lunedì 13 giugno 2011

L’economia cresce a ritmi cinesi: un turco su due è con lui.


La paradossale vittoria di Erdogan in Turchia
di Stefano Torelli
L'Akp, il partito del premier, vince ma non stravince le elezioni. Le riforme costituzionali andranno negoziate con le altre forze politiche. Il sostegno al primo ministro è comunque vasto. Intanto l'economia cresce a ritmi quasi cinesi.


Il giorno dopo le elezioni la Turchia si ritrova con un Akp (Adalet ve kalkinma partisi, Partito di giustizia e sviluppo) più forte in termini di voti percentuali rispetto alle ultime elezioni del 2007. Il partito del premier Erdogan ha ottenuto circa 21 milioni di voti, quasi il 50% del totale, rispetto ai 16 milioni della precedente tornata. Come ha detto lui stesso al termine dello scrutinio, di fatto un turco su due è con lui. Ciò nonostante, paradossalmente la presenza dell’Akp all’interno della Grande assemblea nazionale è scesa da 341 a 325 seggi.

Non è colpa del partito del primo ministro, ma merito di quelli di opposizione, in particolar modo quel Chp (Cumhuriyet halk partisi, Partito repubblicano del popolo) fondato da Ataturk, che negli ultimi anni aveva continuato a deludere e che ieri ha toccato quota 26%, il risultato più alto dal 1995 ad oggi, ottenendo 135 seggi. Anche i nazionalisti dell’Mhp (Milliyetci hareket partisi, Partito del Movimento Nazionalista) hanno superato l’altissima soglia di sbarramento del 10% e sono entrati in parlamento ottenendo 54 seggi, comunque meno del 2007. Il risultato elettorale del Chp ha quindi rovinato in parte i sogni di Erdogan e disegna nuovi scenari all’interno della vita politica del paese.

Il primo ministro aveva due aspettative da queste elezioni, una sicuramente ambiziosa, l’altra ragionevolmente possibile. La prima era quella di ottenere almeno 367 seggi, vale a dire i due terzi del totale: in questo modo avrebbe potuto cambiare la carta costituzionale senza l’appoggio di nessun altro. Il suo scopo era probabilmente quello di andare avanti con le riforme interne, dopo il referendum costituzionale dello scorso settembre, e modificare l’assetto istituzionale della Turchia, introducendo un modello simile a quello francese, che desse più poteri al presidente della Repubblica - carica alla quale si sarebbe fatto eleggere. Per far ciò avrebbe avuto bisogno, se non dei due terzi dei seggi in parlamento, almeno dei tre quinti, per poter proporre delle modifiche costituzionali e poi sottoporle a referendum popolare, proprio come aveva fatto nel 2010.

Qui subentrava il secondo obiettivo di Erdogan: 330 seggi. Considerando che partiva da più di 340 e che per tutto lo spoglio elettorale l’Akp è sembrato superare tale soglia, l’obiettivo sembrava in parte raggiunto. L’avanzata del Chp ha però tolto terreno al partito di maggioranza e lo ha tenuto al di sotto di tale soglia. Alla luce di tali avvenimenti, bisogna fare alcune considerazioni.

Nonostante si possa parlare a ragione, visti gli obiettivi iniziali, di “vittoria mutilata” e non di trionfo assoluto di Erdogan, è chiaro che la popolazione ha fiducia in lui. L’Akp viene premiato per essere stato in grado di aver portato stabilità e prosperità, grazie a una tenuta politica invidiabile e senza precedenti nella storia recente della Turchia. Gli ultimi governi non di coalizione ma di maggioranza risalgono alla Guerra fredda, e la crescita economica fa arrossire anche gli attori più dinamici della scena internazionale: nel periodo post-crisi la crescita del pil turco è stato seconda soltanto a quella della Cina. Le riforme politiche, economiche e sociali intraprese in questi anni e la sua nuova posizione nello scacchiere regionale hanno dato più prestigio ad Ankara e fatto sì che questa divenisse un attore di primo piano.

La stessa riforma costituzionale del 2010, approvata col 60% dei voti, ha dimostrato che i consensi per alcuni cambiamenti impressi da Erdogan al sistema politico abbracciano anche parte dell’elettorato di altri partiti. Il premier ha però dimostrato un’attitudine a portare avanti le decisioni e le riforme attraverso un processo poco conciliatorio con gli altri attori politici, motivo per cui l’obiettivo (fallito) di queste elezioni era quello di ottenere i seggi necessari per cambiare la carta costituzionale senza appoggi esterni.

Le altre forze, soprattutto il Chp, sono l’elemento di novità di queste elezioni turche. Schiacciati su posizioni oltranziste nei confronti dell’Akp del precedente leader Deniz Baykal, i kemalisti hanno sempre basato la propria opposizione a Erdogan sul rifiuto di qualsiasi dialogo sulle maggiori questioni politiche del paese, fattore che ha incentivato il premier a portare avanti le riforme a colpi di maggioranza. Con il nuovo leader Kemal Kiricdaloglu il Chp sembra avere un nuovo slancio e potrebbe aprirsi un’era di opposizione più pragmatica e concreta, in grado di giovare al processo democratico di tutto il paese.

Troppe volte infatti in questi anni di governo dell’Akp la dialettica politica interna è stata ostacolata da un sostanziale muro eretto dalle opposizioni. Se da parte dell’Mhp, data la sua natura profondamente nazionalista, tale atteggiamento sembra essere in qualche modo più giustificato, il Chp non può permettersi di assumere un ruolo così intransigente, se vuole presentarsi come reale alternativa all’attuale partito di maggioranza.

Sullo sfondo rimangono i problemi irrisolti di un paese che, nonostante abbia fatto passi da gigante sul cammino delle riforme (e in questo va dato sicuramente atto al governo Erdogan di essere stato incisivo), presenta ancora contraddizioni da superare. La questione curda continua a rappresentare un problema da risolvere; i dissidi con la Repubblica di Cipro sono un ostacolo insormontabile sul cammino di Ankara verso l’Unione Europea (sembra sempre meno probabile che la Turchia possa un giorno entrare nell’Ue); le limitazioni alla libertà di stampa e la censura su internet sono della macchie sulla credibilità democratica del paese.

In questa cornice si inserisce la crisi in Siria, che coinvolge la Turchia in maniera diretta. Sono ormai più di 5mila i profughi siriani che si sono rifugiati oltre il confine mentre l’azione repressiva del regime di Assad continua. Per la prima volta dall’inizio delle rivolte Erdogan ha pubblicamente condannato la repressione di Damasco, proprio il giorno prima delle elezioni; la politica mediorientale della Turchia potrebbe essere messa in crisi dagli avvenimenti della cosiddetta “primavera araba”.

Da oggi, seppure ancora saldamente al potere, l’Akp sa che deve agire di concerto con le altre forze politiche, per non perdere consenso e dimostrare la propria buona fede nel processo democratico interno. Il rischio, altrimenti, è quello di un partito populista più che popolare, che con il tempo potrebbe portare il paese a disabituarsi al dialogo politico interno. Il nuovo Chp vuole scongiurare questo esito, Erdogan dovrà essere in grado di fare lo stesso.

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