domenica 3 aprile 2011

La prova contro il padano Tremonti.

L'Iri o la Gepi non fermano lo straniero
L'affaire Parmalat-Lactalis ha già prodotto il decreto-legge per rinviare le assemblee delle società quotate: un trucchetto veramente originale che la Commissione europea dovrebbe subito qualificare come una misura equivalente alla restrizione del libero flusso dei capitali e chiederne l'immediata cancellazione.


Molta attenzione merita invece lo strumento scelto dal Governo per dotarsi di uno strumento che anche per il futuro gli consenta di fermare lo straniero, vale a dire la nuova veste assegnata alla Cassa depositi e prestiti.
Oggi la Cdp ha un compito abbastanza ben definito: finanzia opere infrastrutturali o d'interesse pubblico, finanziandosi attraverso la raccolta del risparmio postale e l'emissione di obbligazioni. Può intervenire con finanziamenti «ad operazioni a sostegno dell'economia» e mantiene partecipazioni in grandi utility come Terna (29,9%) ed Eni (27,7%), in questi ultimi due casi essendosi semplicemente sostituita al ministero del Tesoro, suo azionista al 70%, mentre il rimanente 30% è in mano alle fondazioni bancarie. Partecipa inoltre al Fondo Ppp (partenariato pubblico-privato) e al Fondo Abitare Sociale.
Il ruolo della Cdp può essere visto come positivo o superfluo a seconda della propria visione dell'economia di mercato, ma in ogni caso finora la Cassa si è comportata come una "forza tranquilla", con investimenti non a grappolo e rimanendo nell'alveo delle sue attribuzioni.
Nel suo scatto di patriottismo antifrancese, però, il Governo ha imitato il modello d'Oltralpe del Fonds strategique d'investiments, creato nel 2008 dall'oggi vituperato Sarkozy allo scopo di acquisire partecipazioni di minoranza in industrie "strategiche".
Con il decreto omnibus del 31 marzo la Cdp può ora «assumere partecipazioni in società di rilevante interesse nazionale in termini di strategicità del settore di operatività, di livelli occupazionali, di entità di fatturato ovvero di ricadute per il sistema economico-produttivo del Paese». Ai fini d'individuare meglio le imprese interessate, con decreto del ministro dell'Economia verranno definiti i requisiti, anche quantitativi, delle società oggetto di possibile acquisizione (anche attraverso veicoli societari o fondi d'investimento) da parte di Cdp.
Siamo di fronte a una nuova Iri? O, peggio, a una Gepi (la società pubblica amichevolmente conosciuta come il "lazzaretto" che acquistava le aziende decotte senza poi risanarle) rediviva? Vediamo i rischi della nuova missione.
In primis la vaghezza: la norma lascia ampi spazi interpretativi e la loro definizione sono in mano a una scelta puramente discrezionale dell'Economia che avrà la possibilità di cambiarli a piacimento, magari ogni volta che uno straniero (o un italiano) sgradito voglia comprarsi una società. Prendere partecipazioni di minoranza non vuol dire niente: come si è visto, il 29,9% consente di controllare le società quotate e comunque il decreto parla di «partecipazioni» in generale e perciò magari maggioritarie.
Inoltre, quale investitore sano di mente si metterebbe a combattere una battaglia a suon di offerte e controfferte contro lo Stato italiano, trovandoselo poi di fronte come regolatore e agente del fisco? Inoltre, se la Cdp volesse ingaggiare battaglie a singolar tenzone contro un investitore-kamikaze, se questo fosse straniero avrebbe maggiori difficoltà a trovare denaro a prestito rispetto alla Cassa, assistita dalla garanzia statale. Un investitore italiano, poi, sarebbe snobbato dal sistema bancario per ragioni ovvie.
Il tutto contribuirà ad alimentare la sfiducia nel sistema-Italia, dove solo il 4,1% delle imprese è governata da stranieri (nelle altre nazioni, Francia inclusa, si va oltre il 10%) e gli investimenti diretti dall'estero sono ai minimi termini salvo che nei settori super-sovvenzionati (come le energie alternative).
L'Economia ha una via facile per ottenere un seppur parziale perdono: inserisca dei limiti quantitativi molto alti e definisca come strategici solo alcuni settori come la difesa, in modo che un comma qualunque di un decreto omnibus non diventi l'Arma Finale dello Stato contro l'economia di mercato.

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