martedì 31 maggio 2011

Federali Mattino-1 giugno 2011. Ringrazio Gheddafi che mi ha fatto uscire dal Paese quando avevo vent’anni — dichiara Claudio Sarcona — tornando in Italia, a casa nostra, ci è stata data la possibilità di ricominciare. Tripoli era e rimane casa mia. I profughi che arrivano a Lampedusa? Ci accomuna il dolore ma per noi era diverso: avevamo ancora dei parenti in Italia, loro no, devono ricominciare da zero, e per questo hanno bisogno di noi.----Caserta. Dice Mamadou: Chiediamo al sindaco l’istituzione di un assessorato sull’immigrazione. La Moschea, infine. In un percorso di integrazione e di rispetto delle altre culture, non può permanere l’assenza di un luogo dove praticare la religione musulmana.----Napoli. Le annoiate prostitute e i clienti affaccendati lì vicino neanche si accorgono che esiste, o forse pensano si tratti di uno dei tanti sbocchi di fogna della zona. Il Sebeto cantato dai poeti, ricordato nei monumenti, sembra appena venire alla luce solo per gridare il suo dolore e rintanarsi di nuovo – meglio così – nelle profondità di Partenope.

Attacca ti, che te vegnio drio:
Svizzera. Da qualche parte bisogna pur cominciare
I Veneti di Libia: «Siamo profughi anche noi, accogliete chi fugge»
Belluno. Profughi, via al piano ospitalità

O’ Scamorzon’ della Terra di Lavoro:
Gli immigrati: «A Caserta una Moschea»

Sebeto, che non ti ho visto e letto:
Mitico Sebeto, un rigagnolo tra i rifiuti


Svizzera. Da qualche parte bisogna pur cominciare
di Erminio Ferrari - 05/31/2011
Berlusconi ha perso dove il suo potere è nato, e dove il suo solo nome valeva oro. La Lega Nord sua gregaria per scelta e un po’ per necessità ne ha subito le conseguenze. Mai sconfitta elettorale fu più esplicita nel suo significato. Non tanto perché sia specularmente chiaro il valore del variegatissimo fronte vittorioso, ma perché Berlusconi e la Lega avevano di fatto monopolizzato l’immagine che l’Italia dava di sé e nella quale ha amato specchiarsi, vanagloriosa, sprezzante, intollerante e gretta.
Il voto era amministrativo, certo, ma l’investimento che vi ha fatto Berlusconi stesso non lascia dubbi sul suo significato politico. Di più: proprio per la natura degli istinti e delle ambizioni che quest’uomo ha saputo vellicare, dapprima nei suoi clienti e poi nei suoi elettori (sovrapponendone infine le identità), il voto che lo sconfessa incide in profondità nel rapporto tra leader e adepti.
Questo ci sembra essere il rischio maggiore per Berlusconi. Una maggioranza parlamentare si può comperare, il successo elettorale va costruito sul consenso.
È un rischio che Bossi corre in misura molto minore: vuoi perché la gabbia ideologica del suo movimento è più rigida, vuoi perché il capo lombardo è un tattico di grande levatura. Giustamente gli occhi sono rivolti a lui. La sua scelta tra l’impiccarsi a Berlusconi, o sparigliare il gioco arroccandosi al Nord (consapevole che senza Berlusconi il governo se lo sogna), oppure ancora mutando in corsa alleanza parlamentare, è la sola in grado di determinare le sorti della legislatura. Ciò che non saranno in grado di fare le rituali richieste di dimissioni di Berlusconi, avanzate già ieri dall’opposizione.
Ecco, l’opposizione, per un giorno vincitrice: i nomi di Pisapia, De Magistris; ma anche di Fassino, Zedda e degli altri vincitori in città importanti, mostrano bene la sua eterogeneità, e l’onere che ricade ora sul Partito Democratico, quale maggiore formazione alternativa alla destra, di garantire tenuta e credibilità spendibili sul piano nazionale. Contro queste ultime giocano una formidabile capacità di suicidarsi con l’alloro in testa (Prodi ne sa qualcosa) e l’effettiva vaghezza di prospettiva (banalizzando: con Casini o con Vendola; o con tutti e due come ai bei tempi Mastella-Bertinotti?).
A favore potrebbe venire ricordata l’età del “partito dei sindaci”, quando la politica, quella della sinistra in particolare, parve recuperare immagine e autorevolezza grazie alle positive esperienze di amministrazione delle grandi città.
Ieri allora è stata una bella giornata. Ma la Liberazione evocata in tanti discorsi è un’esagerazione. Il fatto è che dal berlusconismo non si esce con Berlusconi ancora in carica e con il suo gigantesco conflitto di interessi irrisolto, né se ne uscirà con un eventuale cambio di maggioranza parlamentare.
Come la mentalità e i modi fascisti allignarono a lungo nella nuova Repubblica democratica, il berlusconismo resterà a lungo nelle vene, nelle aspirazioni, nelle ipocrisie di un’Italia mutata a fondo rispetto a una sola generazione fa. Ma da qualche parte bisognava pur cominciare, no?
Pensavo da tempo che la cosa sarebbe cambiata quando il desiderio di dissoluzione dell’opposizione fosse superato dal desiderio di dissoluzione della maggioranza. Per questo mi pare che ci siamo.

I Veneti di Libia: «Siamo profughi anche noi, accogliete chi fugge»
Ex coloni, la considerano una seconda patria. Riunite a Montecchio le famiglie che hanno vissuto nel regno di Gheddafi e sono state cacciate. Amano e soffrono ancora per il Nordafrica
VICENZA — «Anche se l’occasione è festosa, un incontro tra amici, è inevitabile parlare di quello che sta accadendo in Libia, la nostra terra, la terra dove siamo nati e dove abbiamo ancora amici. Nessuno di noi gioisce per tanto sangue e violenza ». Tra cous cous preparato da cuochi arabi, balli e costumi caratteristici, al «Secondo incontro regionale veneto dei rimpatriati della Libia» che si è tenuto sabato, c’è stato spazio anche per la riflessione e la solidarietà. Un incontro programmato da oltre sei mesi, che ha raccolto a Montecchio Maggiore più di 260 persone arrivate da tutta Italia, la maggior parte dal Triveneto. Le loro storie si assomigliano tutte: erano ragazzini quando, nel 1970, sono stati costretti a lasciare la Libia per rientrare in Italia con i genitori, che negli anni precedenti erano emigrati a cercare fortuna.
Oggi hanno una media di sessant’anni e cucita addosso la «qualifica di profughi, quella che ci rimarrà per tutta la vita». «Ringrazio Gheddafi che mi ha fatto uscire dal Paese quando avevo vent’anni — dichiara Claudio Sarcona — tornando in Italia, a casa nostra, ci è stata data la possibilità di ricominciare. Anche mamma e papà, che hanno sofferto molto per il distacco da Tripoli, hanno avuto l’occasione di reinserirsi nel mondo del lavoro. Certo, Tripoli era e rimane casa mia. C’è un pezzo di me, della mia famiglia: ci sono ancora i fabbricati costruiti da mio padre e da mio fratello, li ho visti di persona due anni fa. I profughi che arrivano a Lampedusa? Ci accomuna il dolore ma per noi era diverso: avevamo ancora dei parenti in Italia, loro no, devono ricominciare da zero, e per questo hanno bisogno di noi». Sarcona è uno degli organizzatori dell’incontro, insieme a Ivone Sandini, Gianfranco Martellozzo e Daniele Cason, tutti padovani. Coordinatore del gruppo un vicentino, Luciano Genovese. Anche lui come altri non nasconde il desiderio di far visita al Paese della sua infanzia. «Si era aperta la possibilità di tornare, dovevo partire a breve ma dati gli scontri sono stato costretto a rimandare il viaggio—racconta il 59enne —. Comprendo il dramma che vive ora la Libia. Ce lo aspettavamo che prima o poi scoppiassero le rivolte: a reagire sono soprattutto giovani, che hanno conosciuto realtà diverse dalla loro e che non ci stanno più alle restrizioni imposte dal regime di Gheddafi e alla povertà diffusa, nonostante il petrolio».

Vivi i ricordi anche per il consigliere delegato alla Mobilità del Comune di Vicenza, Claudio Cicero, pure lui all’appuntamento dei rimpatriati della Libia. Si lascia andare alla commozione quando racconta del suo viaggio nel 2010, quando è tornato nel quartiere dove il padre gestiva un negozio di alimentari. Ha riabbracciato l’uomo che il genitore aveva sfamato per anni e, con vecchie foto alla mano, ha riconosciuto la compagna di scuola. «Ora è il nostro turno, dobbiamo tendere la mano—dice — non solo accogliendo i profughi, dando loro una formazione e un lavoro, ma anche con la solidarietà. Sto organizzando una raccolta di vestiti e cibo da inviare via mare, da Malta a Misurata». Ad assicurarsi che la merce raggiunga il Paese e venga distribuita ai più bisognosi un amico libico di 77 anni, presente alla festa di sabato, che rivela: «Già la scorsa settimana abbiamo inviato 150 capi di biancheria intima per donne e bimbi. Ho una moglie, due figli e sette nipoti a Tripoli, ma non posso rientrare. Quando, a febbraio, sono scoppiati gli scontri mi trovavo alla fiera Bit di Milano, ora faccio la spola tra l’Italia e un altro Paese europeo, dove ho un’altra figlia. Ora lì non ci sono soldi, benzina, cibo. Mia moglie da settimane non assume più la medicina per il diabete. I miei nipoti non hanno latte. Si trova da mangiare solo al mercato nero, ma i prezzi sono quintuplicati. Prima di partire ho lasciato del denaro alla mia famiglia, ma non sarà sufficiente per farla sopravvivere perché c’è carenza di tutto. Al momento l’unico modo per comunicare è il telefono. Ma anche da qui posso fare molto, possiamo fare molto ». Benedetta Centin

Belluno. Profughi, via al piano ospitalità
Diciasette Comuni dicono «sì»
E il sindaco di Calalzo scrive al prefetto:«Disposti a riceverne due»
BELLUNO — Qualche certezza in più anche per i «precari dell’accoglienza», gli 83 profughi sbarcati tre settimane fa nel Bellunese per questioni umanitarie. Una volta operativo il piano di ospitalità diffusa illustrato ieri pomeriggio in prefettura ai sindaci interessati (e disponibili) e alla Caritas, almeno per qualche settimana sapranno dove stare. Il fatto è che il «sì» delle strutture di prima accoglienza era a termine; e poi, il principio matematico della proporzione al numero degli abitanti (parametro emerso in Regione) era stato violato. «In pratica—afferma il sindaco di Santo Stefano di Cadore Alessandra Buzzo — per ora i migranti sono stati concentrati per lo più a Pieve di Cadore (una sessantina tra l’albergo «Giardino» e la colonia «Mari») e alla villa Gregoriana di Auronzo (18), dopo un primo ricovero nella nostra palestra. Ora si passa ad un piano più strutturato, con effetti più duraturi, almeno fino al 20 di giugno». Anche perché il Giardino e la Villa Gregoriana hanno fatto sapere che il tempo è scaduto; così, i 18 di Auronzo finiranno, insieme a due di Pieve, in un edificio collegato ad una casa per anziani a Taibon Agordino.

Per gli altri si è mossa la comunità montana del Comelico (10 posti disponibili; d’accordo i Comuni di Danta, Comelico Superiore, San Nicolò, Santo Stefano di Cadore e Sappada; contrario, però, quello di San Pietro); e hanno detto sì anche i Comuni di Auronzo, Alleghe, Belluno, Fonzaso, Forno di Zoldo, Mel, Pieve di Cadore, Ponte nelle Alpi, Puos d’Alpago, San Gregorio, Sedico e Trichiana. E poi c’è la Caritas, che ha già ospitato migranti a Feltre. «In pratica—ha concesso il viceprefetto aggiunto Nicola De Stefano — per una sessantina di loro la sistemazione è garantita, ma entro il 16 giugno bisogna trovare il posto anche per gli altri 24». Per quella data vi sarà un altro incontro in prefettura. «Peraltro — continua De Stefano —tutti i profughi hanno presentato domanda di asilo politico per il riconoscimento della tutela internazionale». A tutti (provengono per lo più da Libia, Nigeria, Bangladesh, Sudan, Burkina Faso, Camerun e Eritrea) è stato concesso il permesso di soggiorno temporaneo. Predisposti, anche, controlli sanitari dalle Usl 1 e 2; ma non sarebbe emerso nulla di rilevante. «Quando ho aperto ai profughi le porte della nostra palestra—afferma la Buzzo — qualcuno in paese ha storto il naso. Polemiche dovute alla scarsa informazione. Ora p e r ò , questi ragazzi migranti sono stati invitati nelle scuole a raccontare la loro storia, e l’atteggiamento di molti è cambiato ». Non ha aderito all’invito del prefetto Maria Laura Simonetti il primo cittadino di Calalzo Luca De Carlo; che però con una lettera firmata dai rappresentanti di maggioranza e minoranza in consiglio comunale ha fatto sapere: «Siamo comunque disposti ad ospitare due migranti, quota doppia rispetto alla popolazione di soli mille abitanti».
Marco de’ Francesco

Gli immigrati: «A Caserta una Moschea»
Gli ambulanti a Palazzo di città: un assessorato per noi
Del Gaudio: mercatini anche in via Paolo Borsellino

CASERTA - Due zone per ospitare i mercatini degli extracomunitari nel territorio cittadino, lungo via Borsellino (nelle piazzole dove a Natale si vendono i fuochi artificiali) e a ridosso delle piazze Cattaneo e Pitesti, l’ipotesi lanciata dal sindaco Pio del Gaudio. In queste due piazze, da piazza Gramsci e via Battisti, le controproposte avanzate dai rappresentanti dei commercianti ambulanti extracomunitari. E poi, l’istituzione di un assessorato specifico e il ruolo di consigliere comunale aggiunto a un immigrato che rappresenti la comunità, anche per costruzione di una Moschea. E il tavolo delle trattative si fa impegnativo. Partiamo dal commercio ambulante, il problema ha le sue complicanze, su un percorso per arrivare a una soluzione ci si è avviati ed è questo il primo aspetto confortante della questione. Ieri il sindaco Pio Del Gaudio ha ricevuto la delegazione della comunità di «vu’ cumprà».

IL CONFRONTO - Uno scambio di idee, l’abbozzo delle intenzioni che il sindaco sottoporrà alla giunta e al consiglio quando i due organismi saranno formati e insediati, la consegna di un documento da Mamadou Sy, presidente della comunità senegalese, più articolato. Prossimo appuntamento venerdì 3 giugno, interlocutore degli extracomunitari sarà il capo di gabinetto Emilio Di Maio. Questo fino a quando l’intera amministrazione civica non sarà operante. «E’ mia volontà - dice il sindaco Del Gaudio - risolvere il problema della presenza irregolare di venditori ambulanti. E’ necessario trovare un’area adeguata, che possa ospitare un mercatino multietnico, in modo da riservare ai senegalesi e a quanti ne faranno richiesta, una location per vendere prodotti delle loro terre. Tutto questo, ovviamente, sarà possibile solo se condiviso in pieno dalle associazioni di categoria». All’incontro hanno partecipato con la delegazione senegalese, il presidente dell’Amci - associazione multietnica internazionale, Miliak Diaw, il rappresentante della Caritas Diocesana, Pasquale Campana, e Imma D’Amico del centro sociale Ex Canapificio.

L'ASSOCIAZIONE MULTIETNICA - «Una soluzione si impone - ha detto Mamadou Sy - i venditori ambulanti devono lavorare per mantenere onestamente le proprie famiglie, non possono vivere con l’eterno pericolo di essere cacciati da vigili e poliziotti. Noi desideriamo di essere regolamentati, di pagare le tasse, di essere trattati come operatori perfettamente legalizzati». Commenta Imma D’Amico: «Questo commercio non è solo di tipo etnico, è sotto gli occhi di tutti che si tratta di smercio di articoli prodotti da aziende italiane, campane soprattutto. Gli extracomunitari, pertanto, sono per queste aziende una risorsa. E, invece, finiscono con l’essere spesso penalizzati». Mamadou Sy, che la questione conosce bene, dice: «A Caserta è in vigore un regolamento per gli ambulanti adottato quando non ce n’erano tanti. Una sola strada è indicata per questo commercio, via Roma, che è oggi di grande traffico automobilistico. Ed è impensabile».

MERCATO MULTIETNICO E ASSESSORATO - Quali, quindi, le richieste nel dettaglio. Il presidente Sy: «L’assegnazione di 150 posti con relativo pagamento delle tasse per il mercato multietnico di piazza Pitesti; la crezione di un percorso di bazar che parta dalla Reggia fino ai porticati di via Battisti; l’utilizzo di espositori mobili in legno, con il logo del Comune in modo da essere sempre riconoscibili». Non è finita. Dice ancora Mamadou: «Chiediamo al sindaco l’istituzione di un assessorato sull’immigrazione, riflesso di un impegno concreto che questa amministrazione intende assumersi quella di un immigrato quale consigliere comunale aggiunto che vada a rappresentare le nostre istanze in prima persona». La Moschea, infine. «In un percorso di integrazione e di rispetto delle altre culture, non può permanere l’assenza di un luogo dove praticare la religione musulmana».
Franco Tontoli

Mitico Sebeto, un rigagnolo tra i rifiuti
Nella zona orientale di Napoli ciò che resta del corso d'acqua visitato da Petrarca e cantato dagli antichi
NAPOLI - Nella zona orientale di Napoli, all’ombra di un cavalcavia, sopravvive un timido rigagnolo che stenta a farsi strada tra i rifiuti. Sarà lungo non più di una ventina di metri ed è forse è l’ultimo frammento visibile del Sebeto, il mitico fiume che un tempo aveva ispirato poeti e viaggiatori.
Oggi la sua storia sembra quasi un’opera di fantasia, eppure per secoli ha attraversato baldanzoso la città tuffandosi nelle acque del golfo. Almeno fino a quando i dissesti idrogeologici e le numerose trasformazioni urbane non lo hanno prima ridimensionato e poi letteralmente sepolto sotto infinite colate di cemento e di indifferenza.

Dalle sorgenti della Bolla, alle falde del Vesuvio, nasceva il Sebeto. Il suo percorso si articolava dapprima tra alcuni comuni della provincia per poi costeggiare la collina di Poggioreale, arricchendosi delle acque piovane che defluivano dalle vicine alture. Da placido fiumiciattolo si trasformava allora in un irruente corso d’acqua (da cui il nome Sepetios, «andar con impeto») che poco prima di sfociare nel golfo si divideva in due rami, incontrando il mare in un punto imprecisato tra le attuali piazza Borsa e piazza Municipio e in una zona più a est, verso il Ponte della Maddalena. Le più antiche testimonianze storiche sembrano identificare il Sebeto solo nel ramo che sfociava in mare sotto la collina di Pizzofalcone, presso l’originario insediamento greco, però già sparito in epoche remote dalla geografia cittadina. Successivamente, il nome potrebbe essere stato «trasferito» – quasi per un insopprimibile necessità di mantenerlo in vita – al corso d’acqua che sfociava nell’area orientale. A quel tempo la gente si affacciava sulle sue rive, probabilmente lo navigava.

Quando più tardi la città divenne un importante snodo commerciale, sempre più affollato e affamato di spazio, a farne le spese fu soprattutto il fiume. Nel 1340, affascinato dai lirici racconti fatti in epoca romana da Virgilio, Tito Livio e Strabone, Petrarca si recò sulle sponde del fiume quasi come in pellegrinaggio. Ma ci rimase piuttosto male. «Minuit presentia famam» (la vista deluse la fama), fu il suo laconico commento. Un letto d’acqua bassa si snodava tra i palazzi. Spariva, poi riappariva. Già ridimensionato da numerose deviazioni e derivazioni, era pure per lunghi tratti interrato. Alcuni studiosi ritengono che il fenomeno dell’inabissamento sia stato favorito da periodiche scosse telluriche. Ciò nonostante, le sue acque continuarono timidamente a scorrere, visibili a tratti, per diversi secoli.

Nel 1635, quando a Cosimo Fanzago fu commissionata la costruzione della Fontana del Sebeto (oggi a largo Sermoneta, a Mergellina), doveva già essere più leggenda che realtà. Anche se in alcune foto di fine ottocento ancora si possono scorgere dei contadini che trasportano merci e animali affondando fino alle ginocchia nella melma del presunto Sebeto. A quel punto pare solo un’area da bonificare. Poi nel XX secolo il rapido sviluppo dei quartieri Poggioreale e Ponticelli cancellò le tracce residue del mitico corso d’acqua. Prima di arrivare al Ponte della Maddalena, il Sebeto (o il suo gemello moderno) scendeva a valle attraversando l’area occupata attualmente dall’ex Macello Comunale, una struttura chiusa da qualche decennio e immersa nel più triste degrado. Ma girando dovunque lo sguardo, in ogni anfratto, in ogni angolo di terra libero dai rottami, si vede cresce con forza una flora tipica delle zone paludose: estrema testimonianza del paesaggio originario che costeggiava il vecchio fiume.

Proseguendo idealmente lungo la sua sponda, ci inoltriamo tra le macerie di un’abortita area industriale: scheletri di fabbriche abbandonate, muri crollati o sul punto di crollare. Questo è il regno dei cani randagi e dei parcheggi, dei cassonetti bruciati tra i cespugli d’erbacce e una residua vegetazione fluviale. Le rovine ci accompagnano fino a via Sponsilli, all’incrocio con l’estremità più orientale e dimenticata di Via Ferraris, dove finalmente raggiungiamo l’ultimo lembo del Sebeto direttamente osservabile dalla strada. E’ un tratto di pochi metri d’acqua nera e fetida, su cui galleggiano bottiglie, barattoli di vernice, sedie. Una piccola conca di fango che sembra ribollire sotto il ponte della Tangenziale. Le annoiate prostitute e i clienti affaccendati lì vicino neanche si accorgono che esiste, o forse pensano si tratti di uno dei tanti sbocchi di fogna della zona. Il fiume cantato dai poeti, ricordato nei monumenti, sembra appena venire alla luce solo per gridare il suo dolore e rintanarsi di nuovo – meglio così – nelle profondità di Partenope.
Marco Molino

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