mercoledì 13 aprile 2011

Federali-Sera. 13 aprile 2011. Belluno. Dopo gli attentati, racconta Bressa, ci fu una manifestazione dei sud tirolesi chiamata Via da Trento. Accusavano lo Stato (che aveva fatto una Regione unica con Trento e Bolzano) di aver tradito gli accordi di Parigi e cioè l'autonomia del loro territorio. Con la riforma del Titolo V (2001) fu colta l'occasione per portare in Costituzione quanto previsto dagli Statuti delle due Province, che avevano spogliato la Regione di ogni potere, trasferendoli a sè.----Gli abitanti del campo sono rom di etnia harvati, residenti a Padova e italiani da oltre un secolo.

Cause ed effetti: 
Sarkozy fa il leghista per difendersi dal Fn
In Libia non si doveva proprio bombardare
San Marino. Armerie in ginocchio dopo la circolare Manganelli, governo e gendarmeria a Roma per rimediare
San Marino. Il Titano è vivo e vegeto.
Financial Times: Italia, la "balena" che può decidere il destino dell’euro

Forza Luis:
Bozen. Toponomastica in Alto Adige, Pd e Pdl: da Fitto niente regali all'Svp
Bozen. Bolzano, scuola Manzoni: l'alfabeto si insegna bilingue
Trento. Evasione fiscale: tesoretto all'estero
Trento. Wi-fi: Trentino-Alto Adige al vertice in Italia per densità di hotspot
Belluno. STOP ALL'ANNESSIONE
Belluno. Referendum bocciato «democrazia negata»

Provincia padana:
Tradate. Varese. Frode fiscale da 36 milioni, due imprenditori a giudizio
Luino. Varese. Barba e capelli solo made in Lombardia
Venezia. Scontro tra le università
Padova. Quindici casette al campo nomadi

Isteria ed appalti:
L'accoglienza costa 72 milioni  
Trento. Profughi: stimati 225 arrivi in Trentino e 215 in Alto Adige
Trieste. Sbarchi: "Oltre 400 immigrati fra Trieste e il Friuli"
Treviso. Gobbo: «Nessun profugo nella Marca»
Venezia. Ok della Regione, arrivano i migranti
Bergamo. Sgomberato rifugio di 17 tunisini
Modena. Galli: "Profughi, a Modena si farà così"
Ferrara. Profughi, nessun Comune escluso
Bologna. In arrivo 800 immigrati
Bologna. Profughi, prese le impronte ai minorenni
Genova, bomba al centro profughi
Firenze. Profughi, certezze addio


Sarkozy fa il leghista per difendersi dal Fn
di Pierluigi Magnaschi  
Nicholas Sarkozy, come tutti i presidenti francesi che lo hanno preceduto, ritiene che la politica estera sia lo strumento per meglio tutelare gli interessi francesi nel mondo. Egli, al pari, ripeto, dei presidenti che l'hanno preceduto, l'ammanta, come del resto debbono fare i politici astuti, di belle parole, di umanitarismo sfacciato e, ovviamente, si sciacqua la bocca di diritti umani. Ma, in pratica, la politica estera francese vuol solo rafforzare gli interessi francesi. E quando si deve perseguire questo scopo, al contrario di ciò che avviene in Italia, maggioranza e opposizione sono, in Francia, unite come un sol uomo. Questa finalità è stata perseguita anche nella campagna contro la Libia. In gioco, non ci sono i diritti umani dei libici oppressi da un dittatore. Primo, perché questo dittatore li opprime da 40 anni. Secondo, perché, fino all'11 gennaio scorso, la Francia è stata il principale paese che, sotto la regia dell'unità militare istituita presso l'Eliseo con questo scopo, ha fornito alle Libia, con un business lucrosissimo, le armi che hanno consentito a Gheddafi di meglio opprimere il suo popolo. Nel mirino di Sarkozy invece c'è l'accordo di collaborazione che l'Italia era riuscita a concludere con la Libia, i grandi investimenti promessi e possibili con imprese tricolori, gli investimenti statali libici nelle imprese italiane, gli accordi di fornitura di petrolio e gas. Troppa grazia per Roma e troppo poca grazia per Parigi. Bisognava far saltare il tavolo. E Sarkozy lo ha fatto, anche se non si sa come andrà a finire. Ma nelle decisioni di Sarkozy ci sono anche, e vistosissimi, dei motivi di politica interna. Nelle recentissime elezioni dipartimentali infatti, l'Ump, il partito del presidente Sarkozy, ha preso solo il 2% in più di voti rispetto a quelli della figlia di Le Pen. Quest'ultima, solo da qualche mese, guida il Front National, un partito xenofobo, di fronte al quale la Lega di Bossi sembra un partito terzomondista. Fra un anno Sarkozy deve affrontare le elezioni presidenziali. E, se i dati restano quelli delle ultime elezioni dipartimentali, se ne andrà a casa. Non solo, mentre in Italia il Pdl e la Lega, pur essendo in concorrenza, non sono antagonisti, in Francia, l'Ump e il Fn si sbranano l'un con l'altro: quanto più sale uno, tanto più scende l'altro. Ecco perché Sarkozy deve fare il duro contro gli immigrati che provengono da Lampedusa. Il suo messaggio sull'immigrazione è: sono più implacabile dei lepenisti. Da qui anche la sua recente decisione di sostituire il ministro dell'interno. Claude Guéant è un mastino con la faccia feroce.

In Libia non si doveva proprio bombardare
di Piero Laporta prlprt@gmail.com
Nelle relazioni internazionali, come nelle dispute più banali, è un errore formulare minacce vane. Peggio se la presunta minaccia diventa un retorico dubbio: «Mi chiedo se ha senso continuare a far parte dell'Unione Europea», ha detto Roberto Maroni al Consiglio affari interni dell'Unione tenutosi in Lussemburgo per l'emergenza migranti. I vincoli economici e sostanziali con l'Ue sono tali che occorrerebbero almeno dieci anni per liberarsene. Parole a vuoto, quindi, quelle di Maroni, così come l'analogo controcanto di Silvio Berlusconi, utili solo alle fiammate polemiche effimere che punteggiano la politica italiana. Il primo errore fu concedere le basi Nato per bombardare la Libia. Non avevamo alcun obbligo, abbiamo fatto malissimo a concederle perché oggi siamo o appariamo corresponsabili delle migrazioni dal Nord Africa. Le apparenze, in politica, contano spesso più della sostanza, specialmente se c'è interesse a confonderle. Di questo interesse sono depositari almeno tre paesi della Nato, cioè Usa, Regno Unito e Francia. A distanza di un mese dall'inizio delle operazioni contro la Libia, è chiaro che non c'erano le ragioni, né politiche né militari, per trasformare la “non fly zone” in “bombing zone”, oltretutto con tempi, modi e strumenti (come l'infiltrazione terrestre delle forze speciali francesi e inglesi) in contrasto con lo spirito e la lettera della risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza, la cui portata forse non era stata ben compresa dal governo italiano al momento della sua diramazione, quando già i bombardieri francesi erano in volo. Il fatto essenziale di questa vicenda è che tre paesi alleati di primaria importanza hanno intrapreso un'azione militare che coinvolge i nostri interessi primari, come approvvigionamento energetico e sicurezza nazionale, violando gravemente lo spirito di solidarietà del Trattato atlantico e in particolare l'articolo 2 che richiama a una piena e leale collaborazione. Oggi l'Italia ha facoltà di avvalersi dell'articolo 4 del Trattato atlantico: «Le parti si consulteranno ogni volta che, nell'opinione di una di esse, l'integrità territoriale, l'indipendenza politica o la sicurezza di una delle parti fosse minacciata». Chi dubiti che la nostra sicurezza sia minacciata, prenoti le vacanze a Lampedusa, che è territorio nostro nazionale, per ora. Altro che rimanere fuori dalla porta a implorare di essere coinvolti nelle consultazioni, come s'è fatto sinora dopo aver incautamente aperto le basi e messo a disposizione le nostre risorse militari. La denuncia del Trattato atlantico esige un anno di moratoria dopo la comunicazione a tutti gli Stati partner. Cominciare una riflessione su un'alleanza molto meno utile della Ue (e più dannosa, alla prova dei fatti) è anche un modo per stanare le connivenze fra le capitali della Triplice e quelle parti dell'opposizione che dal 1991 danno mostra d'aver rimediato alla caduta dell'Unione sovietica con servaggi più remunerativi.

San Marino. Armerie in ginocchio dopo la circolare Manganelli, governo e gendarmeria a Roma per rimediare
13/04/11 08:34
[Tribuna] Attorno al tavolo. Da una parte i funzionari delle segreterie di Stato agli Affari esteri e all’Industria accompagnati dal comandante della Gendarmeria Achille Zechini. Dall’altra Antonio Manganelli, il capo della polizia di Stato italiana che ha firmato il documento fatale: la circolare del Ministero dell’Interno 557/PAS.10176(1) del 29 Marzo 2011. Che, di fatto, ha ‘caricato’ la prassi burocratica da affrontare per chi, italiano, è intenzionato a comprare un’arma a San Marino. Mettendo così in ginocchio le armerie sammarinesi. In mezzo, sul tavolo, la circolare e le sue conseguenze. Alle quali rimediare.
 Dalla segreteria di Stato all’Industria arriva la conferma dell’incontro, ma nessun dettaglio in più. Si parla solo di un incontro tecnico nel quale sono stati analizzati i primi aspetti della questione. Nel ‘summit’, che risale alla settimana scorsa, non sono state quindi prese decisioni. Rinviate, eventualmente, a un nuovo appuntamento di approfondimento.

Speranze.
 I gestori delle armerie sammarinesi, alcuni dei quali informati dell’incontro, guardano ora con fiducia ai prossimi contatti con Roma. Dopo i quali si spera di tornare al regime precedente. Quando, cioè, ai clienti di oltre confine bastava recarsi in questura per la registrazione dell’arma comprata sul Titano con il certificato di vendita fornito dalle armerie.

Le dimensioni del calo.
 La flessione nelle vendite è stata quantificata da alcune armerie sammarinesi in una ricognizione pubblicata su Tribuna nel gennaio scorso.
 Beccari armi e sport di Borgo Maggiore parlava di “un disastro, con le armi il calo è di quasi il 50%”. Crisi anche da Lazzarini armi sport di San Marino città: “La vendita di armi è calata molto”. L’unica eccezione, fra gli interpellati, veniva dall’armeria Ceccoli di Fiorentino: “Per le armi non abbiamo ancora problemi”.
 Le dichiarazioni erano state rilasciate quando gli imprenditori dovevano fare i conti con le disposizioni di alcune questure italiane. Mentre con il documento del 29 marzo il problema si è esteso a tutta la penisola.
Jeffrey Zani

San Marino. Il Titano è vivo e vegeto.
L’economia di San Marino lancia segnali ottimistici: in aumento il monte salari e stipendi. Lo rivela il bollettino Iss
13/04/11 08:37 [Romagnanoi] Il Titano non è “un Paese che muore”. Lo dimostrano i dati su salari, cassa integrazione e contributi versati dalle aziende per i propri dipendenti. Il segretario di Stato per la Sanità, Claudio Podeschi, affiancato da Francesco Mussoni, responsabile per il Lavoro, nell’incontro settimanale dell’esecutivo con la stampa, porta sul tavolo tabelle e schemi che mettono a confronto il quadro dell’economia privata sammarinese dal 2005 al 2011.

Dal bollettino dell’Iss, Istituto per la sicurezza sociale, si ricavano di fatto segnali ottimistici. Un dato su tutti è la somma dei contributi versati allo Stato dalle aziende per i propri dipendenti: dal confronto tra il primo bimestre del 2010 e quello del 2011, si evince che sono aumentati di circa 300 mila euro. Quindi il monte salari e stipendi: nel 2005 ammontava a 319 milioni di euro. Una cifra destinata a seguire un trend al rialzo fino al 2009, anno horribilis per l’economia sammarinese e non solo. Se infatti nel 2008 il valore totale degli stipendi versati dalle imprese ai dipendenti era di 397,6 milioni di euro, l’anno successivo e’ sceso a 393,6 milioni. Una parentesi limitata al 2009, perché l’anno scorso il monte salari e’ nuovamente aumentato di 8 milioni di euro, salendo a 401,8.

Migliorano anche i dati sulla cassa integrazione: all’apice della crisi economica, nel 2009, le ore di Cig richieste dalle aziende erano oltre un milione. L’anno scorso si è registrata invece una diminuzione di oltre 290 mila ore, per un risparmio dello Stato di oltre 2 milioni e mezzo di euro. L’unico fronte che non desta segnali di ripresa è quello dell’occupazione. Nel 2009 si sfioravano i 16 mila dipendenti per il settore privato. Nel 2010 il numero e’ sceso di 300 unita’, piu’ precisamente di 274.

Tutti questi numeri sono stati esaminati nella seduta odierna del congresso di Stato che tiene sotto controllo lo stato di salute delle imprese. “Siamo preoccupati e attenti a quello che sta avvenendo all’economia del Paese”, spiega Podeschi. Per questo il monitoraggio è continuo, assicura. E rispetto alle grida di allarme lanciate da sindacati, associazioni di categoria e imprenditori, si vuole dare chiarezza: “Questi dati – spiega il responsabile alla Sanità – rappresentano la base di partenza per un’economia che non è certo da buttar via”. Le criticità esistono, in particolare nel settore edile, immobiliare e finanziario, ammette. Il sistema economico dovrà riconvertirsi e valorizzare altri settori. “La nostra competitività si basa sulla fiscalità e sulla tempestività”, sottolinea Podeschi. Entrambi i vantaggi stanno richiamando investimenti da parte di gruppi quotati in borsa, assicura infine, e che interessano i settori del benessere e della produzione di software per le imprese.

Financial Times: Italia, la "balena" che può decidere il destino dell’euro
Mercoledì 13 Aprile 2011 07:02  Redazione desk
ROMA – L’editoriale apparso lunedì scorso sul britannico Financial Times, testata nota per le sue lucide analisi economiche, non usa mezze misure (a partire dal titolo: La crisi dell’euro, l’Italia e il suo premier giocherellone e con una emblematica e chiara metafora descrive una situazione complessiva, economica e non solo, che non è più tollerabile. Un editoriale che non a caso arriva il giorno dopo il video-appello della presidente di Confindustria Emma Marcegaglia. La metafora è la seguente. Gli scommettitori di Las Vegas chiamano "big whales", cioè grandi balene, quei soggetti che, con i loro grandi azzardi, potrebbero potenzialmente «fare la fortuna di un casinò, ma anche mandarlo a gambe all’aria». La definizione di balena si applicherebbe perfettamente all’Italia poiché, avendo una economia di primo piano, ma un «debito ampio», il Belpaese potrebbe decidere il destino della moneta unica perché, come scrive il quotidiano londinese, se dovesse fallire sarebbe «troppo grande per essere salvato». Vada per il recente "bail-out"del Portogallo, ben accolto dall’Ue, qualche preoccupazione in più potrebbe darla la Spagna, che è un po’ più grande, ma se l’Italia dovesse effettivamente essere a rischio il problema diverrebbe molto serio. Qualcuno però sta cominciando a porsi il problema. Nella comunità imprenditoriale e finanziaria, spiega l’Ft, c’è chi teme che l’Italia possa essere contagiata dalla crisi e che al momento la situazione è «tollerabile» perché i tassi d’interesse sono ancora bassi, ma altri rialzi, come quello effettuato la settimana scorsa dalla Bce, potrebbero portare Roma a varare misure di «austerità» ed «eventualmente trasformare il debito in un peso intollerabile». Ogni aumento di mezzo punto percentuale dei tassi di interesse potrebbe infatti portare ad un aumento di 10 miliardi di euro del costo degli interessi per ripagare il debito. Il quotidiano riconosce anche che il nostro paese, pur avendo un debito pubblico elevato ha risparmi privati elevati. a gran parte del debito italiano viene ancora acquistato in Italia. Non solo: le banche italiane sono state molto più prudenti di quelle tedesche o britanniche. Inoltre, il deficit di bilancio è relativamente basso, a poco più del 4% del Pil. Tuttavia c’è chi afferma che se l’Italia è sopravvissuta per anni ad un debito così grande, non può andare avanti ancora per molto con un Premier «giocherellone» come Silvio Berlusconi perennemente alle prese con gli scandali sessuali, processi che per la maggior parte si sono «affondati nelle sabbie mobili della prescrizione», responsabile di una politica economica inesistente e una politica estera incerta che non ha inciso negli eventi in Nord Africa. Parole anche più morbide rispetto a quelle scritte dallo stesso quotidiano britannico in occasione delle celebrazioni del 150mo dell’Unità d’Italia, quando si affermava che Berlusconi «senza scuse ha fallito nel promuovere le riforme economiche», e che i suoi eccessi nel pubblico e nel privato hanno fatto crollare il prestigio della nazione ai peggiori livelli dal 1945.

Bozen. Toponomastica in Alto Adige, Pd e Pdl: da Fitto niente regali all'Svp
I deputati italiani: rispettare il bilinguismo sui cartelli di montagna
di Mirco Marchiodi
BOLZANO. Cartelli di montagna e concessione A22. Sono questi i due grandi temi all'ordine del giorno del doppio vertice romano di domani, durante il quale il presidente della Provincia Durnwalder incontrerà i ministri agli Affari regionali Fitto e alle Infrastrutture Matteoli. Domani Luis Durnwalder sarà a Roma per incontrare i due ministri Fitto (Affari regionali) e Matteoli (Infrastrutture). Nessuno dei due incontri istituzionali porterà ad una decisione definitiva, ma entrambi saranno centrali per porre le basi sulle mosse future di Provincia e governo sui temi della cartellonistica e dell'A22.

 I CARTELLI. L'incontro politicamente più delicato è sicuramente quello con il ministro agli Affari regionali Raffaele Fitto. C'è da valutare il lavoro della commissione paritetica Stato-Provincia, che finora in giunta ha ricevuto solo Durnwalder, mentre il Pd non ha ancora potuto visionarlo. I deputati di Pd e Pdl non vogliono cedimenti da parte del governo: «Non ci saranno, il ministro Fitto confermerà gli impegni presi in estate», assicura Michaela Biancofiore del Pdl. Sulla stessa linea anche il collega di partito Giorgio Holzmann. Luisa Gnecchi, deputata del Pd, si augura che «l'intesa rispetti il lavoro della commissione, che è arrivata ad un accordo praticamente su tutto, tolti pochi singoli toponimi sui quali non credo sarà complicato trovare un compromesso». Per il Pd resta però irrinunciabile il bilinguismo, come ribadisce il vicepresidente della Provincia Christian Tommasini: «Qualsiasi sia l'accordo - dice - per noi la stella polare alla quale orientarci resta lo statuto di autonomia e quindi il bilinguismo».

 L'AUTOSTRADA. Per l'A22 la situazione di partenza è diversa. Mentre la posizione di Stato e Provincia sui cartelli è divergente, quella sulla concessione autostradale è univoca. L'obiettivo di entrambi è di mantenere la concessione e di garantire il finanziamento trasversale al tunnel ferroviario del Brennero. Il problema è che in questo caso a mettersi di traverso è Bruxelles, che preferirebbe una gara europea e non una proroga automatica. Il ministro Altero Matteoli domani farà il punto della situazione assieme a Durnwalder, al
governatore trentino Lorenzo Dellai e al commissario governativo del Brennero Mauro Fabris.

 «Tra le richieste che abbiamo portato avanti - fa sapere Holzmann - ci sono anche il finanziamento da parte del nuovo concessionario della circonvallazione di Bolzano e del casello di Laives». La Provincia è sempre più orientata a puntare sulla gara: «È la soluzione meno rischiosa - spiega Siegfried Brugger - perché con un bando di gara fatto bene ci mettiamo al sicuro dai rilievi dell'Unione Europea ma allo stesso tempo garantiamo il finanziamento al tunnel del Brennero». Un bando di gara "fatto bene" legherebbe la concessione proprio al finanziamento della galleria di base, favorendo di fatto l'A22 che a questo proposito accantonerà 550 milioni entro il 2014 (anno di scadenza della concessione attuale). Questa soluzione permetterebbe anche di mantenere la concessione in capo all'A22 - e quindi ai suoi azionisti di maggioranza che sono la Regione e le Province di Trento e Bolzano - mentre un rinnovo senza gara dovrebbe passare attraverso la costituzione di un'apposita "società di corridoio" in cui sarebbero presenti anche l'Anas e Rfi e dove quindi il ruolo degli enti locali verrebbe ridimensionato rispetto a quello del governo centrale.

Bozen. Bolzano, scuola Manzoni: l'alfabeto si insegna bilingue
In prima si impara a leggere e scrivere contemporaneamente in italiano e tedesco
di Davide Pasquali
BOLZANO. «Il punto, ormai, non è più dove andare, ma quanto velocemente vogliamo andarci: la strada del plurilinguismo è tracciata». Lo afferma la dirigente scolastica delle Manzoni, Mirca Passarella. Assieme alla linguista, glottologa e docente universitaria Stefania Cavagnoli ha appena pubblicato un volume per la prestigiosa casa editrice milanese Franco Angeli: «Educare al plurilinguismo - Riflessioni didattiche, pedagogiche e linguistiche». Un libro-spartiacque. Perché decreta la fine della fase sperimentale, per traghettare la scuola a sezioni bilingui, o meglio trilingui, verso l'istituzionalizzazione. Insomma, sdogana definitivamente, anche o forse soprattutto a livello accademico, l'insegnamento veicolare nella seconda e pure nella terza lingua a partire dalle primarie. Il volume è espressione di una rara collaborazione fra il mondo universitario (purtroppo - vai a sapere perché - non l'altoatesina Lub) e la prassi didattica. Racconta l'esperienza plurilingue della scuola primaria bolzanina Manzoni, facendola assurgere a modello di riferimento a livello nazionale. Certamente non l'unico possibile, ma un modello didattico plurilingue che funziona. Eccome.
ALFABETIZZAZIONE. Sintetizzare 170 pagine di un testo specialistico denso di significati in poche righe è impresa improba, per cui, anche se decisamente a malincuore, si deve scegliere. La novità vera delle Manzoni, per la prima volta raccontata nero su bianco dal testo, è semplice da riassumere: di solito, in prima elementare si insegna a leggere e scrivere nella madrelingua degli alunni. Poi, soltanto dopo, si insegna a leggere e scrivere nella seconda lingua ed eventualmente pure nella terza. Alle Manzoni si è sperimentata con successo un'altra visione didattica, nuova: l'alfabetizzazione bilingue. Spiegano Passarella e Cavagnoli: «Significa avviare contemporaneamente all'apprendimento della letto-scrittura sia in italiano che in tedesco. È un po' la grande novità rispetto alle classi normali. I bimbi, in prima elementare, si avvicinano alla scuola con una grande voglia di imparare e sono molto motivati ad apprendere a leggere e a scrivere; e non trovano alcuna difficoltà a farlo parallelamente in italiano e tedesco».

 CONTRADDIZIONI. Questa visione contrasta con le teorie datate: una persona, una lingua. Si può magari insegnare da subito a parlare in un altro idioma, anche già in prima elementare, ma lettura e scrittura arrivano sempre in un secondo momento. Un po' quello che succede attualmente nella scuola tedesca: prima accantoniamo il dialetto e mettiamo a posto il tedesco, poi, soltanto poi, partiamo anche con l'italiano. «Qui abbiamo cercato di dimostrare che non solo non serve fare così ma, anzi, è molto più produttivo procedere con una alfabetizzazione bilingue italiana e tedesca, il che vuol dire imparare a leggere e scrivere in parallelo in italiano e tedesco». Sono gli stessi bambini, alle prime lezioni di seconda lingua, a chiedere, entusiasti: come si scrive? «Imparando a leggere e scrivere contemporaneamente in italiano e tedesco, l'una lingua sostiene l'altra. L'apprendimento bilingue è assai più veloce».

 IL CORAGGIO. La sperimentazione, alle Manzoni, è iniziata cinque anni fa e oggi coinvolge due sezioni, per un totale di sette classi. Inizialmente, il primo anno, le maestre non avevano avuto il coraggio di partire subito con l'alfabetizzazione parallela. Poi hanno allungato il passo e hanno scoperto che i bambini non solo gli stavano dietro, ma erano in grado di correre. «Abbiamo iniziato il secondo anno della sperimentazione, perché temevamo quello che la ricerca teorica ci continuava a dire. Insomma: imparare a parlare le due lingue insieme sì, ok; ma imparar a scrivere e leggere contemporanemtente nelle due lingue confonde i bimbi. In breve ci siamo resi conto, proprio dal punto di vista fonologico, dei suoni, che una lingua è in grado di sostenere l'altra, nello scritto esattamente come nel parlato. I bambini, così, hanno a disposizione e possono confrontare più suoni. Ciò permette loro di arrivare prima a riflettere su quello che stanno imparando, sulla lingua, e quindi, paradossalmente, iniziano più velocemente a giocare con la lingua, e lo fanno assai più facilmente anche nello scritto. Lo vedi per esempio con le rime: i bambini inventano giochi, rebus, poesie. Cose divertentissime, in italiano e tedesco. La lingua come gioco: divertente per gli insegnanti, utile per i ragazzi». Funziona così bene che si è pure messo in piedi un laboratorio ad hoc. «L'approccio laboratoriale, in genere non sfruttato come si dovrebbe, nella sperimentazione plurilingue delle Manzoni è uno dei punti più qualificanti». E fra i vari laboratori, tra i quali l'informatica in inglese (alle elementari!), c'è anche quello di riflessione linguistica. A lezione, in mezzo alla classe, sta una lavagna. Sulla sinistra il tedesco, sulla destra l'italiano. Esemplificando: si studia il suono "ch". In italiano è contenuto nella parola "chilo", in tedesco abbiamo invece "ich". Anche detta così, in maniera semplicistica, si capisce dove arriveranno questi bimbi. A leggere e scrivere in due lingue. E a capire che lo stesso oggetto serve a due cose. Tradotto: elasticità mentale assai sviluppata.

Trento. Evasione fiscale: tesoretto all'estero
13/04/2011 08:45
TRENTO - L'anno scorso la Guardia di finanza ha scovato in Trentino oltre 300 milioni di euro di redditi occultati al fisco. Nel 2009 i redditi recuperati a tassazione erano stati circa 200 milioni, l'incremento è quindi pari al 50%. Anche in questo caso, come per gli accertamenti fiscali dell'Agenzia delle entrate resi noti qualche giorno fa, in provincia si registra un'impennata dell'evasione scoperta. Non si tratta però di una diffusione dell'allergia al fisco. Il boom nasce da meno controlli, ma più mirati, soprattutto verso aziende medio-grandi. Alcune delle quali fanno un uso disinvolto delle sedi all'estero per «autoridursi» il carico fiscale. Dal lavoro della Finanza sono emerse, in particolare, alcune realtà di società «esterovestite», che cioè hanno la sede all'estero e lì pagano le tasse, ma di fatto hanno la direzione e l'operatività principale in Trentino.

Il punto è che le sedi legali sono scelte accuratamente per pagare meno tasse. Nei casi emersi dal lavoro della Finanza, si tratta di sedi europee, in paesi dell'Est, quindi non necessariamente paradisi fiscali, o in più tradizionali località a bassa tassazione, come il Lussemburgo. In due casi, nel settore dei servizi, nella fascia di aziende con fatturato superiore ai 9 milioni, si parla di evasione per decine di milioni di euro. La Finanza è intervenuta in base all'articolo 73 del testo unico delle imposte sui redditi, che definisce chi sono i soggetti passivi delle imposte in Italia, ha scoperto che la direzione effettiva delle imprese era qui e non all'estero e ha contestato l'omessa dichiarazione in Italia. La partita, tra l'altro, è finita anche sul tavolo della procura della repubblica per l'eventuale indagine penale. Anche a livello nazionale l'azione della Guardia di finanza ha registrato nel 2010 un balzo del 46% dei redditi occultati al fisco e scoperti.

Trento. Wi-fi: Trentino-Alto Adige al vertice in Italia per densità di hotspot
Secondo una ricerca di "Enter", in regione c'è un punto di accesso a internet senza fili ogni 6 mila abitanti, meglio della Lombardia
TRENTO. Trentino Alto Adige e Lombardia sono le regioni italiane che registrano la densità più alta di punti di accesso a internet senza fili (hotspot). Secondo un’analisi comparativa condotta da Enter, operatore di telecomunicazione e progetti digitali del gruppo Y2K, i 5.097 hotspot dell’Italia sono concentrati soprattutto in Lombardia (26%), Lazio (13,1%), Emilia-Romagna (10,1%), Toscana (8,6%) e Veneto (7,1%). Il Trentino- Alto Adige è al primo posto per densità di hotspot: un accesso wi-fi pubblico a internet ogni 6.387 abitanti.

 "L’analisi della diffusione di wireless pubblico - commenta Nicola Sciumè, amministratore delegato di Enter - fotografa un Paese fortemente penalizzato dal gap infrastrutturale. Molte regioni a vocazione turistica non hanno ancora colto le potenzialità di una connessione diffusa, mentre le aree con più hotspot pubblici sono ancora lontane dai numeri fatti registrare all’estero. In questo scenario emergono due elementi di riflessione: da un lato lo sforzo del Governo per dare concretezza all’operazione Banda larga, dall’a ltro l’interesse crescente delle Pubbliche amministrazioni per la diffusione di bolle wi-fi in cui abilitare la navigazione libera”.

 Dal confronto con il resto del mondo, l’Italia si piazza al quattordicesimo posto, con duemila punti di accesso in meno della Turchia (10° posto) e 1.300 di Taiwan (11° posto). Così pure sono lontanissimi i vertici della graduatoria mondiale dominata dal Regno Unito con quasi 113 mila punti di acceso wi-fi a internet.

 L’analisi di Enter ha rilevato che in Trentino Alto Adige esiste un rapporto tra la popolazione residente e punti di accesso wi-fi a internet di 1 ogni 6.387 residenti. Una densità inferiore di 1.000 abitanti circa in Lombardia (1/7.399 residenti). Con numeri simili troviamo al terzo posto il Lazio (1/8.480 abitanti) e al quarto l’Emilia Romagna (1 hotspot ogni 8.486 abitanti).
Densità non molto diverse si riscontrano pure in Toscana (1/8.516 abitanti – 5° posto) e Valle D’Aosta (1/8.524 abitanti – 6° posto). Nei mesi scorsi Enter aveva rilanciato, su Facebook e Twitter, la campagna (“Liberatelo”) per il wi-fi libero in Italia. In due importanti momenti d’incontro per il mondo del web, come lo IAB Forum e la Social Media Week tenutasi poche settimane fa a Roma, ha messo a disposizione alcuni punti di accesso gratuiti alla rete.

 "Siamo impegnati – spiega ancora Nicola Sciumè – a contrastare il digital divide e la proliferazione del wi-fi pubblico può essere una leva importante. Nel mondo business e a livello istituzionale si sta diffondendo la consapevolezza che la connessione a Internet rappresenta un diritto di tutti. Il web è sempre più percepito come una utility – al pari di acqua, luce e gas – ed è importante che proprio dalla Pubblica Amministrazione arrivino segnali di attenzione: innovare significa anche costruire ambienti a prova di futuro".

Belluno. STOP ALL'ANNESSIONE
Referendum bocciato, Zaia: «Stimolati a rispondere»
Bressa manda in commissione la legge sull'autonomia
di Irene Aliprandi
BELLUNO. La speranza non deve cedere. Dopo il grande no della Cassazione al referendum provinciale, la politica offre uno scatto di reni e rilancia con promesse incoraggianti. Lo fanno, in particolare il presidente della Regione Luca Zaia e il deputato del Pd Gianclaudio Bressa, che ha fatto mettere in calendario la sua proposta di legge costituzionale.
 Zaia, che aveva dato il suo via libera ai leghisti della Provincia per il sì al referendum, afferma che la sentenza dà nuovo slancio all'impegno della Regione per la provincia di Belluno: «Il no della Cassazione all'ammissibilità del referendum non sposta di una virgola la questione. Il nostro obiettivo», dice il presidente veneto, «non cambia, anzi questo pronunciamento ci sarà di stimolo ulteriore per dare risposte ai bellunesi. Risposte nei fatti, e cioè nel nostro Statuto. Questo perchè», sottolinea Zaia, «siamo pienamente in sintonia con la richiesta di specificità del territorio bellunese e perchè riteniamo che l'autonomia sia un diritto per tutti e quindi, se qualcuno la invoca, ci sono le vie giuste per ottenerla».

 A sollecitare un'azione regionale, non solo nel futuro Statuto, ma prima di tutto sfruttando il comma 3 dell'art. 116 della Costituzione (forme e condizioni particolari di autonomia dallo Stato alle Regioni e di conseguenza agli enti locali) è Gianclaudio Bressa, che conosce bene gli statuti di Trento e Bolzano, essendo eletto in Sud Tirolo.

 «Le motivazioni citate dalla Cassazione erano il rischio vero». Il comma 2 del 116, l'ostacolo citato dalla Corte, nasce da una protesta dei trentini degli anni'70: «Dopo gli attentati», racconta Bressa, «ci fu una manifestazione dei sud tirolesi chiamata "Via da Trento". Accusavano lo Stato (che aveva fatto una Regione unica con Trento e Bolzano) di aver tradito gli accordi di Parigi e cioè l'autonomia del loro territorio. Con la riforma del Titolo V (2001) fu colta l'occasione per portare in Costituzione quanto previsto dagli Statuti delle due Province, che avevano spogliato la Regione di ogni potere, trasferendoli a sè».

 Ma la Costituzione non è immodificabile. Ieri Bressa ha fatto inserire nel calendario dei prossimi tre mesi della Commissione affari costituzionali la sua proposta di legge: "Istituzione della provincia speciale montana di Belluno"; la discussione avverrà tra aprile e giugno. Il deputato Pd crea un art. 123 bis della Costituzione: "Alla provincia speciale montana di Belluno sono attribuitr una forma e condizioni particolari di autonomia amministrativa e finanziaria, secondo disposizioni adottate con legge ordinaria, sentite le regioni interessate". «Si tratta di autonomia amministrativa, non legislativa come Trento e Bolzano», precisa, «finanziata con una quota non inferiore a otto decimi del gettito dei tributi erariali e regionali percepiti nel territorio». Bressa considera questo testo soprattutto uno strumento di pressione verso la Regione Veneto.

Belluno. Referendum bocciato «democrazia negata»
Secessione, l’ira dei promotori e del presidente della Provincia Bottacin. Il leghista Toscani: illusione finita
BELLUNO — «Fuori dai presupposti della democrazia». Un giudizio severo, quello del leader dei referendari Moreno Broccon sulla pronuncia dell’altro ieri della Cassazione, che ha sbarrato la strada alla consultazione popolare per il distacco del Bellunese dal Veneto e la sua aggregazione al Trentino-Alto Adige. «Cos’ha detto la Corte? - si chiede - Che c’è un articolo della Costituzione (il 116, secondo comma, Ndr) che afferma come il Trentino-Alto Adige è costituito dalle province autonome di Trento e Bolzano. Ora, i togati dicono che prima bisogna modificare l’articolo, poi indire il referendum. Insomma, prima bisogna passare per le Camere. Il fatto è che le firme si raccolgono appunto perché le istituzioni sono immobili, è ultima risorsa di fronte all’inerzia del Parlamento. Insomma, motivazioni insensate, per bloccare una macchina che non si fermerà». E qualcosa da dire ai giudici la trova anche il presidente della Provincia, il leghista Gianpaolo Bottacin. «Col testo deliberato dal consiglio provinciale - afferma Bottacin - mica si chiedeva di trasferire l’ente Provincia, ma il suo territorio. Potenzialmente i Comuni avrebbero potuto essere "spartiti" tra Trento e Bolzano. La pronuncia della Corte non regge e vorrei che qualcuno sul punto mi rispondesse ». Ma, al di là della delusione, si tratta di organizzare la reazione ai giudici della Suprema Corte.

E qui la politica sembra dividersi. Il presidente del consiglio provinciale, Stefano Ghezze (Pdl), rende noto che ieri alla Conferenza dei capogruppo «si è deciso di attendere le valutazioni del costituzionalista Sandro De Nardi, per capire se la partita del referendum è chiusa per sempre. Nel caso, resta la via politica». Sì, ma quale? Per il governatore del Veneto, il leghista Luca Zaia, la strada maestra è quella, già intrapresa, della specificità del Bellunese nello Statuto regionale, con la quale Palazzo Balbi «è perfettamente in sintonia ». Il deputato del Pd Gianclaudio Bressa tenta invece la via romana: con l’inserimento nel calendario della commissione Affari costituzionali (della Camera) della legge (da lui presentata) sull’autonomia della Provincia. «La discussione - rende noto - avverrà tra aprile e giugno». Ma c’è chi pensa che la strada parlamentare sia irta di ostacoli. «Semplice - taglia corto Bottacin - su 20 regioni, cinque pagano i conti delle altre 15. Il Parlamento è la "riunione di condominio": e quando si tratta di autonomia, chi ha già le spese pagate da altri sa da che parte stare». Chi, in questi mesi, non ha cavalcato l’idea del referendum è il vicepresidente del consiglio veneto Matteo Toscani (Lega): «Meglio - concede - che l’illusione sia finita subito: un’inutile perdita di tempo. Meglio concentrarsi su proposte concrete: un nuovo progetto di sviluppo per la montagna bellunese, con soluzioni attuabili». A proposito, ieri la Regione ha approvato le modalità di costituzione dello «Sportello unico del Demanio idrico» (tra l’ente e la Provincia di Belluno) per la gestione delle competenze. Secondo Bottacin è «un’ulteriore passo nell’iter dell’autonomia amministrativa».
Marco de’ Francesco

Tradate. Varese. Frode fiscale da 36 milioni, due imprenditori a giudizio
Nel giro di fatture false coinvolte oltre 30 aziende edili
Due imprenditori di Tradate (Varese) e San Salvo (Chieti) sono stati rinviati a giudizio a Como per un evasione fiscale da oltre 36 milioni di euro realizzata attraverso un giro di fatture false. Secondo quanto ricostruito dalla guardia di finanza di Olgiate Comasco (Como), i due soci, attraverso una loro società di fatto non operativa, emettevano fatture false per prestazioni mai eseguite al fine di creare costi fittizi per una 30ina di aziende del settore edile attive in provincia di Milano, Varese, Novara, Bergamo, Pavia, Monza Brianza, Verbano-Cusio-Ossola e Avellino che, grazie ai falsi documenti, riuscivano così ad abbattere l'utile d'esercizio e ad evadere il fisco. Oltre all'evasione fiscale da oltre 36milioni di euro, le fiamme gialle hanno accertato anche il mancato versamento di 550 mila euro di contributi previdenziali e assistenziali.

Luino. Varese. Barba e capelli solo made in Lombardia
Passa l’esame del Pirellone la mozione firmata da Giorgio Puricelli e Nicole Minetti
di ELENA CRIPPA
La concorrenza del "Fashion" di Luino avrà vita breve.
Messa-in-piega, taglio, o colore a pochi euro dal parrucchiere cinese che ha aperto sul lago, nel giro di un paio di mesi non saranno più un antagonista sgradito ai colleghi varesini. Perché la Regione metterà a punto un regolamento per uniformare in tutta la Lombardia gli orari di apertura e per dare un giro di vite contro il lavoro nero e l'abusivismo che nel settore dilagano.
"Addio giungla dei mille regolamenti comunali " sentenzia Giorgio Puricelli, consigliere regionale del Pdl, promotore della mozione che ieri ha passato l'esame del Consiglio regionale. Al fianco dell'ex massaggiatore del Milan, in questa crociata in difesa del barba-e-capelli made in Lombardia, si è schierata anche Nicole Minetti: "E' un provvedimento quanto mai importante per tutelare le attività artigianali che sul nostro territorio lavorano rispettando la legge".
Il caso Luino ha fatto esplodere la rabbia dei parrucchieri del Verbano. La fila di clienti sulla poltrona della coppia di coiffeur cinesi è stata una miccia nella polveriera di un settore che ha regole a macchia di leopardo, in una geografia di norme che cambia da comune a comune. Ma questa selva di regolamenti è destinata a sparire, se è vero, come si è impegnata a fare la giunta Formigoni, che arriverà un maxi provvedimento che stabilirà "requisiti per la formazione e l'abilitazione professionale - sottolinea Puricelli - le procedure e la modulistica per aprire e chiudere un negozio di parrucchiere, le norme igienico sanitarie dei locali da rispettare, come anche gli orari di apertura, i prezzi e la qualità dei prodotti cosmetici per il trattamento dei capelli". L'obiettivo è duplice: "Evitare fenomeni di illegalità - precisa l'esponente del Pdl al Pirellone - e dichiarare guerra alla concorrenza sleale, che mette in ginocchio le attività artigianali sul nostro territorio".
In arrivo anche parametri più rigidi per le sanzioni e maggiori controlli: "Così daremo risposte immediate a una categoria che si sente soffocare da una concorrenza insostenibile" conclude Puricelli.
Del resto "una piega a 5 euro è una tariffa impraticabile per chi in un salone segue alla lettera leggi e regole" denunciano da tempo le associazioni artigiane.

Venezia. Scontro tra le università
Zaia: «Ci metto io i soldi»
Un aiuto per evitare l’accorpamento delle scuole di Padova e Verona. Cardiochirurgia, il presidente: «No alla guerra tra poveri»
VENEZIA — Nella guerra tra gli Atenei di Padova e Verona per la Scuola di specializzazione in Cardiochirurgia, tolta dal ministro Mariastella Gelmini alla città del Santo per accorparla a quella scaligera, il governatore Luca Zaia prova a fare la colomba della pace. E dà una risposta unica al rettore «sconfitto» Giuseppe Zaccaria, che gli ha chiesto un incontro urgente, e al «vincitore» Alessandro Mazzucco, pronto a esortare la Regione a pagare altri due contratti per altrettanti specializzandi, da aggiungere ai quattro assegnati da Roma. Così da poter fare tre e tre, cifra minima per mantenere una Scuola di specializzazione. «Anche se la partita mi sembra ormai definita da un decreto ministeriale, ci può comunque essere lo spazio per un ragionamento — riflette il presidente del Veneto—e noi siamo pronti a fare la nostra parte per evitare una guerra tra poveri che non serve a nessuno. Padova, con Bologna, è una delle Università più antiche e prestigiose, ma anche Verona rappresenta un’eccellenza. Le battaglie fratride non servono ai cittadini-pazienti e rischiano di dare un’immagine di disfacimento. Faremo l’impossibile per finanziare altri due contratti—assicura Zaia —. Mi arrangio io, appuro subito se c’è la disponibilità finanziaria, senza perdere tempo in riunioni. Mi basta una telefonata, se abbiamo le risorse non c’è problema».

Una soluzione cercata anche per salvare il progetto Univeneto, al quale il governatore tiene molto: «E’ strategico, la Regione ci crede e lo sostiene. Ma perchè diventi realtà è necessario mantentere l’armonia tra le Università ». Appello colto al volo da Alessandro Mazzucco: «Nessuna guerra con Padova, che secondo me se la sta facendo da sola. Né Verona né il sottoscritto hanno nulla a che fare con la decisione presa dai ministeri. E lo dico serenamente, al di là della sorpresa e dell’amarezza per certi atteggiamenti aggressivi che non mi aspettavo. Hosempre considerato Zaccaria un amico, una sua telefonata sarebbe stata opportuna ». Quanto ad una possibile mediazione con i ministri Gelmini e Ferruccio Fazio per rivedere l’assegnazione, auspicata dai parlamentari padovani, il rettore di Verona commenta: «Sono disponibile a qualsiasi intervento che possa mettere Padova, sede prestigiosa, nelle condizioni di soddisfare le proprie attese. Ma non accetto che si dica a Verona che vale di meno». Aggiunge il preside di Medicina, Michele Tansella: «Sono un po’ sorpreso per tutto questo rumore. Certo la Facoltà di Padova è molto più antica e più grande,maesistono delle eccellenze in molte discipline anche nella nostra Università ». Zaccaria replica che lunedì, alle 10.30, riceverà il sindaco di Padova Flavio Zanonato, la presidente della Provincia Francesca Degani, il vicepresidente della Regione Marino Zorzato, i parlamentari e i consiglieri regionali della città del Santo per discutere il problema.

«Non ho mai voluto esprimere giudizi negativi su Verona, né sul rettore Mazzucco —chiarisce il magnifico —. Mi sono limitato ad evidenziare semplici dati di fatto: negli ultimi due anni accademici le tre Scuole di Specializzazione in Reumatologia, Cardiochirurgia e Dermatologia sono passate a Verona, senza che mai avvenisse il contrario, quindi si favorisce un solo Ateneo; nel 2010 e nel 2011 Mazzucco figura nella commissione ministeriale che ha dato parere in materia al ministero; negli ultimi cinque anni l’assessorato alla Sanità della Regione è in mano a veronesi; i finanziamenti regionali destinati a Verona hanno consentito importanti opere di ristrutturazione edilizia dell’ospedale ». Per contro, Palazzo Balbi non si decide a far decollare il progetto del nuovo ospedale di Padova. E a proposito di Azienda ospedaliera, confessa il direttore generale Adriano Cestrone: «Quando ho saputo dello spostamento della Scuola di Cardiochirurgia sono rimasto perplesso, è una scelta che non premia il merito. A Padova è stato eseguito il primo trapianto di cuore e la nostra scuola è un’eccellenza internazionale. I numeri dicono che sia meglio di quella di Verona, perciò la decisione ministeriale comporterà serie ricadute sull’assistenza. Se uno che vuole imparare a cucinare va a lezione da Vissani è facile diventi un bravo cuoco, se va da uno qualunque troverà molte più difficoltà ». Cestrone non risparmia stoccate a nessuno: «L’episodio è frutto della logica universitaria, che non premia quasi mai il migliore ma l’amico dell’amico. Funziona sempre così nelle commissioni accademiche. E’ la tragedia del nostro Paese. Siamo al mercato delle vacche. Bisogna uscire da queste logiche». Cerca di calmare gli animi l’onorevole Giustina Destro (Pdl): «Ho incontrato la Gelmini, che mi ha rassicurata: si è confrontata con Fazio, che incontrerà i rettori Zaccaria e Mazzucco per trovare un nuovo accordo sulle assegnazioni».
Michela Nicolussi Moro

Padova. Quindici casette al campo nomadi
In autunno nuova sistemazione per i 60 rom italiani di via Longhin
di Enrico Albertini
STANGA. Passeranno l'estate nell'«ex fattoria» di via Longhin, accanto al loro campo, (nella foto) i 60 rom italiani presenti nella zona est della città. Una sistemazione temporanea nell'ampio casolare (che qualche anno fa sembrava diventare la nuova moschea, ma che è già utilizzato in parte dai rom del campo): verrà fatta un'opera di sistemazione, visto che si tratta di uno stabile abbandonato e non adatto ad accogliere delle persone. Poi, entro l'autunno, saranno costruite le 15 case da 70 metri quadrati l'una che ospiteranno le famiglie rom, tutte italiane. Appartamenti spartani e non ancora completi: col primo stralcio (480 mila euro) si costruirà la parte giorno: bagno, angolo cottura, ripostiglio e soggiorno. Poi arriverà la parte notte: i lavori sono stati aggiudicati da Palazzo Moroni alla ditta Cpt Group di Rovigo, per 314.422 euro. «Useremo lo stesso schema di via Tassinari - spiega l'assessore alle Politiche sociali Fabio Verlato - alcuni rom faranno un corso di 60 ore, che partirà nei prossimi giorni, per partecipare poi come manovali ai lavori». L'«autocostruzione», con stipendio di 300 euro al mese: i soldi che mancano sono il contributo dei rom (in questo caso come forza lavoro) per la sistemazione del loro campo. Poi entreranno nelle abitazioni, pagando un piccolo affitto e le utenze: le case rimarranno di proprietà del Comune. I lavori di costruzione «non dovrebbero durare più di 3 mesi», come ricorda Verlato: a differenza di quanto successo per i sinti di via Tassinari, dove si realizzarono le case in un terreno vergine e tutto l'iter durò quasi un anno e mezzo, in via Longhin sono già presenti allacciamenti e sottoservizi. I 480 mila euro a disposizione del Comune hanno poi colori diversi: una parte viene dai resti di un finanziamento del 2007, dell'allora ministro della Solidarietà sociale, Paolo Ferrero (220 mila euro). Il resto, 260 mila euro, li ha messi il Ministero dell'Interno di Roberto Maroni. «E' un progetto molto diverso da quello di via Tassinari - spiega il vicepresidente dell'Opera Nomadi Marco Tombolani - sia per i manufatti che si realizzeranno sia per la tempistica ridotta, visto che si interviene sullo stesso campo dove i rom risiedono». Rimangono da recuperare i soldi per il secondo stralcio del progetto, pronto a dare la svolta definitiva alla zona: gli abitanti del campo sono rom di etnia harvati, residenti a Padova e italiani da oltre un secolo.

L'accoglienza costa 72 milioni
Marco Ludovico
ROMA
 Conti, costi e oneri dell'accoglienza. In queste ore tra ministero dell'Interno, Economia e Protezione civile si definisce la partita delle spese per assistere e ospitare i tunisini che otterranno il permesso di soggiorno temporaneo per motivi umanitari. Entro la fine della settimana si saprà quanti sono davvero, per ora la stima di riferimento è di 10mila unità. Ipotizzando che tutti vogliano rimanere in Italia, che l'assistenza riguardi tutto il periodo di durata del permesso - sei mesi - e che servano circa 40 euro al giorno per vitto, alloggio e assistenza sanitaria, si arriva a una somma complessiva di 72 milioni di euro. A questa cifra va aggiunta quella che riguarda i rifugiati e richiedenti asilo, ma il calcolo è più complicato. Perché il sistema in fase di realizzazione per l'emergenza straordinaria, dopo l'accoglienza e la prima sistemazione, dovrebbe poi passare coloro a cui spetta il diritto d'asilo al sistema ordinario oggi in funzione, che attraverso i comuni gestisce i rifugiati. Se si ipotizza un totale di 5mila immigrati di questo genere – 4.680 secondo le cifre date ieri alla Camera dal ministro dell'Interno, Roberto Maroni – si può dire che, con gli stessi parametri di costi dei tunisini regolarizzati, l'onere mensile è pari a 6 milioni. Se in teoria tutti rimanessero nel sistema d'emergenza per sei mesi, come i tunisini, si va oltre i 100 milioni di euro. È molto probabile comunque che la quota di 5mila aumenti di parecchio, visti gli arrivi ormai quotidiani di somali, eritrei ed etiopi.
 Il sistema dei costi andrà definito nell'ordinanza, attesa in queste ore, allo studio del prefetto Franco Gabrielli, capo della Protezione civile e neocommissario all'emergenza umanitaria. Ieri Gabrielli ha partecipato a una riunione con il sottosegretario al ministero dell'Interno, Alfredo Mantovano, per mettere a punto le procedure di accoglienza. L'attenzione è puntata soprattutto sui cittadini nordafricani, quasi tutti tunisini, che hanno diritto di fare richiesta del permesso di soggiorno temporaneo. Gli uomini del dipartimento di pubblica sicurezza impegnati sul territorio delle regioni dove ci sono tendopoli e altre strutture provvisorie di accoglienza stanno raccogliendo le istanze di permesso, poi le passeranno al vaglio per escludere motivi di rifiuto – precedenti penali, denunce e segnalazioni sul circuito nazionale e internazionale di polizia – e, alla fine, daranno il visto si stampi al tesserino elettronico di permesso di soggiorno. Gli agenti delle forze dell'ordine lo consegneranno insieme a un'indicazione sulla possibilità di alloggio. Il sistema dell'ospitalità è stato ieri discusso anche in una riunione alla Protezione civile con i dirigenti regionali e i rappresentanti degli enti locali. Le regioni, infatti, hanno già chiuso l'accordo con lo Stato in base al principio che, Abruzzo escluso, ci sarà ospitalità in tutto il territorio nazionale in proporzione a una percentuale che rappresenta la popolazione residente (si veda la tabella a fianco). Il piano – teorico – da 50mila profughi si trasforma ora in un piano concreto in cui i rifugiati saranno poche migliaia a cui vanno aggiunti gli immigrati con il permesso di soggiorno temporaneo per motivi umanitari. Va anche detto che la cifra dei 10mila nordafricani regolarizzati, alla fine, si abbasserà ancora, visto che tra tendopoli e altre strutture le presenze effettive sembra che ammontino a 8mila unità. Il resto è scappato, probabilmente oltreconfine. Di certo il piano di accoglienza umanitaria allo studio della Protezione civile esclude tendopoli ma ipotizza – si attendono le proposte operative delle regioni – edifici stabili. Maroni ieri ha sostenuto che i regolarizzati «saranno liberi di circolare liberamente nell'area Schengen: ciascuno Stato verificherà se sono rispettate le condizioni per poterlo fare; noi siamo certi che lo sono».
        
Trento. Profughi: stimati 225 arrivi in Trentino e 215 in Alto Adige
Il numero è calcolato su una stima di 25 mila arrivi complessivi e viene utilizzato come criterio il dato relativo alla popolazione residente
TRENTO. Saranno 225 in Trentino e 215 in Alto Adige, su una stima di 25 mila migranti da sistemare, i profughi smistati da Lampedusa in base al piano nazionale e ospitati nelle varie strutture di accoglienza _ ex caserme, edifici pubblici ma anche appartamenti a disposizione degli enti pubblici proprio per queste necessità _ delle due province.
Per stabilire la percentuale di profughi e migranti sbarcati a Lampedusa da distribuire in tutte le regioni italiane, ad eccezione dell'Abruzzo, verrà utilizzato come criterio il dato relativo alla popolazione residente, secondo quanto risulta dal censimento dell'Istat.

Trieste. Sbarchi: "Oltre 400 immigrati fra Trieste e il Friuli"
Spuntano le cifre della ripartizione fra le regioni italiane. La Seganti: "È solo il tetto massimo se ne arrivano 50mila"
di Gianpaolo Sarti
TRIESTE Ora sono 400 o forse oltre 500. Almeno per la stampa nazionale e per le stime calcolate sui censimenti dell’Istat che attribuiscono al Friuli Venezia Giulia una quota precisa di immigrati da accogliere nelle strutture del territorio. È “Repubblica” a rendere nota per prima la ripartizione regione per regione, così come previsto dall’accordo siglato nei vertici delle scorse settimane a Roma tra Stato ed enti locali. Un patto per la “condivisione dell’emergenza” che, stando all’analisi del quotidiano, il ministero dell’Interno dovrà riabilitare dopo lo stop di Bruxelles alle richieste italiane. Il governo, infatti, aveva proposto di rendere esecutiva la direttiva 55 del 2001 targata Unione Europea che consente agli immigrati di muoversi nei Paesi del continente. Roma aveva varato poi un provvedimento, subito criticato dall’Unione, per concedere permessi di soggiorno temporanei. La bocciatura alla norma Ue costringerebbe il Viminale a bussare di nuovo alle porte delle Regioni.

 Dopo giorni di voci e smentite ecco farsi largo, per il Friuli Venezia Giulia, quella che ora appare più di un’ipotesi. È il Palazzo stesso a confermare. Dice l’assessore Federica Seganti: «Questo è quanto avevamo negoziato fin da subito con il Viminale ed effettivamente sì, adesso potrebbe essere questa la situazione a cui dovremmo far fronte». L’assessore leghista, mette le mani avanti: «Attenzione, dobbiamo vedere come evolve l’emergenza, ci troveremmo a ospitare immigrati se il quadro peggiorerà». E precisa: «Noi accoglieremo 400 o 500 di questi nel caso si dovesse arrivare a quota 50 mila in Italia, ma per ora non siamo a livelli del genere».

 Seganti, quindi, ammette che «dobbiamo navigare a vista e seguire passo dopo passo gli sviluppi. In ogni caso – chiarisce – non ci sono richieste per mamme e bambini, nessuno ci ha chiesto disponibilità in questo senso, il problema è che ci troviamo davanti sono gli sbarchi dei tunisini». L’assessore però non molla l’indirizzo stabilito dalla giunta e su cui il Carroccio si era battuto fin da subito e ribadisce che «dovranno essere prima le altre Regioni a muoversi, noi abbiamo già 700 immigrati».

 19.360 le persone, tra clandestini e profughi, da ridistribuire in tutta Italia: 5 mila provengono dalla Libia. 14.360 invece sono giunti dalla Tunisia e otterranno il permesso temporaneo. Il piano del Viminale che “Repubblica” ha pubblicato elenca nel dettaglio il numero previsto per ogni singola regione; la tabella fissa in una proporzione di 1 migrante ogni 1000 abitanti la soglia massima di accoglienza. Alla Lombardia spetta la percentuale più elevata, il 16% del totale, vale a dire 3.240 persone. Alla Campania 1.920 e al Lazio 1.880. Il Friuli Venezia Giulia si troverebbe con una quota dell’1-2%, 400 appunto. O un centinaio in più, stando alle agenzie di ieri sera. In ogni caso la Regione è chiamata a fare concretamente la propria parte per la gestione dell’emergenza, quella che il ministro Roberto Maroni non aveva esitato a definire «uno tsunami umano». «Un esodo biblico» aveva detto invece il presidente del Veneto Luca Zaia, definendo «quello che sta accadendo» un fenomeno «mai visto».

 E per il Friuli Venezia Giulia, stando ai programmi di palazzo Chigi, non si parla più dunque di «qualche decina di richiedente asilo» e neppure di «mamme e bambini». Per il momento, perché la situazione in corso a Lampedusa è in continua evoluzione e potrebbe riservare altri cambiamenti di rotta nei prossimi giorni, alimentando anche le tensioni politiche all’interno della maggioranza di centrodestra.

Treviso. Gobbo: «Nessun profugo nella Marca»
La Lega si ribella, ma la Regione tira dritto: li metteremo anche a Treviso
di Alessandro Zago
«Non vogliamo profughi». La Lega trevigiana alza gli scudi alla notizia che i migranti libici destinati al Veneto potrebbero essere 2.135, quota ricavata in base alla popolazione residente. «Non mi risultano arrivi nella Marca», taglia corto il sindaco di Treviso Gobbo. «Io di certo non li voglio», rincara la dose il presidente Muraro. Ma la Regione li gela: anche la Marca avrà la sua dose di profughi, ma non ci saranno ammassamenti né in tendopoli né in ex caserme. Nuclei di 2-3 persone saranno accolti, dice Zaia, «in strutture religiose o legate all'associazionismo». «Io non voglio questa gente nella nostra provincia - tuona il presidente Leonardo Muraro, numero uno padano del Sant'Artemio - Maroni doveva essere più duro: Francia e Germania fanno quello che vogliono, noi invece...». Una strigliata che ricorda quella recentissima di Giancarlo Gentilini, ma anche il sindaco di Treviso e segretario regionale della Lega Gian Paolo Gobbo si ribella: «Intanto a Treviso non sono previsti arrivi di questo genere. E non ci saranno nemmeno negli altri Comuni trevigiani». Gobbo però rischia di essere cattivo profeta in patria: nella Marca, infatti, potrebbero arrivare almeno 300 profughi anche se solo oggi, a Roma, Zaia farà il punto con Maroni. Intanto però la tensione è alle stelle tra la Regione Veneto, la Provincia di Treviso e i Comuni trevigiani targati Carroccio. Gobbo & Co. non ne vogliono sapere di accollarsi parte dei profughi libici e tunisini provenienti da Lampedusa. Ma proprio ieri il governatore leghista del Veneto Luca Zaia ha parlato comunque della necessità di una «ospitalità diffusa», facendo marcia indietro rispetto ai proclami di una settimana fa a causa del pasticcio dei permessi temporanei, bocciati dall'Unione europea, e con le frontiere degli altri paesi di fatto chiuse. Un pasticcio che ha infilato il governo
Berlusconi in un tunnel. Almeno per il momento, quindi, non resta che spalmare i profughi in tutte  le regioni,
Abruzzo a parte. Unica «consolazione» per i leghisti, il fatto che non verranno allestite tendopoli e neppure occupate ex caserme come la Salsa. «D'intesa con le associazioni caritatevoli - dice infatti Zaia - stiamo pensando a una rete d'accoglienza non impattante, non prendendo in considerazione tendopoli o casermoni. E la Caritas si è mostrata disponibile a creare una rete di ospitalità diffusa. Ogni Comune accoglierà al massimo 2-3 persone: l'impatto sarà pari a zero». E infatti la Prefettura sta sondando le disponibilità dei singoli Comuni...

Venezia. Ok della Regione, arrivano i migranti
Le Caritas: da noi quattrocento.
Ok di Zaia al piano del governo: «Ma solo piccoli gruppi» Don Pistolato: «Nessuna distinzione tra profughi e tunisini»
VENEZIA — Finora parole, parole, parole. Polemiche e proclami, proposte e paure. Ma adesso il Veneto deve cominciare a fare sul serio, perché i migranti arriveranno davvero. E che siano solo profughi come esige la Lega, o anche clandestini come non distingue la Caritas (e a quanto pare nemmeno il Governo), si tratta comunque di africani a cui occorrerà dare vitto e alloggio probabilmente per tutto il 2011. Quanti? Già 400 quelli che le diocesi si Regione potrebbe essere chiamata ad accogliere. Alla fine toccherà infatti a Palazzo Balbi approntare il piano per la gestione dell’emergenza. Il programma messo a punto ieri a Roma dalla Protezione Civile, in una riunione fra i direttori regionali e i rappresentati di Upi e Anci, entro questa settimana arriverà sui tavoli dei governatori, ai quali spetterà la firma in calce ad un’ordinanza che dovrà indicare pure i costi preventivati. La cornice disegnata dal dipartimento esclude le tendopoli ed ammette soltanto strutture di accoglienza vere e proprie, pubbliche o private, quindi eventualmente anche alberghi convenzionati con gli enti pubblici.

Al momento la macchina organizzativa è stata tarata su una stima di 50.000 uomini, donne e bambini. Il calcolo per la spartizione degli extracomunitari sbarcati a Lampedusa, da distribuire in tutta la Penisola ad eccezione dell’Abruzzo, si baserà sul dato Istat relativo alla popolazione residente. Ciò significa che in Veneto dovrebbe arrivare l’8,54% del totale: quindi, se venisse confermata quella quantità di immigrati da smistare, bisognerebbe offrire un tetto a 4.270 persone (che proporzionalmente diventerebbero 2.135 se, per ipotesi, l’ammontare complessivo venisse dimezzato a 25.000). Di più farebbero solo la Lombardia (17,11%) e il Lazio (9,78%). Di meno la Toscana (6,44%), il cui presidente Enrico Rossi non a caso ha detto: «Noi rifaremo la nostra parte dopo che lo faranno anche Veneto, Lombardia, Piemonte e anche l’Emilia Romagna, che sugli immigrati fa un po’ il "nescì"». Cioè, tradotto per chi non sta a Firenze, lo gnorri. Anche se va detto che, a stretto giro, Bologna ha fatto sapere che l’Emilia Romagna è in grado di accogliere, nel giro di ventiquattr’ore, 1.500 migranti in due tornate. Ed il Veneto? In questa prima fase Luca Zaia stima «una iniziale disponibilità di 200-300 unità». A garantirgliela, di fatto, saranno le Caritas.

A margine dell’incontro degli Osservatori sulle povertà che si è tenuto ieri a Zelarino, i responsabili delle nove strutture diocesane coordinate da monsignor Giovanni Sandonà hanno infatti garantito accoglienza per 400 stranieri fino al prossimo 31 dicembre, secondo una ripartizione provinciale che da una prima ricognizione ne vedrebbe almeno 20 nel Veneziano, 40 nel Trevigiano, 30 nel Veronese, nel Padovano e nel Vicentino, 10 nel Bellunese e nel Rodigino. Numeri ovviamente da arrotondare per soddisfare la più alta richiesta delle prefetture. «Non sappiamo quando arriveranno gli immigrati, né se saranno libici o tunisini - ha commentato monsignor Dino Pistolato, direttore della Caritas di Venezia - ma abbiamo chiesto di avere il giusto preavviso per poter organizzare nel miglior modo possibile l’accoglienza, che sarà organizzata su piccoli gruppi. Gli alloggi ci sono, ma occorre avere il tempo utile a predisporre letti e pasti. Chiaramente stiamo supplendo alle carenze strutturali di altri, che hanno perso tempo a fare campagne elettorali o ideologiche, invece di risolvere i problemi ». Ha concordato monsignor Ferruccio Sant, numero uno della Caritas di Vittorio Veneto: «In provincia di Treviso abbiamo un grosso problema, con la Lega che ha espressamente detto ai sindaci di non collaborare. Ne prendiamo atto. Di certo noi non sappiamo se quelli che arriveranno saranno belli o brutti, buoni o cattivi. Li ospiteremo e basta». Alla Caritas è comunque andato il plauso di Zaia, che ha dovuto abbozzare: «D’intesa con le associazioni caritatevoli, stiamo pensando a una rete d’accoglienza non impattante, non prendendo in considerazione tendopoli o casermoni. Mandando un paio di persone per ogni Comune, l’impatto sarà pari a zero. Ma in questo quadro non rientra assolutamente il contingente di circa 24.000 tunisini che coi profughi non c’entrano nulla». Parole di un «euro- arrabbiato»: «Bisogna valutare seriamente la possibilità di uscire, da Stato fondatore, dall’Unione Europea».
Angela Pederiva

Bergamo. Sgomberato rifugio di 17 tunisini
Arrivati in provincia dopo la fuga dai centri di accoglienza
Fino all’8 aprile erano clandestini, dopo di allora, con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale del decreto per il rilascio del permesso temporaneo per motivi umanitari, molto è cambiato. Tanto che, se i cinque tunisini trovati a Mozzo lo scorso primo aprile sono stati denunciati e colpiti da espulsione, i 17 sorpresi ieri all’alba a Ponte San Pietro no. Certo, hanno cinque giorni di tempo da ieri per presentarsi in questura e richiedere, appunto, il permesso, che vale per sei mesi. In caso contrario, anche loro saranno denunciabili per la legge Bossi-Fini. Sempre se verranno trovati in giro. Fino a ieri sera non si è visto nessuno negli uffici di via Noli.
Già, perchè dopo il blitz di una ventina di carabinieri nella cascina disabitata di via Moroni a Ponte San Pietro, dopo i controlli, le verifiche con le impronte digitali, dopo un pasto in caserma in via delle Valli dove hanno potuto riposare per qualche ora, i tunisini se ne sono andati. Nessuna restrizione, non hanno precedenti, sono uomini liberi anche se senza senza documenti. Lo prevede la legge.
Un passo indietro. Da qualche giorno, soprattutto di sera e di primo mattino, vengono notate delle persone entrare e uscire dalla cascina in cui più volte i carabinieri e i volontari della protezione civile avevano cercato Yara. E’ a Ponte San Pietro, confine con Brembate Sopra. Il sospetto è che sia diventata il riparo di fortuna di immigrati. Le forze dell’ordine decidono di intevenire. Si organizzano e in venti si presentano nella cascina. Sono le sei del mattino. Lì, dove nel grande cortile ci sono rovi e bottiglie di plastica, alle finestre vetri spezzati e, all’interno, i segni del tempo e di uno spazio disabitato, trovano i 17 stranieri. Pessime le condizioni. Gente che vive allo sbando dal 29 marzo.
Non ci sono problemi, non c’è nessun fuggi fuggi. Sono tutti uomini, di età compresa tra i 19 ai 29 anni. Non hanno documenti se non una sorta di attestato con fotografia rilasciato loro nei centri di identificazione di Bari e di Manduria (Taranto). Lì hanno dichiarato le loro generalità, è con quelle che sono conosciuti in Italia. Sono tutti tunisini scappati dal loro paese a metà marzo, sbarcando in Italia, a Lampedusa. Sono finiti nei centri di identificazione, dai quali si sono allontanati il 29 marzo. Raccontano di aver preso il treno, di essere arrivati a Milano e poi a Bergamo. Non spiegano altro, non si sa se Ponte San Pietro fosse una tappa temporanea per andare altrove, anche fuori dall’Italia, per raggiungere famiglie o amici. I carabinieri ritengono che la Bergamasca non sia stata una scelta casuale ma che, al contrario, i nordafricani abbiano ricevuto indicazione da parte di un conoscente.
I diciassette vengono portati al comando provinciale. Lì i militari danno loro da mangiare e da bere, e la possibilità di dormire per qualche ora. Nel frattempo, inserendo le impronte digitali nella banca dati, verificano che i nomi dati corrispondano a quelli con cui gli immigrati sono stati registrati i giorni dopo lo sbarco. Sono corretti. A quel punto, secondo la legge, il compito dei carabinieri termina. Danno agli immigrati l’indicazione di presentarsi in questura e chiedere il permesso di rimanere in Italia. Sempre che siano arrivati prima del 1° gennaio scorso o dopo l’entrata in vigore del decreto. Vale solo per l’Italia.

Modena. Galli: "Profughi, a Modena si farà così"
I Comuni stanno completando il quadro delle disponibilità sulla base della ripartizione per distretti definita nei giorni scorsi. "Non è ancora chiara- spiega Galli- la scansione temporale con la quale dovremo dare operatività al Piano"
MODENA. E' in corso di definizione il Piano per l'accoglienza dei 230 profughi e immigrati del Nord Africa destinati al territorio modenese in questa prima fase dell'emergenza umanitaria. E i Comuni stanno completando il quadro delle disponibilità sulla base della ripartizione per distretti definita nei giorni scorsi. Lo conferma il vice presidente della Provincia di Modena, Mario Galli, al termine della terza riunione del tavolo regionale presieduta dal presidente della Regione Vasco Errani. "Non è ancora chiara- spiega Galli- la scansione temporale con la quale dovremo dare operatività al Piano, per sua natura flessibile, ma di certo in tempi molto brevi, d'accordo con la Prefettura, dovremo essere in grado di accogliere i primi profughi".
L'ipotesi sviluppata dalla Regione è quella di un primo nucleo di 80 persone da accogliere in provincia di Modena nel giro di pochissimi giorni, 500 in tutta la regione. Il Piano di accoglienza prevede il coinvolgimento anche dell'Azienda sanitaria, mentre sarà l'Agenzia regionale di Protezione civile a verificare e valutare le strutture e i costi indicati, sia quelli per l'approntamento (allacciamenti elettrici ed eventuali manutenzioni) sia quelli per la gestione (spese giornaliere, utenze, eventuali affitti, ripristini).

 "E' confermato che agli enti locali non dovrà essere richiesto nessun anticipo nè copertura economica- ribadisce Galli- visto che i costi dell'operazione umanitaria sono a carico del Governo nazionale. Tutti gli enti locali del territorio modenese stanno facendo la propria parte con senso di responsabilità e solidarietà". Anche per lo smistamento sul territorio dei profughi è prevista la collaborazione della Protezione civile, che garantisce pure il supporto tecnico logistico ai Comuni. Un incontro dei Comuni capidistretto per la definizione del Piano di accoglienza da sottoporre alla Regione è in programma nella mattinata di venerdì nella sede della Provincia e con la partecipazione anche di Azienda Usl e Prefettura.

Ferrara. Profughi, nessun Comune escluso
Ieri riunione in Provincia, cominciato l'allestimento in via Marconi
di Alessandra Mura
Non uno di meno. Non ci saranno Comuni 'esenti' dall'accoglienza profughi. La riunione con i sindaci ieri in Provincia - nell'imminenza dell'arrivo della nave al porto di Ravenna attesa nelle prossime ore - è servita a concordare il piano territoriale e garantire il contributo della totalità dei Comuni, Comacchio e Bondeno inclusi. L'accordo è ospitare un profugo ogni 1000 abitanti.  «Tutti i Comuni hanno dato la loro piena disponibilità al programma di accoglienza - spiegava ieri soddisfatta al termine della riunione la presidente della Provincia Marcella Zappaterra - Resta ora da definire la mappa dell'ospitalità. In queste ore i sindaci saranno impegnati a verificare le opportunità offerte dai loro territori, contattando parrocchie, associazioni di volontariato e strutture private, ed entro mercoledì saremo in grado di fornire un quadro completo».  Di certo c'è l'arrivo ormai vicinissimo di 60-65 profughi provenienti dall'Africa, tutti già muniti di permesso di soggiorno valido per sei mesi. Il loro primo approdo sarà il Centro di Protezione Civile di via Marconi, già oggetto di un sopralluogo ieri mattina da parte del sindaco Tagliani e degli assessori comunali Modonesi e Sapigni. L'allestimento del centro di accoglienza temporaneo è già in atto da parte della Protezione Civile. Nell'area esterna, dietro i capannoni, sono già stati predisposti moduli abitativi e servizi igienici, destinati a ospitare tutti i profughi per i primi due-tre giorni, il tempo di svolgere i necessari accertamenti e controlli medici. Poi i profughi verranno smistati nei vari centri individuati nel frattempo dai sindaci di tutta la provincia, a cominciare dalle strutture più pronte ad accoglierli. A Ferrara è prevista la presenza di 20-25 profughi, che a loro volta troveranno ospitalità nei luoghi definiti con il contributo di parrocchie, privati e terzo settore. Al momento non è dato sapere nè il Paese di provenienza degli immigrati nè la loro composizione. Sono attesi per lo più uomini adulti, ma non è esclusa la presenza di donne e bambini. I minori non accompagnati saranno immediatamente presi in carico dalla rete dei servizi socio-sanitari.  In via Marconi la Protezione Civile si occuperà degli aspetti logistici (oltre all'all'allestimento del centro di prima accoglienza, anche il servizio di trasporto), ma al centro ci sarà anche personale sanitario e delle forze dell'ordine. «La situazione è perfettamente sotto controllo», rassicurava ieri al termine della riunione l'assessore comunale Aldo Modonesi. Oggi a Bologna sarà fatto il punto sulla cabina di regia regionale, un'occasione per meglio definire i dettagli della fase 1 dell'accoglienza, a cominciare dalle risorse garantite a copertura delle spese sostenurte dai privati, un punto su cui anche i sindaci hanno espresso perplessità. In tutto l'emergenza profughi conterà 4 tappe distribuite in 4 mesi, con una punta massima di 300 profughi prevista in totale nel Ferrarese.

Bologna. In arrivo 800 immigrati
Rispuntano i Prati di Caprara
La macchina dell’accoglienza si è messa in moto, 120 arrivi previsti entro 72 ore. E quelli ‘fai da te’ sono altrettanti
Bologna, 13 aprile 2011 - Centoventi immigrati in provincia entro 48-72 ore. Poi una seconda ondata da 225, una terza da 165 e una quarta e ultima da 340, per un totale di oltre ottocento stranieri ospitati nel Bolognese. Ecco i conti (nuovi di zecca) della protezione Civile sugli sbarchi da Lampedusa alle Due Torri: la proiezione prevede di arrivare, alla fine, a oltre 3.700 profughi (ma sarebbe più giusto definirli migranti) in Emilia-Romagna. Per questo, spiega il sottosegretario alla presidenza della Regione, Alfredo Bertelli, «è stato deciso di utilizzare un capitolo del bilancio della Protezione civile, pari a un milione di euro disponibile per un mese», per anticipare le spese finché non arriveranno i fondi promessi dal Governo.

E' chiaro che su Bologna si partirà con le strutture più piccole (via del Miliario dei Poveri Vergognosi; Villa Pallavicini della Caritas; l’Opera Marella a San Donato; Villa Aldini sul Colle dell’Osservanza), ma ieri è emersa nuovamente la volontà di allestire ai Prati di Caprara una maxi struttura di accoglienza. «No ai ghetti», ha detto la presidente della Provincia Beatrice Draghetti. Ma con il commissario Anna Maria Cancellieri che conferma l’interesse sull’area dell’Esercito («E’ l’unica di grandi dimensioni sul territorio provinciale»), emerge che la caserma vicina all’ospedale Maggiore potrebbe accogliere anche fino a 500 ospiti.

Su Prati di Caprara, insomma, la Regione non lascia, anzi raddoppia. Questo il calcolo (tenuto abbastanza coperto) della Protezione Civile, che ieri ha anche fatto sopralluoghi in altre strutture della provincia, comprese ex scuole (tra San Ruffillo e Pianoro), al complesso Galilei (in condizioni pessime, quindi subito scartato) e nuovamente a Villa Salus, dove però non verranno inviati stranieri. Va da sé che, se non ci dovessero essere maxi flussi, Prati di Caprara tornerebbe di nuovo nel freezer.
 Complessivamente, in provincia, saranno interessate quindici strutture ecclesiastiche e sette centri dello Sprar (il sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati), che in città fa capo all’Asp Poveri Vergognosi.

Oltre ottocento immigrati arriveranno, centoventi nel giro di poche ore. Ma altrettanti (80 lunedì e 40 ieri) sono già sbarcati in città. Alcuni erano fuggiti da Manduria, altri rilasciati dai Cie. Molti sono giunti in treno a Bologna e chiedono che la loro posizione venga regolarizzata: «Ci siamo raccordati con la Questura, cui inviamo gli stranieri dopo aver fissato appositi appuntamenti — spiega Anna Rosa Rossi della Cgil —. Arrivano molti nordafricani, quasi tutti tunisini: su 120, soltanto una era donna. Sono tutti giovani, giovanissimi e sognano di raggiungere la Francia non vogliono fermarsi in Italia».
 Sono i profughi del fai da te, gli immigrati sfuggiti come anguille alla rete dell’accoglienza regionale: «Ma siamo pronti ad aiutarli — dice il presidente della Regione, Vasco Errani —. Quelli che arriveranno, o sono già arrivati fuori dagli scaglioni previsti, potranno accedere al sistema di assistenza regionale dei profughi ex articolo 20 del testo unico sull’immigrazione cioè con i permessi temporanei di sei mesi, più sei». Probabilmente per avere informazioni potrebbero rivolgersi agli uffici Urp dei Comuni o ai sindacati. Un po’, in sintesi, com’è accaduto sabato con i 19 rilasciati dal Cie o come sta avvenendo in queste ore alla Cgil.

Dalle varie tranche di accoglienza sono esclusi i minori non accompagnati, che seguono una ‘corsia preferenziale’. Il primo gruppo di 30 ragazzi, tutti somali, è arrivato ieri sera all’aeroporto Marconi. «Soltanto dieci, però, sono rimasti tra le strutture della città e della provincia», precisa l’assessore regionale Teresa Marzocchi.
di VALERIO BARONCINI

Bologna. Profughi, prese le impronte ai minorenni
«Ma non siamo delinquenti»
La polizia: «È la prassi». Sbarcati 28 somali e 2 ivoriani tra i 16 e i 17 anni. Attesi 320 adulti. Dopo l’arrivo di trenta minori non accompagnati, atterrati lunedì sera al Marconi, tutto è pronto per l’accoglienza degli adulti. Ieri la cabina di regia in Regione, con tutte le Province, i Comuni capoluogo e quelli con più di 50 mila abitanti e la Protezione civile, è servita a fare il punto. «Siamo pronti, anche se non sappiamo quando arriveranno», annuncia il governatore Vasco Errani, «riteniamo di poter gestire l’emergenza umanitaria all’insegna dell’impegno, della solidarietà e della sicurezza».

Sono arrivati con un volo charter da Catania i 30 minori e sono stati scortati dalla polizia di Agrigento dopo essere stati fotosegnalati e identificati. Ci sono volute due ore prima che i profughi, ventotto somali e due ivoriani, fossero smistati nelle case di accoglienza della Regione. Prima hanno dovuto sbrigare le pratiche previste dalla legge sull’immigrazione. Per avere la certezza delle generalità fornite in Sicilia a tutti sono state prese le impronte digitali. «Ma siamo considerati dei delinquenti?», hanno chiesto, spaventati, alla mediatrice culturale che accompagnava la delegazione della Regione, come confida l’assessore alle politiche sociali Teresa Marzocchi.

In realtà è solo la prassi, come ha fatto sapere la polizia di frontiera. Dopo un lungo pellegrinaggio via terra, dalla Libia i ragazzi hanno preso il mare per raggiungere Lampedusa. «Rientrano tutti nella piena condizione di tutela», assicura l’assessore. La metà dei 10 «bolognesi», che hanno tutti tra i 16 e i 17 anni, sono ora sotto la tutela del gruppo Ceis, centro di solidarietà, mentre gli altri cinque sono stati distribuiti ad altre quattro cooperative sociali, Dolce, Csapsa, La Rupe e Metoikos, il tutto con il supporto dell’Asp Irides. «Abbiamo ospitato un ragazzo somalo nella nostra sede del Villaggio del Fanciullo, in via Scipione dal Ferro — dichiara padre Giovanni Mengoli, responsabile del Ceis — e due ragazzi della Costa d’Avorio hanno già ricevuto accoglienza a Bazzano, dove c’è un’altra nostra sede. Un altro ragazzo è a San Martino di Ancognano e un altro al Ponte, Centro di pronta accoglienza». La scorsa settimana Mengoli ha già accolto al Ponte due ragazzi tunisini minorenni scappati da Lampedusa, «ci stiamo occupando della loro situazione difficile, uno di loro non ha più i genitori e in Tunisia viveva per strada».

Non si ferma intanto la processione dei migranti all’ufficio stranieri della Cgil, divenuto una sorta di percorso d’accoglienza parallelo. Sono quasi tutti tunisini e hanno raggiunto Bologna in treno. Anche ieri, su indicazione del sindacato, altri ottanta si sono rivolti all’ufficio immigrazione della questura per chiedere il permesso di soggiorno umanitario previsto dal decreto del Governo. Il lasciapassare di sei mesi dovrebbe arrivare entro una settimana dalla richiesta. E poi? «Quasi tutti vogliono andare in Francia, anche se il rischio è che siano respinti a Ventimiglia. Sono pochissimi quelli che pensano di rimanere qui», dice Anna Rosa Rossi della Cgil. Anche questi stranieri con permesso di soggiorno temporaneo saranno assistiti nelle strutture del piano messo a punto dalla Regione, che in attesa dei fondi nazionali, pagherà i servizi con un capitolo del bilancio della Protezione civile, pari a un milione di euro per un mese circa di lavoro. A giorni arrivano ii migranti adulti che saranno complessivamente 320 nella provincia di Bologna. Oggi nuovo incontro del coordinamento tecnico in Provincia.
Marina Amaduzzi
Gianluca Rotondi

Genova, bomba al centro profughi
13 aprile 2011
Genova - Un’esplosione e le fiamme hanno squarciato la notte di Genova, in uno degli edifici individuati dal Comune per l’accoglienza degli immigrati in arrivo da Lampedusa, una vecchia scuola nel cuore di Sampierdarena, quartiere del ponente cittadino ad alta densità di immigrazione. A provocarlo una bomba artigianale, trovata al piano terra del palazzo.

Nel capoluogo ligure, questo l’epilogo di una giornata contrassegnata da un consiglio Comunale “caldo” sul tema dell’accoglienza dei migranti in città, dove si è quasi sfiorata la rissa, con l’opposizione (di centrodestra) che ha chiesto a più riprese la creazione di un Cie dove isolare i nordafricani, e con i presidenti dei tre Municipi interessati dal piano che si sono detti nettamente contrari, presi in contropiede da «decisioni calate dall’alto».

Intanto il sindaco, Marta Vincenzi, ha parlato di un gesto «brutto e preoccupante», che «non è degno di Genova», che deve «spingere ancora di più all’accoglienza e alla solidarietà: mi auguro che quanto avvenuto faccia riflettere la città, perché una paura del genere non è degna dei genovesi rispetto alla necessità di accogliere, pur con tutte le attenzioni del caso, poche centinaia di immigrati. Nel 2002, con la guerra del Kosovo e gli albanesi in fuga, l’Italia ha affrontato una situazione ben più drammatica di quella attuale. Non bisogna alimentare la paura e, di fronte a tentativi di fare crescere la tensione, la città deve rispondere con calma e fermezza».

I primi accertamenti condotti dai carabinieri parlano di un ordigno artigianale costruito utilizzando una bombola di gas da campeggio piena e un grosso petardo legato con del nastro adesivo come innesco; l’ordigno ha provocato una forte esplosione avvertita dai residenti della zona. Non sono stati trovati volantini di rivendicazione e i resti dell’ordigno sono stati sequestrati dai carabinieri della Scientifica.
Ieri il presidente del Municipio Centro-Ovest, Franco Marenco, aveva spiegato come l’ex scuola non fosse idonea «perché in un contesto difficile ad alto tasso di immigrazione con tensioni sociali, prostituzione, centri scommesse e locali notturni».

Le previsioni del Comune erano di ristrutturare l’edificio in trenta giorni, con un costo di circa 100.000 euro, per ospitare 95 profughi.

Firenze. Profughi, certezze addio
I permessi sono bloccati
Gli immigrati tunisini aspettano i permessi con ansia, ma momento la situazione è bloccata ovunque. Si attendono le decisioni che dovrebbero arrivare da Roma, ma non si sa quando
Gli immigrati tunisini aspettano i permessi con ansia, ma momento la situazione è bloccata ovunque. Si attendono le decisioni che dovrebbero arrivare da Roma, ma non si sa quando. Le questure sono in attesa della definizione tecnica della procedura aperta. Solo dopo che arriveranno le direttive dal ministero degli Interni si potrà dare il via al rilascio dei permessi di soggiorno temporanei. Le richieste all’ufficio stranieri sono state fatte tutte nei giorni immediatamente successivi all’arrivo in Toscana dei tunisini e adesso la palla passa al ministero. Nessuno si sbilancia sui tempi della concessione del permesso, né se varrà solo in Italia o alla fine l’Unione Europea cambierà idea ed i migranti potranno raggiungere altri Paesi (almeno per il ricongiungimento familiare) e in attesa di capire quanto durerà la fase di incertezza, il governatore Rossi fa il punto della situazione.

«Cosa succede? Siamo coscienti che passando i giorni nasce il problema di cosa fanno e di cosa fargli fare, ma per adesso i nostri tunisini sono tranquilli. Se ne sono allontanati una decina, non di più» . Poi ha aggiunto, sull’eventualità che arrivino nuovi profughi. «Noi rifaremo la nostra parte dopo che lo faranno anche Veneto, Lombardia, Piemonte e anche l’Emilia Romagna, che sugli immigrati fa un pò lo gnorri. Fino ad adesso sono arrivate persone definite "profughi economici", i prossimi dovrebbero essere profughi richiedenti asilo politico e quindi potranno stare più tempo ma non potranno lasciate l’Italia se otterranno l’asilo. Gli accoglieremo — spiega Rossi — implementando il "modello toscano", accentuando cioè la diffusione sul territorio, con un’accoglienza fatta anche in appartamenti, piccoli centri, per piccole comunità, favorendo così i processi di integrazione» . «Vedo— aggiunge il presidente della Regione — che il modello toscano viene adottato anche dal Veneto: bene, anche perché noi non abbiamo nessun copyright. Ormai è evidente a tutti l’incapacità di questo governo gestire l’immigrazione: si fanno brutte figure una dietro l’altra e non si riesce a trovare la soluzione a una cosa che in realtà sarebbe meno grave di come viene dipinta: si tratta di 22 mila persone su 60 milioni di italiani e novemila Comuni. Comincio a pensare che esiste un fattore "L", un fattore Lega che impedisce di gestire serenamente queste vicende. Se ci si scaglia contro l’Europa e poi si dice di voler uscire si fa un pasticcio inenarrabile, ed è logico che l’Europa risponda no. E prima di chiedere all’Europa sarebbe il caso di chiedere alla Lombardia» . Rossi infine affronta il tema-immigrazione. «La società è cambiata, senza immigrati non avremmo nascite e abbiamo bisogno di loro per lavorare. L’immigrazione è un problema, come è accaduto a Prato, ma va governata. Non si può ragionare per slogan» .
Mauro Bonciani

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