giovedì 3 marzo 2011

Il Sud? Arbitro di se stesso. Ma anche il Nord va in retromarcia


Il Sud? Arbitro di se stesso
Non servono trasferimenti ma riforme per colmare gli squilibri
CARENZE E RICETTE Nell'interesse del Nord (che è in media meno ricco dell'Europa) sono necessarie misure mirate alla crescita delle regioni meridionali. di Pietro Reichlin – il Sole 24 Ore.

Il problema dello sviluppo del nostro Mezzogiorno è certamente irrisolto. Il divario in termini di Pil pro capite tra Nord e Sud del paese è rimasto sostanzialmente invariato negli ultimi trent'anni, un gap di circa 30 punti percentuali, mentre il divario di produttività rimane intorno ai 15 punti. La distanza tra le due aree del paese in termini di qualità delle istituzioni, attrattività degli investimenti e capacità di penetrazione delle nostre industrie nei mercati internazionali è ancora più accentuata. Per comprendere la gravità del problema basta osservare che, negli ultimi vent'anni, le regioni meno sviluppate d'Europa sono state in grado di recuperare ampiamente il proprio ritardo nei confronti delle aree più sviluppate. Dunque, la convergenza tra regioni ricche e regioni povere non è impossibile, ma è anzi un evento naturale in assenza di impedimenti di carattere istituzionale. Recentemente il ministro Tremonti ci ha ricordato che il ritardo del Mezzogiorno costituisce il principale (o, forse, l'unico) difetto della nostra economia nazionale. Per avvalorare questa tesi egli ha anche osservato che il Pil pro capite delle regioni del Nord d'Italia è tra i più alti del mondo. Senza Mezzogiorno, dunque, saremmo ricchi come la Svezia o la Germania. Tuttavia, non si deve dimenticare che l'Italia soffre di un difetto di crescita nei confronti degli altri paesi industrializzati, e che tale difetto non riguarda solo il Mezzogiorno, ma anche il Centro Nord. I dati dell'Istat e della Banca d'Italia ci dicono che, dalla metà degli anni 90, la crescita del prodotto pro capite dell'Italia è stato inferiore di quasi 10 punti percentuali rispetto a quello dell'Eurozona. Se disaggreghiamo per aree geografiche, vediamo che il tasso di crescita del Pil pro capite nel Centro Nord, tra il 1996 e il 2006, raggiunge lo 0,8%, contro l'1,3% del Mezzogiorno. La Lombardia è cresciuta circa la metà della Puglia o della Campania. In conclusione, i cittadini del Centro Nord sono certamente ricchi in media, ma sempre meno ricchi in rapporto alle altre regioni dell'Eurozona. Negli ultimi 5-6 anni il Mezzogiorno ha subito un rallentamento della crescita rispetto al Centro Nord, ma ciò appare un fenomeno legato alla recessione e, in particolare, al fatto che la specializzazione produttiva del Mezzogiorno lo espone maggiormente alla concorrenza con i paesi emergenti. In realtà, se pensiamo che esistano politiche efficaci per risolvere il ristagno dell'economia italiana, la spinta fondamentale alla ricchezza del nostro paese dovrebbe venire soprattutto dal Mezzogiorno. Infatti, nella generalità dei casi, tassi di crescita particolarmente elevati (al di sopra della media) sono più probabili nelle regioni meno sviluppate, dove il capitale e il lavoro qualificato sono più scarsi e i guadagni di produttività più elevati. Poiché il Mezzogiorno costituisce l'area (sub-nazionale) economicamente svantaggiata più grande d'Europa, il potenziale di crescita dell'Italia è ancora elevato. Il vero problema per i nostri governi è dunque quello di trovare, e riuscire ad applicare, politiche per la crescita per il Mezzogiorno, anche nell'interesse dell'economia del Nord Italia. Queste politiche sono già note, implicano un miglioramento della qualità dell'istruzione, una maggiore decentralizzazione della contrattazione a livello di aree e di impresa, una riduzione della pressione fiscale, una maggiore efficacia della giustizia civile e dei controlli di legalità. Tra gli indicatori della distanza tra il Centro Nord e il Sud, quelli che destano maggiore apprensione non riguardano il Pil pro capite, ma la percentuale di giovani che abbandonano prematuramente gli studi (16,8 contro 25,5%), gli studenti con scarse competenze in lettura e matematica (17 contro 41,2%), l'attrattività degli investimenti diretti dall'estero, la durata delle procedure giudiziarie e i livelli di corruzione.
Questi stessi dati suggeriscono che la ripresa del Mezzogiorno non dipende dall'entità dei trasferimenti pubblici ma dal grado di efficienza delle istituzioni. L'economia del Mezzogiorno ha bisogno di far crescere le imprese e la concorrenza nei mercati, liberandosi dal peso del settore pubblico, che al Sud raggiunge il 22,2% del prodotto, contro il 12% circa del Centro Nord. L'economia del Mezzogiorno può quindi essere vista come un peso o come un'opportunità. Sta ai governi e alle forze sociali trovare la chiave per far prevalere il secondo aspetto sul primo.

Ma anche il Nord va in retromarcia
di GIANFRANCO VIESTI – La Gazzetta del Mezzogiorno.
Sta diventando di moda sostenere che le difficoltà dell’Italia dipendono esclusivamente dal fatto che c’è il Mezzogiorno.

E’ una tesi che si va facendo strada; ha autorevoli sostenitori nel Governo; ma è stata ripresa anche da esponenti dell’opposizione. C’è stato un forte rallentamento della crescita economica in Italia negli ultimi anni? Questo in realtà riguarda solo il Sud; senza il Sud l’Italia avrebbe risultati simili al resto d’Europa. Ma è vero?
Proviamo a fornire una risposta dati alla mano. Prendiamo i dati ufficiali per tutte le 271 regioni europee (fra cui ovviamente quelle italiane) per il 2008, che sono stati resi noti ufficialmente da Eurostat il 19 febbraio scorso. Poi prendiamo gli stessi dati per il 2004: così copriamo un arco di tempo di quattro anni (né troppo breve né troppo lungo), e ci fermiamo prima della grande crisi economica. Compariamo il reddito procapite di ciascuna regione alla media dell’Europa a 27 (posta uguale a 100), sia per il 2004 che per il 2008. L’interpretazione dei numeri è semplice. Se i dati sono inferiori (superiori) a 100 significa che quella regione è relativamente più povera (ricca) della media europea; se il dato del 2008 è maggiore (minore) di quello del 2004, significa che quella regione è cresciuta di più (di meno) della media europea.

Reddito.
Vediamo che ci dicono i numeri. Cominciamo dal livello al 2008. Il reddito procapite della Puglia nel 2008 è a quota 67 (cioè il 67% della media europea). Molto basso. Simile a quello di Calabria, Campania e Sicilia. La Basilicata è a 76. Le altre regioni del Sud un po’ più in alto. Chi ha livelli di reddito simili alla Puglia? Quasi tutte le regioni della Repubblica Ceca; l’Estonia; una sola regione greca (la Tracia) e spagnola (l’Extremadura), mentre tutte le altre sono più in alto; tre delle cinque regioni portoghesi; una parte della Slovacchia. Più in basso ci sono le regioni di Bulgaria, Romania (ma non Bucarest), Polonia (ma non Varsavia), Ungheria (ma non Budapest) Lettonia e Lituania. La regione tedesca più povera (il Nord-Brandemburgo) è a quota 75. Tutte le altre più su. Insomma, il dato è chiaro: le regioni del Sud Italia sono ormai fra le più povere d’Europa. Ben diversa la situazione al Nord, naturalmente. Il NordEst è intorno a 120, come le Fiandre, molte regioni tedesche (dell’Ovest), il NordEst spagnolo e Madrid, l’Austria. Europa ricca, anche se non la più ricca. Fin qui notizie note.
Ma che è successo fra il 2004 e il 2008? Il Sud è andato indietro. La Puglia scende da 69,8 a 67. Fra due e tre punti perdono anche altre regioni del Sud. Solo la Basilicata sale di qualche decimo di punto, da 75,4 a 76. Brutte notizie, in larga parte note. Ma che è successo al Nord Italia? A stare a quello che si dice non dovrebbe aver perso terreno. E invece il Veneto scende da 127 a 122 (-5); il Piemonte da 119,5 a 114 (-5,5); la Lombardia addirittura da 141,5 a 134 (-7,5). Tutte le altre regioni del CentroNord perdono terreno. Per un motivo molto semplice. La crisi di competitività e di crescita non riguarda solo il Sud, ma l’intera economia italiana. Se le regioni meridionali perdono terreno rispetto a quelle relativamente più povere dell’Unione Europa, quelle settentrionali perdono terreno rispetto a quelle più ricche. Nel 2004 la Puglia aveva un livello di reddito simile al Peloponneso in Grecia e all’Alentejo in Portogallo. Dopo soli quattro anni la Puglia, come abbiamo visto, è a 67, il Peloponneso a 84 (ma, attenzione, poi è arrivata la terribile crisi greca) e l’Alentejo a 72. Sempre nel 2004 il Veneto aveva un livello di reddito simile alle regioni di Dusseldorf in Germania e Bratislava in Slovacchia, e alla Navarra in Spagna. Dopo soli quattro anni, il Veneto, come abbiamo visto, è a 122, la Navarra a 131, Dusseldorf a 132, Bratislava addirittura a 167.

Livelli.
Che il Nord abbia livelli di reddito molto alti, nel panorama europeo, e il Sud li abbia molto bassi, è un fenomeno noto. Ma è assai meno chiaro agli italiani che tanto il Sud quanto il Nord hanno perso, pesantemente e parallelamente, terreno in Europa. Anzi, se è relativamente semplice spiegare perché la Calabria così debole non tiene il passo europeo, è assai più complesso spiegare perché il passo non lo tiene la Lombardia, così forte.
Questa non è una buona notizia: mal comune non è mai mezzo gaudio. E la gravissima crisi competitiva del Nord rende più difficile il compito del Sud (come si vede dal federalismo) e non certo più facile. Ma è un fatto. E che i documenti ufficiali del Governo, così come illustri esponenti di maggioranza e opposizione, lo ignorino è davvero sorprendente. Chiamare “Mezzogiorno” i guai del paese è ormai sempre di più lo sport nazionale. Ma non porta lontano. Tutta l’Italia, a cominciare dalle sue aree più forti, va malissimo. Ignorarlo non serve.




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