giovedì 5 maggio 2011

Non era l’Italia la patria del contadino pugliese

di MICHELE COZZI – La Gazzetta del Mezzogiorno
I 150 anni dell’Unità d’Italia rappresentano l’occasione per fare il punto sul «buco nero» per eccellenza: l’irrisolta «questione meridionale». Gli opposti estremismi culturali e politici - dal rinascente partito neoborbonico ai sostenitori del «sacco del nord», per non parlare di quelli in «camicia verde» - occupano le casematte più per giustificare una guerra di posizione sulla «pelle dello Stato», che per far chiarezza su un periodo storico determinante per la formazione dell’identità del Paese.


Un contributo di stampo diverso è proposto dalla casa editrice Palomar che pubblica un saggio di Antonio Lucarelli, Risorgimento, brigantaggio e questione meridionale, a cura di Vito Antonio Leuzzi e Giulio Esposito (pp. 156, euro 14). Lucarelli è un meridionalista della prima ora, che in tutta la sua esistenza ha intessuto rapporti di collaborazione con Gaetano Salvemini e altri «pensatori a cavallo» dell’Ottocento e del Novecento. Il suo epitaffio ne compendia pienamente la personalità: «Storico di Acquaviva della Puglia e del Mezzogiorno. Accademico della pontaniana. Premiato dall’Accademia d’Italia. Propugnatore della questione meridionale. Ognora saldo nella fede socialista. Non mutò bandiera. Modesto nella vita modesto nella morte».
Un meridionalista non dogmatico, conoscitore delle dinamiche economiche e culturali del Mezzogiorno, che anteponeva nell’analisi alle suggestioni ideologiche. Così negli anni Venti ebbe il coraggio di condannare le occupazioni delle terre in Puglia - su imitazione dei soviet - giudicandole inapplicabili al Mezzogiorno per la diffusione della piccola e media proprietà agricola.

Nel 1922 scrisse uno studio sulle rivolte contadine contro il nuovo Stato, che Croce giudicò «uno dei migliori scritti sulla storia del brigantaggio». Mentre nel dopoguerra intensa fu la sua attività pubblicistica e sulla «Gazzetta del Mezzogiorno» scrisse sui temi della riforma agraria e sul Risorgimento del Mezzogiorno. Il volume Risorgimento, brigantaggio e questione meridionale presenta alcuni saggi di Antonio Lucarelli, a partire dai drammatici avvenimenti accaduti in Puglia tra il 1860 e 1865. E raffigura la psicologia del contadino pugliese di quel tempo («una sola patria egli sente e ama, e questa non è l’Italia»); egli è «antiitaliano, antiliberale, borbonico; e no già tale per intima convinzione, ma per mera antinomia verso il ceto benestante che lo affama».

Tutti gli episodi di rivolta, fomentati dall’agonia borbonica, dal nord al sud della Puglia, sono interpretati come mera «violenza plebea», «furore antisociale anarchico», al di fuori di ogni progettualità sociale. Che sarebbe stato illusorio pretendere. Nel territorio di Puglia si alimenta l’avversione allo Stato unitario e tra le plebi rurali si diffonde il grido: «Abbasso la Costituzione! Abbasso Garibaldi e Vittorio Emanuele! Viva Francesco II».
Nasce così quella che Lucarelli definisce la «controrivoluzione pugliese».

L’analisi va in profondità per spiegare le ragioni del brigantaggio che Lucarelli colloca nella questione meridionale, interpretata essenzialmente come «questione sociale ». Le speranze che lo Stato unitario aveva suscitato si dissolvono in un batter d’ali: «S’illudevan i fratelli del Nord che avevano sognata la conquista di una terra miracolosa (...) s’illudevano i proprietari del Sud (...) s’illu - devano taluni ceti operai che scorgevano in Garibaldi l’eroico e fatato figlio del popolo, il redentore di tutti gli oppressi».

Il Sud già allora era povero, non era l’Eldorado, ma una terra derelitta, sconvolta da crisi agricole di carestia o di sovrapproduzione, senza commercio, acqua, scuole, abitata «da una minoranza di gretti terrieri» e da «una moltitudine di contadini famelici e analfabeti, corrivi alla sedizione sanguinosa e fulminea». È la raffigurazione delle «due Italie». Il resto, per alimentare lo spirito anti-unitario e gonfiare le truppe del brigantaggio, lo fecero i balzelli, le tasse, l’arroganza dei piemontesi che considerarono il Sud una colonia, il loro disprezzo verso i borbonici.
Per il meridionalista di Acquaviva, il brigantaggio «non è altro se non la reazione «borbonico-proletaria» o «politico-sociale» che, sopraffatta nei centri urbani dalla prevalenza delle armi nazionali, si trasferisce nei boschi, e qui ricorre per necessità di vita e di difesa a nuovi espedienti di lotta».

Fu una «guerra civile» in piena regola: 120mila soldati, 1.000 fucilati, 2.500 morti sul campo di battaglia, 2.800 condannati alla galera. Nacque nel sangue l’Unità del Paese. E la sorte del Sud fu subito segnata.
05 Maggio 2011


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