione.

Tondo, dunque, oggi volerà a Roma, discuterà con Maroni e con gli altri governatori, convinto che per il Fvg debbano essere applicati i correttivi già illustrati dal ministro. «Abbiamo sostenuto la linea di Maroni - ripete Tondo - sugli aggiustamenti per le regioni dove sono operativi Cie e Cara, che noi abbiamo. Ci aspettiamo quindi l'applicazione dei correttivi».

Secca anche Seganti. «Clauzetto e Sgonico sono solo due caserme dismesse e ubicate in zone isolate, non siti di accoglienza. Sui profughi - spiega Seganti - ognuno deve fare la propria parte, in primis l'Europa e Francia compresa. E sugli immigrati, invece, ci auguriamo che Maroni attui i respingimenti».

Stessa linea per il capogruppo della Lega in Consiglio regionale Danilo Narduzzi. «I tunisini non sono un'emergenza umanitaria, ma immigrati da respingere. Siamo contrari all'accoglienza in Fvg perché - argomenta Narduzzi - abbiamo già il 15% di presenze, il Cie di Gradisca, la base di Aviano dove sono raddoppiati i militari e problemi sociali e di sicurezza. Si trovino soluzioni altrove».

Chiede equità il capogruppo del Pdl in Consiglio Daniele Galasso. «La questione dev'essere trattata allo stesso modo in tutta Italia. Gli immigrati vanno respinti, i profughi accolti, ma il Fvg - aggiunge Galasso - è già sotto pressione. Solo se le condizioni saranno uguali in ogni regione allora faremo la nostra parte». Simile il pensiero dell'Udc con il capogruppo Edoardo Sasco. «Il problema dev'essere all'attenzione della Ue. E se verrà stabilito un principio generale deve valere per tutti e - conclude Sasco - delle caratteristiche del Fvg bisogna tener conto».

Alessandro Colautti, consigliere regionale del Pdl, spiega invece che se accoglienza dovrà essere, sia transitoria e dopo la verifica che si tratti davvero di rifugiati politici. «L'emergenza non deve trasformarsi in stanzialità, come è accaduto ai tempi dell'immigrazione dall'ex Jugoslavia, a meno che non si voglia accendere la miccia di un conflitto sociale che farebbe saltare il banco creando tensioni dalle ricadute pericolosissime. Il nostro compito sarà proprio quello - conclude Colautti - di aiutare i libici a tornare in Libia».

Parla invece di accoglienza e solidarietà il capogruppo del Pd in Consiglio regionale Gianfranco Moretton. Che bacchetta governo e Lega. «Il Friuli Venezia Giulia ha il dovere di attivare tutte le azioni necessarie per l'accoglienza. Quella della Lega, che mi auguro sia una posizione minoritaria - continua Moretton - che vuole lavarsene le mani cavalcando l'onda del più gretto e becero populismo, non può ricevere la comprensione di nessuno, perché l'azione della Lega inconcludente e rischia di creare situazioni di pericolo sanitario e di disordini sociali».

Per Moretton, però, l'accoglienza non dev'essere calata dall'alto, ma concordata con regioni e sindaci. «Perché sono gli amministratori locali - spiega il capogruppo del Pd - a conoscere i luoghi adatti per attrezzature, sicurezza e dignità di queste persone. E non mi risulta che Clauzetto, ad esempio, lo sia».

Pordenone. Profughi, il grande silenzio sulla tendopoli al Ciaurlec
di Stefano Polzot
Cescutti: «Non vorrei che alla fine il ministero mi dicesse: sindaco, veda lei». Dalla Provincia disponibilità condizionata, ma la Lega frena: non ne vogliamo. PORDENONE. «Non vorrei che alla fine arrivi qui da noi qualche funzionario ministeriale e mi dica: sindaco, abbiamo un pò di profughi da sistemare, veda lei». È sconfortato il sindaco di Clauzetto, Giuliano Cescutti. Alla vigilia del trasferimento degli immigrati che sono sbarcati a Lampedusa e ad alcuni giorni dall'annuncio che uno dei possibili siti in regione è proprio a Clauzetto, allarga le braccia. Dal ministero nessuna notizia, così come non hanno battuto un colpo anche le altre autorità. Tutto tace, un silenzio assordante che fa a pugni «con il concetto che tanto propugnano di federalismo. Così noi, amministratori di piccoli comuni, siamo lasciati da soli».

Sono due i luoghi ai quali Cescutti pensa quando si parla di demanio militare. «Il primo - afferma - è una piccola struttura, un ponte radio abbandonato da vent'anni che consiste in una casetta e due box su una superficie di 420 metri quadri. Al massimo, tra i rovi, ci possono stare una decina di persone».

L'altro, quello più probabile, in realtà confina con Clauzetto ed è il poligono del Ciaurlèc. «Si tratta di un sito completamente inadatto allo scopo - afferma - perché i collegamenti stradali sono impervi. Bisogna raggiungerlo da Travesio attraverso Praforte di Castelnuovo».

Cescutti non esclude, peraltro, che all'interno dell'area si possano rinvenire residuati bellici inesplosi. «Inoltre - continua - la zona è un sito di interesse comunitario, protetto dal punto di vista ambientale. L'area, quindi, è completamente inadatta». L'unica cosa certa, conclude, «è che si è creato un clima di allarme sociale in paese. Siamo veramente all'assurdo».

Anche perché di operazione di allestimento di tendopoli al Ciaurlèc non c'è traccia. A ieri sera non si sono viste tendopoli, come non si sono registrati movimenti alla caserma Monti di Pordenone, in Comina, una struttura militare in via di dismissione ma che ha comunque necessità di essere attrezzata se dovrà ospitare centinaia di persone. Lo stesso vale per altri edifici militari sparsi in provincia. Dalla Prefettura di Pordenone ripetono che nulla è stato comunicato loro.

L'interpretazione corrente è che in realtà la prima ondata di trasferimenti non interesserà la provincia. Forse in seguito potrebbero registrarsi arrivi. Una situazione di incertezza confermata anche dal presidente della Provincia, Alessandro Ciriani. «Non abbiamo ricevuto nessuna comunicazione formale - afferma - né siamo stati ufficialmente coinvolti nella scelta dei siti dove alloggiare i profughi. Premesso che ritengo indispensabile un'azione di contrasto molto più decisa nel respingimento di quanti approdano a Lampedusa - aggiunge - siamo pronti a collaborare come richiesto dal ministro Maroni al quale, però, questo territorio pone alcune questioni molto chiare. Le innegabili difficoltà per individuare siti idonei e le conseguenze sociali di questo trasferimento di massa non devono avvenire con criteri di natura politica. Prima di chiedere alla nostra provincia e al Friuli Venezia Giulia di fare la sua parte, Maroni deve ricordarsi che a Gradisca già ospitiamo un Centro di identificazione ed espulsione. Più esplicitamente, l'ordine di Maroni di smistamento degli stranieri deve valere per tutti, anche per il Veneto del governatore leghista Luca Zaia che non può sottrarsi a questa chiamata. E' impossibile che in Veneto non ci sia un'area per attrezzare una tendopoli. Zaia non può sottrarsi e Maroni non deve escludere a priori il Veneto. Si tratta di una condizione che considero irrinunciabile: o tutti o nessuno».

La Lega, intanto, passa dalle parole ai fatti: stamattina sarà depositata in Provincia una mozione con la quale si impegna Ciriani a non dare la disponibilità ad accogliere profughi libici, smentendo, in questo modo, la disponibilità condizionata espressa dal presidente dell'ente intermedio. «Un ulteriore arrivo di clandestini - afferma il vice segretario Enzo Dal Bianco - creerebbe problemi di carattere socio-economico».

l vice presidente della Provincia, Eligio Grizzo, ne capisce di logistica, avendo fatto il militare, e per questo è perplesso. «Non ci si impiega un giorno - afferma - per installare una tendopoli e visto che i lavori non sono stati effettuati né alla Monti, né al Ciaurlèc non vedo la possibilità di arrivi immediati». La Lega, che ha discusso della vicenda nel direttivo dell'altra sera, tiene desta l'attenzione. «Riteniamo inaccettabile - afferma Grizzo - che si preveda l'arrivo di altri immigrati in un territorio che ha un tasso di stranieri tra i più alti d'Italia. Credo che ci siano altri luoghi in regione, ben più attrezzati, che possono ospitare dei profughi, non certo in provincia di Pordenone».

Venezia. Libia, il sì del Comune: «Venezia ospiterà i profughi». L'assessore Simionato: «La nostra è la città dell'accoglienza. Sul numero dobbiamo trovare l'accordo».
di Carlo Mion. VENEZIA. Profughi a Venezia, il Comune dice sì. «Se ci verrà chiesto di ospitare dei profughi noi faremo la nostra parte. La nostra città per definizione è città di accoglienza. Sul numero ci dobbiamo mettere d'accordo con il Ministero». L'assessore alle politiche sociali, Sandro Simionato, non ha dubbi.

«L'accoglienza fa parte della nostra cultura e sono sicuro che se ogni comune d'Italia, in proporzione alle sue capacità, ospitasse qualche profugo l'Italia darebbe una risposta significativa all'emergenza che stiamo vivendo a Lampedusa - continua Simionato - L'importante è non creare grosse aggregazioni. Noi siamo disponibili ad accogliere queste persone inserendole nel progetto Sprar, grazie al quale in questo momento ospitiamo 95 profughi. Un numero che possiamo aumentare sempre che siano chiare le condizioni con il Ministero, il quale non deve pensare che in questa maniera si gestisce solo l'emergenza e poi i profughi restano in carico di chi li ha ospitati. Bisogna poi seguire ogni singolo percorso d'inserimento di queste persone che sono qui per motivi umanitari. Non deve succedere come con i minori ospitati, anni fa, nella sede Cri di Jesolo: finita l'emergenza, la Regione li ha inseriti nei vari Comuni e dopo un anno li ha abbandonati al proprio destino. La conseguenza è stata che i Comuni spesso si sono fatti carico di seguire questi ragazzi nel programma di inserimento senza ottenere contributi».

Ad offrire un aiuto al ministro Roberto Maroni che in questi giorni sta gestendo l'emergenza umanitaria di Lampedusa è stato il vice presidente dell'Anci, nonché sindaco di Padova, Flavio Zanonato. L'altro ieri, parlando a nome dell'associazione dei Comuni d'Italia, ha spiegato che i comuni aderenti al progetto Sprar (servizio destinato all'inserimento dei progughi nelle singole realtà) possono in questo momento ospitare tremila pofughi: 1.125 immediatmente e gli altri a breve. I posti subito disponibili sono quelli che il ministero non ha finanziato quando ha deciso di spendere dei soldi per questo progetto. Quando l'Anci chiese i fondi, presentò la domanda per 4.125 posti. Il Ministero dell'Interno elargì fondi solo per 3.000 persone. Ora l'offerta è ben vista dal ministero considerato il fatto che la gestione dei profughi, attraverso il suo progetto Cara, costa per ogni singola persona 65 euro al giorno, mentre i comuni elargiscono un servizio, per certi versi migliore, a 35 euro. Con in più la maggiore facilità nel seguire tutto il percorso di ottenimento dello status di rifugiato e successivamente l'inserimento nella nostra società di queste persone.

Intanto la Croce Rossa fa sapere che può mettere a disposizione in Veneto 150 posti per i profughi nella struttura della Cri di Jesolo. «Al momento però nessuno ci ha ancora contattato» dice il commissario della Cri Veneto, Annamaria Stefanelli, dicendosi «abbastanza sorpresa» di questo fatto. La Prefettura comunque ha già precisato nei giorni scorsi che sul litorale non porterà alcun profugo.

Venezia. San Dona'. «Basta stranieri sulle panchine» torna la polemica a San Donà
I commercianti del centro insorgono: «Ci rovinano il lavoro». Gli immigrati accusati di stare seduti a lungo sulle panchine poste nelle aree pedonali del centro, proprio davanti ai negozi, e di allontanare per questo i clienti. "Non siamo razzisti, è una questione di decoro". La Lega pensa a braccioli divisori per impedire agli immigrati di sdraiarsi.  di Giovanni Cagnassi. SAN DONA'. Commercianti del centro contro gli extracomunitari: «Si impadroniscono delle panchine». Con l'arrivo della bella stagione un passeggiata in centro e magari una sosta seduti su una panchina lungo l'isola pedonale è davvero piacevole per godersi la Primavera. Ma se a farlo sono cittadini extracomunitari a zonzo le cose cambiano. Per il momento la Lega di San Donà sta pensando a nuove panchine con tanto di «divisori» per appoggiarvi le braccia e impedire di sdraiarsi o stravaccarsi. Se ne sta occupando Gino Diotto, particolarmente «sensibile» alle proteste dei commercianti locali, il primo a raccogliere la protesta e a renderla pubblica. Il problema è avvertito soprattutto lungo l'isola pedonale di corso Trentin ed era esploso già lo scorso anno. Complice la crisi, le poche persone che passeggiano, e soprattutto acquistano, oggi la questione sta tornando alla ribalta. «Si siedono ore- protestano i titolari di alcune delle attività commerciali- magari davanti alle vetrine. Hanno usanze e abitudini diverse dalle nostre, e magari si grattano, toccano, persino tagliano le unghie. E' una questione di decoro e nessuno ha il coraggio di dirlo perché magari non è educato. Non si tratta di essere razzisti, ma di evidenziare un disagio che è sentito anche dai clienti». Il problema è destinato a ripresentarsi, visto che nel futuro è prevista una progressiva pedonalizzazione a partire da piazza Indipendenza e ci saranno altre panchine in arrivo. «Ci sembra una riedizione fuori tempo dell'apartheid del Sud Africa- risponde Sinistra Ecologia e Libertà- presto, di questo passo, avremo panchine per bianchi e per neri. I commercianti dovrebbero ringraziare il fatto che ci siano ancora persone che camminano in città e la animano con nuove culture. I problemi dell'isola pedonale- concludono- sono ben altri, quindi i prezzi troppo alti dei negozi e l'alta mortalità delle attività commerciali che aprono e chiudono di continuo senza riuscire a stabilizzarsi».

Varese. La mafia tra noi, cinque arresti
Affiliati del clan Madonia: estorsioni e violenze da Induno a Busto Arsizio
«Se si prende la macchina come esco lo scanno, gli brucio tutta la casa». Sono alcune frasi, intercettate dalla polizia, che un pregiudicato avrebbe pronunciato nel corso di una conversazione telefonica. La vittima, da intimidire con le minacce, era un imprenditore, colpevole di aver chiesto la restituzione di un'auto di lusso che gli era stata sottratta da un gruppo di cinque esponenti del clan Madonia di Cosa Nostra, arrestati ieri dalla Squadra Mobile di Varese (nella foto la conferenza stampa)con l'accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso. Attraverso minacce e attentati incendiari ai danni di auto, negozi e mezzi dei cantieri edili il gruppo di pregiudicati, riconducibile alla cosca della zona di Gela, nel Nisseno, si sarebbe impadronito di denaro e attività economiche di imprenditori della provincia di Varese da Induno Olona fino al bustese, di Milano e di Lecco. Un gruppo, radicato sul territorio del basso Varesotto, che dal 2002 sarebbe stato protagonista di decine di episodi violenti, commessi anche con l'uso di armi, per arrivare a controllare aziende e attività commerciali. Le estorsioni di denaro, in alcuni casi di somme attorno ai centomila euro, sarebbero servite a finanziare attività criminali, e a mantenere parenti e amici reclusi in carcere.
Paolo Grosso, Angela Grassi, Marco Linari

Modena. Distrutto l'accampamento rumeno. Blitz all'alba a Saliceta San Giuliano di polizia e municipale per sgomberare il consueto accampamento creato tra la boscaglia da una banda di rumeni.  A Saliceta demolite le tende di cartone e plastica e denunciate 20 persone. MODENA. Blitz all'alba a Saliceta San Giuliano di polizia e municipale per sgomberare il consueto accampamento creato tra la boscaglia da una banda di rumeni. Si tratta di figure note in città per presidiare incroci e parcheggi chiedendo elemosina. Venti identificati e denunciati.

Sono passate da poco le 6. C'è il chitarrista di piazza Mazzini, la mendicante con il maglione verde di Canalchiaro, quello giovane con le orecchie a sventola che si aggira in piazza XX. E poi quello grosso, quello con la tuta blu del parcheggio del Policlinico e, guest star, il temuto e riverito "alpino", il decano del gruppo con la penna sul berretto. È uscito di galera da poco. Ora, mentre si alza la nebbia e la luce si mischia a quella delle torce degli agenti, esce dalla tenda. Scivola un attimo sul fango. Da quel pertugio, tra i cellophan e le coperte, escono altri due.

C'è anche una donna. Nessuno parla, nessuno si lamenta. È "solo" uno sgombero, per loro. Sono due anni che la squadra, una ventina di rumeni, anziani, giovani e anche qualche minorenne (ieri c'era una ragazzina) si accampa alla periferia di Modena. Alcuni sono storici, altri in zona da non tanto. C'è sempre un turn over. Di giorno in centro o agli incroci, di sera il ritrovo per "l'aperitivo" in viale Amendola, di fronte al Lidl, di notte si rifugiano nei loro luoghi attrezzati.

Saliceta San Giuliano, dietro alla casa di lavoro, tra gli argini la zona chianata del vecchio cimitero, in un mucchio di boscaglia dove il fango traccia un sentiero. Oppure dentro ai muri del penitenziario: è stato fatto un buco, all'interno c'è un ampio "giardino", l'ideale per accamparsi. Sono due anni che la squadra viene sgomberata: uan volta via da Saliceta, un'altra via dal casolare di Strada Formigina, blindato più volte ma semre violato, anche quando davanti all'ingresso venne rovesciata una montagna di terra. Scavando gli inquilini trovarono un passaggio.

Ieri mattina poco dopo le 6, mentre ancora bruciava un piccolo fuoco in un braciere tra la boscaglia, è stato il tempo di levare le tende. Via tutti, via tutto. Addetti comunali ed Hera, ancora una volta, prenderanno quella piccola filiale di discarica che è stata la casa per alcuni mesi dei due gruppi di rumeni. E infileranno tutto nell'inceneritore per una bonifica completa. Ma intanto gli agenti della municipale e della polizia, "bussano" a quattro tende.

Escono otto persone, coi vestiti di sempre, con le facce che incontri agli incroci o accanto al carrello. Prendono coperte, tabacco. Uno solleva una montagna di stracci sotto alla tenda di cartone. Estrae un piccolo tv e dice "questo in conteiner...". Nell'altro accampamento, dietro alle mura, tre "tende" per dodici rumeni. Sono più giovani. Il musicistadi strada prende la chitarra, le donne bevono da un bottiglione di coca cola. Un giro in questura, una giornata un po' diversa.

Bologna. Libia, attesi 4 mila profughi in regione
Ma la guerra spacca la maggioranza
Il Pd vota contro le risoluzioni di Idv e Verdi che chiedono di non partecipare agli attacchi. Perplessità dei sindaci

Ore di attesa in previsione dell’incontro di oggi a Roma tra Governo e enti locali in cui si dovrebbero decidere numeri e criteri con cui i profughi sbarcati a Lampedusa verranno trasferiti in ogni regione. Successivamente, in settimana se non subito, verrà aperto un tavolo tecnico con le prefetture italiane e la Protezione Civile per scegliere i luoghi in cui accoglierli.

Dalle prime stime effettuate dovrebbero essere un po’ meno di 4 mila i profughi in direzione Emilia-Romagna, calcolati per rispettare la proporzione di mille libici ogni milione di abitanti. In perfetta sintonia con il capo dello Stato Giorgio Napolitano, il presidente della Regione, Vasco Errani, aveva già sottolineato l’importanza dell’accoglienza in una tale situazione emergenziale: «Bisogna dare una risposta proporzionale rispetto alla popolazione. Siamo di fronte a una emergenza umanitaria e tutto il Paese, responsabilmente, deve fare la propria parte. Questo è quello che abbiamo condiviso con il ministero dell’Interno, con un impegno preciso per ciascuna Regione». Nessun dubbio o timore per il presidente della conferenza delle Regioni, anche perché «il Governo ha assicurato il finanziamento per la gestione di questa emergenza». «Serve quindi una voce unica, univoca — ha aggiunto Errani — non con i distinguo, i se e i forse. La nazione deve affrontare insieme questo tema».

Parole di unità proprio mentre la maggioranza in Regione si spaccava esattamente sul tema libico: il Pd infatti non ha esitato ad astenersi dal votare le risoluzioni di Idv e Verdi-Sel che chiedevano all’Italia di non partecipare agli attacchi e di revocare il patto bilaterale. Approvato dunque solo il documento del Pd in cui non si fa riferimento diretto alla guerra e senza i voti di Idv, Pdl e Udc, astenutisi, e i pareri contrari di Fds, Sel-verdi e Lega. La Giunta regionale rimane quindi impegnata ad «adoperarsi affinchè in Italia, in stretta collaborazione con gli enti territoriali, siano adottate le necessarie iniziative di accoglienza per i richiedenti asilo e per i rifugiati provenienti dalla Libia e dai Paesi mediterranei, nel contesto di un piano nazionale in cui tutte le Regioni dovranno fare la loro parte». Tra gli oltre 6.000 sbarcati a Lampedusa «ci sono anche moltissime donne con bambini piccoli e la solidarietà è un dovere», hanno affermato Luciano Vecchi e il presidente del gruppo Marco Monari. Ma i sindaci sono perplessi, a partire da quello di Ravenna, Fabrizio Matteucci: «Il piano annunciato da Maroni non esiste. Basta diktat, da 10 anni collaboriamo. Ora tocca ad altri». I dubbi rimangono anche nel Bolognese. Pare priva di fondamento l’ipotesi «Tre Poggioli» di Monghidoro. «Un’area priva di luce, acqua, strada e persino una piazzola dove montare le tende, è un terreno in stato di abbandono», per il sindaco, Pdl, Marino Lorenzini, stupito dall’eventuale inserimento della suddetta zona nell’elenco del Viminale. In sintesi: «Continuiamo a non sapere nulla ma lì non ci può proprio stare nessuno».
Sarah Buono

Il cibo del Belpaese è terra di conquista. Vincenzo Chierchia. Il business alimentare italiano fa gola da anni alle grandi multinazionali del settore. Un interesse trasversale, dai formaggi ai gelati, da vini e liquori all'acqua minerale. La prossima operazione sarà il closing entro aprile dell'acquisto dei Salumi Fiorucci da parte della spagnola Campofrio food.
Se guardiamo alla classifica dei leader di mercato dell'alimentare – rivela Nomisma – troviamo quattro gruppi esteri tra i primi dieci. Se si rielaborano i dati di fatturato si può ipotizzare che sui primi dieci gruppi gli stranieri contano per almeno il 30 per cento.
L'alimentare è strategico per il nostro sistema produttivo. Il fatturato dell'industria si è attestato nel 2010 sui 124 miliardi (+3,35 rispetto al 2009 secondo le stime Federalimentare); gli addetti sono oltre 400mila. Con una quota del 12% l'alimentare si posiziona al secondo posto nella classifica (per fatturato) dei comparti produttivi dopo la metalmeccanica.
Le esportazioni dei prodotti alimentari italiani si attestano nel complesso sui 21 miliardi di euro (+11% circa tra 2009 e 2010) e rappresentano il 7% circa dell'intero export nazionale. Le vendite sui mercati internazionali superano di gran lunga le importazioni e così l'alimentare resta nel complesso uno dei pochi settori con un interscambio largamente attivo: oltre 4 miliardi di euro. Da non dimenticare poi il fatto che l'80% dell'export alimentare italiano è costituito da prodotti industriali di marca. Il nostro Paese è inoltre leader in Europa (e in campo globale) per produzioni agro-alimentari certificate; il comparto degli alimentari a denominazione protetta sviluppa un fatturato di circa 12 miliardi, di cui 3 miliardi sui mercati esteri.
Inoltre, il made in Italy alimentare nel complesso è tra le produzioni al mondo con il più alto indice di contraffazione o di imitazione. Il cosiddetto italian sounding, ossia l'insieme dei prodotti alimentari che utilizzano in maniera surrettizia denominazioni italiane, sui principali mercati internazionali vale oltre 52 miliardi l'anno.
Acquisire marchi italiani dell'alimentare per un gruppo internazionale significa quindi esser presente in un business molto ampio. Negli ultimi due anni almeno gli italiani hanno tirato un po' la cinghia sui consumi ed hanno risparmiato sulla spesa (la flessione cumulata degli acquisti food si attesta intorno al 2,5%), ma il valore complessivo ha il ragguardevole valore di oltre 204 miliardi (stime Federalimentare) a fronte dei circa 750-800 miliardi che le famiglie italiane destinano ogni anno complessivamente ai consumi. Un mercato ampio sul quale i grandi gruppi hanno iniziato a puntare con interesse crescente da molti anni. La quota di competenza estera nell'alimentare italiano è indubbiamente consistente.
Formaggi
La multinazionale americana Kraft aveva rilevato nel 1985 la linea di produzione di formaggi fondata nel 1908 dalla famiglia lombarda Invernizzi. Nel 2003 nuovo cambio di proprietà: Kraft cede Invernizzi a Lactalis che a sua volta aveva rilevato dalla multinazionale svizzera Nestlè la linea di formaggi Locatelli. Il gruppo francese si aggiudica così alcuni dei prodotti alimentari simbolo del baby boom degli anni 60.
È della fine degli anni 80 la cessione al gruppo francese Danone della società casearia Galbani, un altro marchio simbolo dell'Italia del boom economico. Galbani transita poi dal fondo Bc partners e finisce alla Lactalis nel 2006. Così la multinazionale consolida le posizioni.
Gelati
Il marchio Algida fa capo all'Unilever e Motta è nell'orbita di Nestlè dalla privatizzazione Sme (Iri).
Pasta
Nestlè rafforza notevolmente le posizioni in Italia alla fine degli anni 80 con l'acquisizione delle attività Buitoni-Perugina dalla Cir di Carlo De Benedetti. Oggi i due marchi, sviluppati all'inizio del secolo scorso per iniziativa di Giovanni Buitoni e soci, sono portabandiera dell'alimentare italiano in campo internazionale. Buitoni contraddistingue linee di pasta fresca e sughi. I Baci Perugina sono conosciuti a livello globale.
Acqua minerale.
Anche in questo settore Nestlè ha un ruolo leader. Nel 1994 ha acquisito la Sanpellegrino (società di acque minerali che controlla a sua volta anche l'acqua Panna), fondata alla fine del 1800 in provincia di Bergamo. La Sanpellegrino è oggi tra i leader mondiali delle acque minerali. Ha fatto shopping in Italia, nel settore delle acque, anche la multinazionale Coca cola, rilevando la Fonti del Vulture che produce l'Acqua Lilia.
Alcolici
Nel 1993 fece scalpore l'acquisto della italiana Martini & Rossi da parte della multinazionale degli spirits Bacardi, con origini cubane. Grazie all'operazione italiana, il gruppo Bacardi-Martini ha consolidato le posizioni di leader internazionale nell'ambito degli alcolici.
Birra
La Birra Peroni, fondata in Lombardia intorno alla metà del 1800 e di sede a Roma dal 1864, è passata nel 2003 al colosso multinazionale SabMiller. Oggi la Peroni Nastro Azzurro è tra i brand globali del gruppo.
Chi non ricorda la «birra del baffone»? Fondata a Udine nel 1859, la Moretti fa oggi capo al colosso olandese Heineken.
Olio
Con la privatizzazione del gruppo alimentare pubblico Sme (Iri) finiscono nel 1993 alla multinazionale Unilever i marchi Bertolli e Carapelli, rilevati nel 2008 dalla spagnola Sos.
I brand italiani passati alle multinazionali
Il marchio che per gli italiani significava «fiducia» è stato rilevato da Lactalis nel 2006; in precedenza era passato a Danone
Fondata nel 1913 da Francesco Rigamonti, l'azienda è oggi nell'orbita della brasiliana Jbs
Il gruppo Bolton (Rio Mare e Manzotin) ha rilevato il tonno Palmera nel 2007
Il marchio fa capo alla lucana Fonti del Vulture rilevata 2006 dal gigante Coca cola
La Locatelli nasce nel 1860 nel Lecchese, nel 1961 passa a Nestlè e nel 1998 a Lactalis
Dal 2006 il polo alimentare è nell'orbita del gruppo spagnolo Gallina Blanca
Il gruppo Birra Peroni è stato rilevato dalla multinazionale SabMiller nel 2003
Il marchio, insieme a Perugina, fa capo alla multinazionale svizzera Nestlè dalla fine degli anni 80
La Martini & Rossi di Torino è passata nel 1993 alla multinazionale Bacardi
I formaggi Invernizzi sono passati alla multinazionale Kraft nel 1985 e dal 2003 a Lactalis
I Salumi Fiorucci stanno per essere rilevati dal colosso spagnolo Campofrio food group
Fondata a Udine nel 1859 la Moretti è oggi parte del colosso birrario olandese Heineken
Sanpellegrino fa capo a Nestlè ed è marchio leader a livello globale nelle acque minerali
Algida è da anni un brand di gelati a forte vocazione internazionale di Unilever

Parmalat. Contro i francesi solo lo stop di Bossi
Ennesimo alt della Lega: non prenderanno niente. Ma Lactalis chiama la Ue. Lactalis non intende rinunciare alla partita Parmalat e ieri il presidente ha contattato la commissione europea per fare il punto della situazione. Non c'è stato un colloquio perchè il commissario al mercato interno, il francese Français Michel Barnier, è attualmente in viaggio, ma il presidente del gruppo francese ha indicato al capo di gabinetto, una serie di questioni aperte. Attualmente l'esecutivo Ue non ha comunque avviato un dossier sul caso. Lactalis vuole sciogliere il nodo Antitrust. Infatti fino a quando non c'è una presa di posizione da parte dell'Autorità europea, Lactalis dovrebbe astenersi dall'esercitare i diritti di voto in assemblea. Rivolgendosi alla commissione, i francesi punterebbero quindi a una deroga alla notifica che consentirebbe di partecipare all'assemblea. In questo caso potrebbero votare con il 29% a disposizione. Lactalis oltre al 13,97% detenuto direttamente ha anche il 15% potenzialmente rilevabile tramite i contratti di equity swap. Anche lo staff del ministro dell'Economia Giulio Tremonti ha avuto contatti con la Commissione europea in merito al provvedimento anti opa che sta mettendo a punto. Bruxelles al momento non intende intraprendere nessuna azione. Il commissario Michel Barnier nei giorni scorsi aveva messo in guardia contro misure di protezionismo nazionale, sottolineando che avrebbe tutelato scrupolosamente il rispetto delle regole europee. Intanto la Lega torna all'attacco dei francesi. «Abbiamo dato già la risposta all'ultimo Consiglio dei ministri, spostando la data del cda (di Parmalat, ndr) e bloccando tutto. I francesi non prendono niente». Parola di Umberto Bossi che ieri ha ribadito la linea del governo. Il tutto mentre Intesa Sanpaolo è a lavoro per mettere a punto la cordata nazionale, che potrebbe coinvolgere Ferrero, Granarolo e soci finanziari legati al private-equity. Tra questi, oltre a Giovanni Tamburi, si è fatto il nome di Palladio, il cui ad Roberto Meneguzzo è nella lista presentata dalla Cà de Sass per il consiglio di Collecchio, con al primo posto Enrico Bondi. Ma se entro venerdì non sarà formata una cordata alternativa a quella francese, il cda del gruppo di Collecchio non potrà decidere il rinvio dell'assemblea, come consente il decreto anti-Opa. Intanto i sindacati hanno chiesto al ministro dello Sviluppo Economico di intervenire con l'apertura urgente di un tavolo con l'azienda.

Le illusioni su Parmalat
Le aziende italiane di maggior successo - quelle che hanno aumentato la quota di mercato creando valore per i propri azionisti e posti di lavoro per i propri dipendenti - hanno una caratteristica comune: sono cresciute all'estero. Hanno percorso questa via perché si sono rese conto che puntare sul mercato italiano, più piccolo oggi di quanto non fosse dieci anni fa, è una scelta perdente.

Ansaldo Sts ha acquisito l'americana Union Switch creando la prima azienda al mondo negli impianti di segnalamento per reti ferroviarie e metropolitane. Luxottica è cresciuta attraverso una catena di acquisizioni americane: Ray-Ban, Oakley, Sunglass Hut. Autogrill ha comprato Host dal gruppo Marriott, e attraverso questa acquisizione è entrata nei maggiori aeroporti degli Stati Uniti. Unicredit, comprando Pioneer, è entrata nel risparmio gestito Usa.

Il caso più emblematico è Prysmian, l'ex divisione cavi della Pirelli. Nel 2005 la società milanese fu costretta a cedere il suo settore cavi per rimborsare alle banche i denari che aveva preso a prestito per acquisire il controllo di Telecom Italia. Evidentemente in quel momento il monopolio dei telefoni, ben protetto dallo Stato, appariva più interessante dei cavi. (D'altronde la politica faceva il tifo per Pirelli e i suoi alleati che evitavano il rischio che uno straniero si comprasse i nostri telefoni). Da questa avventura Pirelli è uscita impoverita: quell'operazione si è mangiata il valore di Prysmian. E che ha fatto nel frattempo l'ex divisione dei cavi, acquistata dai suoi dirigenti con l'aiuto finanziario di Goldman Sachs e di alcuni fondi? Ha comprato l'olandese Draka e ha creato la prima azienda al mondo nel settore dei cavi (la seconda, la francese Nexans, ha un fatturato del 30% inferiore).

Il governo sta per adottare norme scritte per impedire che Parmalat cada in mano francese. In tutti i Paesi, anche negli Stati Uniti, c'è chi invoca norme protezioniste per evitare che proprie aziende siano comprate da stranieri. Forse riusciremo a mantenere Parmalat italiana, ma al prezzo di tarpare le ali alle nostre aziende migliori. Per esempio sarà più facile per il Congresso di Washington bloccare le prossime acquisizioni americane di Finmeccanica, un leader nel settore delicato della tecnologia militare, che spesso per crescere ha bisogno di tecnologia Usa.

Come ha scritto sabato scorso sul Corriere Roger Abravanel: «Non abbiamo bisogno di protezionismo, ma di imprenditori in grado di competere con i francesi di Lactalis per Parmalat». Se nessun imprenditore ha ritenuto di lanciare un'Offerta pubblica di acquisto conveniente quando l'azienda costava 3 miliardi di euro, perché dovrebbero farlo oggi quando costa un miliardo di più? Temo lo farebbero solo in cambio di compensazioni politiche, come quelle di cui beneficiarono i privati che hanno acquistato Alitalia-Air One, cioè se a pagare fossero ancora una volta i contribuenti.

L'Opa è la strada obbligata anche per i francesi di Lactalis cui non può essere concesso di controllare Parmalat con il 29,9%, una frazione sotto la soglia che fa scattare l'obbligo di Offerta pubblica di acquisto, soprattutto se accordi con fondi «amici» le garantiscono una maggioranza più ampia. La Consob farebbe bene a verificare se quelli avvenuti siano stati acquisti concertati e nel caso obbligare i francesi a lanciare un'Opa.
Francesco Giavazzi

Franco Mosconi: "Le unioni funzionano solo se rafforzano il core business"
Aldo Tagliaferro
Il dibattito sull'«italianità» delle nostre aziende scaturito dalla vicenda Parmalat sembra aver relegato in secondo piano quello che è invece il nocciolo della questione, ovvero l'aspetto industriale. Per leggere il futuro della multinazionale di Collecchio più che la querelle politica fra Roma e Parigi o le verifiche di congruità con le norme comunitarie,  è necessario concentrarsi sugli effetti che la nuova governance avrà in termini di sviluppo produttivo, di ricadute sui dipendenti e sul territorio oltre che di remunerazione per gli azionisti. Franco Mosconi è professore di Economia industriale all’Università di Parma e insegna Politica industriale al Collegio Europeo. Con lui proviamo a capire quali sono le dinamiche industriali che muovono l'operazione.
Professor Mosconi, partiamo da lontano: le operazioni di fusione o acquisizione transfrontaliere sono un fatto positivo?
Sì, soprattutto se viste nell’ottica del mercato interno europeo, che assieme all’euro è la più grande conquista della Ue. L’Italia come sistema-Paese ha giustamente esultato per la strategie di espansione sui mercati europei, in primis dell’Est, condotte da Unicredit, Intesa Sanpaolo, Generali, Eni, Enel, più Luxottica e Brembo che hanno attraversato l'Atlantico.
Il rovescio della medaglia è che spesso lamentiamo la nostra scarsa capacità di attrarre capitali...
Che questo sia un grave limite del capitalismo italiano ce lo siamo detti infinite volte. La controprova risiede anche in questo caso nel generale consenso che ha accolto operazioni, per non andare troppo lontano, come quella Crédit Agricole-Cariparma: una autentica operazione cross-border fra imprese bancarie di due Paesi europei, per di più appartenenti alla zona dell’euro.
Quali sono le operazioni di M&A che sembrano funzionare oggi?
La tendenza è verso operazioni volte a rafforzare il core business dei partecipanti all’accordo (i tecnici le chiamano fusioni e acquisizioni «orizzontali»). Sembra finito insomma il tempo delle grandi conglomerate, che mettevano insieme «le pere con le mele». Sotto lo stesso tetto, per mere ragioni finanziarie e, non di rado, per la smania di protagonismo dei manager, finivano così per trovarsi i business più disparati.
E' questo il contesto per Parmalat?
Sì. E quello che dobbiamo chiederci è se l’operazione posta in essere dai francesi di Lactalis sia coerente con la necessità di rafforzare il core business di Parmalat, che è quello di una grande impresa alimentare. E la stessa domanda dobbiamo porcela per il soggetto italiano che pare si stia formando.
Ma il partner ideale per un gruppo come Parmalat è necessariamente un'azienda che già opera nello stesso business?
L'importante è che sia dentro i confini dell'industria agro-alimentare. La differenziazione del prodotto e l'ampliamento della gamma in un settore come quello alimentare ad alta intensità pubblicitaria possono avere una forte valenza strategica.
Cosa pensa delle ipotesi di «spezzatino» che qualcuno ha ipotizzato in questi giorni?
Smontare una delle poche multinazionali italiane con un brand altamente riconoscibile e che opera in un settore anticiclico potrebbe rivelarsi un errore. Diciamo che l'industria tedesca - visto che questo sembra il modello da seguire in Europa - non lo farebbe...
L'Italia ha «dormito» sul dossier Parmalat?
E' da un po’ di tempo che si sapeva della straordinaria opera di risanamento e rilancio condotta da Enrico Bondi, dell’ingente liquidità accumulata da Parmalat, dall’appeal di questo marchio. Che cosa ha impedito al capitalismo italiano di muoversi per tempo? La mancanza di capitali? E allora si abbia il coraggio di dirlo. La mancanza di una visione strategica? Speriamo di no, altrimenti nel mondo nuovo che si sta formando saremmo condannati alla marginalità. La domanda sul perché di questa gigantesca dormita per ora resta senza risposta.
Che effetti può avere un'operazione come quella di Lactalis su Parmalat?
Sugli effetti è bene non dormire, avviando da subito una riflessione a livello cittadino, regionale e nazionale per poi mettere in campo tutti quegli strumenti che la «Nuova politica industriale» - non per caso un’area di policy sempre più seguita da Bruxelles - suggerisce. La parola-chiave è la «filiera agro-alimentare»: in tale contesto, Parmalat è giustamente vista come strategica. Parlare di Parmalat e della sua filiera significa introdurre nel discorso pubblico - accanto a quelli sacrosanti degli azionisti - gli interessi dei dipendenti, dei fornitori, dei clienti: di tutti coloro che chiamiamo “portatori di interesse”. Ce lo insegna magistralmente il «capitalismo renano», che ha fatto tornare grande la Germania. Qui gli assetti proprietari (ove spesso coesistono quote azionarie delle famiglie proprietarie e delle loro Fondazioni, quote di banche e assicurazioni, quote a volte dei Laender) danno stabilità alle imprese, che possono così programmare strategie di medio-lungo periodo. Questo è cruciale soprattutto nell’industria manifatturiera dove occorre investire in ricerca e tecnologia, scoprire nuovi prodotti e mettere a punto nuovi processi: se la proprietà e il management non hanno davanti a sé una prospettiva temporale adeguata per fare questi investimenti, che hanno ritorni incerti e differiti nel tempo, l’azienda non cresce. Il «capitalismo anglosassone», il modello alternativo al renano, ha certamente i suoi pregi, ma fra questi non metterei l’ottica di breve termine nella gestione delle imprese indotta dal dominio assoluto della Borsa e dalla necessità di sfornare i risultati trimestrali
Quanto conta il territorio per un'azienda come Parmalat?
Parlare di filiera vuol dire parlare del territorio dove un’impresa è insediata. E la filiera agro-alimentare è legata al territorio in una misura ancora più forte. Nel caso dell’industria lattiero-casearia non accade certo quello che si verifica nell’elettronica-informatica dove le delocalizzazioni delle fasi produttive sono ormai la regola. Prendiamo l’iPod, simbolo della Apple; solo il 2% del prezzo finale di vendita va al Paese che produce il manufatto fisico, il resto è appannaggio delle fasi ad alto valore aggiunto (progettazione, design,  marketing, distribuzione).
Qual è la sfida più difficile che dovrà affrontare la Parmalat?
Il difficile sarà conciliare due esigenze. Primo: conservare a Collecchio il quartier generale, che deve avere al proprio interno tutte le funzioni strategiche, sia quelle “a monte” (R&S, progettazione, marketing, finanza) sia quelle “a valle” (commercializzazione, logistica, distribuzione); non è superfluo annotare che si tratta di funzioni che richiedono capitale umano di qualità, e quindi capaci di offrire una chance ai nostri giovani talenti. Secondo: conservare, anzi rafforzare, i legami territoriali con tutta la filiera agro-alimentare.
Qual è l'elemento necessario per competere oggi: le dimensioni?
Che le dimensioni d’impresa contino sempre di più è un fatto sul quale esiste ampio consenso. Ma, data una certa dimensione d’impresa quel che conta sono la solidità e la stabilità degli assetti proprietari e la lungimiranza nella visione strategica. Abbiamo parlato di Parmalat ma possiamo guardare a altre due eccellenze della manifattura parmense, Barilla e Chiesi Farmaceutici, per avere conferma che si può competere a testa alta in giro per il mondo anche essendo più piccoli (anche notevolmente più piccoli) dei big player del settore di riferimento, a due condizioni però: avere una proprietà stabile, che dà respiro; innovare continuamente per innalzare la qualità dei propri prodotti. Questa seconda condizione Parmalat ce l’ha già in casa; la prima è da conquistare sul campo. L’auspicio è che non sia un campo di battaglia.

Ministro Romano: fare l’impossibile per mantenere Parmalat in mani italiane
30.03.11
Difendere i produttori significa difendere la qualità, difendere la produzione significa difendere il lavoro diretto e l’indotto. E in tal senso non può che essere auspicabile un dialogo sempre più proficuo con i sindacati e con le organizzazioni professionali. Il ministero delle Politiche agricole intende, per questo, promuovere un tavolo di filiera. Così il Ministro delle Politiche agricole.
“E' necessario fare il possibile e l'impossibile per mantenere Parmalat in mani italiane.
Il comparto lattiero-caseario costituisce una risorsa importante per l'economia nazionale, basti considerare che la produzione del latte nel nostro Paese è pari a 11 milioni di tonnellate, con un numero di allevamenti pari a circa 60 mila, e oltre duemila imprese che impiegano 25mila addetti, per un indotto che supera i 100mila lavoratori.
Difendere i produttori significa difendere la qualità, difendere la produzione significa difendere il lavoro diretto e l’indotto. E in tal senso non può che essere auspicabile un dialogo sempre più proficuo con i sindacati e con le organizzazioni professionali. Il ministero delle Politiche agricole intende, per questo, promuovere un tavolo di filiera. Riteniamo che meriti grande attenzione per la sua lungimiranza la proposta avanzata dal Ministro dell'Economia Giulio Tremonti, relativa alla necessità di norme anti-Opa, utili a proteggere, da scalate straniere, i settori strategici della nostra produzione, come quello, appunto, lattiero-caseario. In ciò deve ravvisarsi anche e soprattutto un obiettivo di difesa dei lavoratori”.
Così il ministro delle Politiche agricole, Saverio Romano.

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