domenica 13 novembre 2011

Federali.mattino_13.11.11. La spocchia riflette l’uomo privo di qualita’.----Le Monde: Ma come sarà l'Italia senza Berlusconi conclude l'articolo? «resta un'impronta culturale. Questa sarà senza dubbio dura da cancellare. 17 anni di berlusconismo hanno profondamente modificato gli italiani e ingigantito i loro difetti...un giorno forse sapremo se Berlusconi ha fatto gli italiani a sua immagine e somiglianza o se non sia vero il contrario».----Trieste, oltrepadania: La Regione congela la quota da devolvere al federalismo fiscale. Un gruzzolo non da poco: 370 milioni di euro che già un anno fa Trieste spedì a Roma.----Olanda, Marike Stelling: L’immagine dell’Italia che emerge da questi rapporti è quella di un’economia antiquata. Ci sono troppe regole che proteggono le attuali grandi aziende e ostacolano i nuovi ingressi. La pressione fiscale è troppo alta. Le regole sui licenziamenti troppo rigide. Ciò rende difficile per i giovani trovare posti di lavoro. La popolazione ha un livello di istruzione basso. I salari sono troppo alti in relazione alla produttività dei lavoratori. Troppe aziende sono di proprietà del governo. A causa di tutti questi fattori, l’economia italiana non può competere con gli altri Paesi europei. La quota italiana nel commercio mondiale ha registrato un costante calo a partire dagli anni Novanta.

Oltrepadania. La Regione FVG blocca i 370 milioni di euro da versare a Roma
Draghi detta la linea a Monti
Repubblica: case di lusso e Maserati così l’esercito ci costa 50mila euro al minuto
Le Monde: «Berlusconi: il bilancio del governo presidente uscente è misero»
L’antiquata economia italiana si può salvare con riforme
Questo è tutto, gente



Oltrepadania. La Regione FVG blocca i 370 milioni di euro da versare a Roma
La giunta decide di congelare la quota da devolvere a Roma per il federalismo fiscale: «Non possiamo pagare solo noi»
TRIESTE La Regione “congela” la quota da devolvere al federalismo fiscale. Un gruzzolo non da poco: 370 milioni di euro che già un anno fa Trieste spedì a Roma. La decisione di riverificare le condizioni di un uguale contributo allo Stato anche sul bilancio 2012 è della giunta regionale su proposta dell’assessore competente, Sandra Savino. Ci sono ancora troppe partite aperte per chiudere un occhio un’altra volta. E allora sull’asse Tondo-Savino la Regione sceglie la strada di non regalare nulla a Roma, fino a che tutte le altre Regioni, in larga parte latitanti, si allineeranno. Nella capitale siamo al cambio della guardia. Prevalga la linea tecnica del governo Monti o si ritorni in fretta e furia alle urne, Giulio Tremonti non ci sarà più. E chissà che fine farà la madre delle riforme leghiste, il federalismo fiscale ancora lontano dal decollo. Con queste premesse, la giunta Tondo cambia direzione. A sorpresa, certo, ma dopo molte sollecitazioni.
 È stata l’opposizione, a più riprese, a denunciare la partita persa dei 370 milioni in cambio di una non meglio definita autonomia fiscale. Ma anche all’interno della maggioranza, soprattutto in tempi di caccia al prestito per la terza corsia, crisi a parte, si sono sollevate più voci sulla necessità di riaprire la trattativa su quel capitolo. L’ultima, quella di Daniele Galasso. Il capogruppo del Pdl, non più tardi di sabato scorso, aveva denunciato i maxi-tagli romani sulle leggi di settore, citando in particolare i 35 milioni venuti a mancare sugli investimenti per le opere di difesa idraulica e i 12 milioni in meno sul Fondo statale dell’autonomia possibile. Con sintesi molto concreta, Galasso chiedeva: «Perché dobbiamo continuare a versare allo Stato 370 milioni per il federalismo fiscale?». Ed ecco che, l’altra sera a Paluzza, Savino infila nel testo della manovra approvata dai colleghi la norma che mette in congelatore la posta da 370 milioni. E lo fa, spiega la giunta, «in attesa che anche le altre Regioni a Statuto speciale e quelle ordinarie siano chiamate a un analogo impegno». Insomma, noi abbiamo già dato, il resto si vedrà. «Viste tutte le norme, le firme, gli accordi – spiega l’assessore alle Finanze –, assieme al presidente abbiamo sviluppato questa iniziativa. Ci pare che sin qui i patti siano stati rispettati solo da alcune Regioni, attendiamo le altre». Il riferimento è all’accordo sottoscritto il 29 ottobre 2010 a Roma tra il presidente Tondo e il ministro Tremonti, poi recepito in legge, con il quale la Regione, a fronte del riconoscimento delle compartecipazioni sulle pensioni Inps riscosse sul territorio del Friuli Venezia Giulia, si impegnava a versare 370 milioni di euro all’anno come contributo di solidarietà nel quadro del federalismo fiscale. Ma da allora, sottolinea la Regione, è cambiato lo scenario. L’attuazione dell’articolo 119 della Costituzione sul federalismo sta segnando il passo.
 E solo le Province autonome di Trento e Bolzano e la Valle d’Aosta, assieme al Friuli Venezia Giulia, hanno finora sottoscritto intese per il contributo di solidarietà. In attesa di certezze sull’entrata in vigore della riforma, la giunta “congela” dunque quella cifra (si tratta concretamente di 200 milioni, il saldo tra i 370 milioni di contributo e la quota di arretrati sulle pensioni Inps prevista nel 2012 (170 milioni) che lo Stato si è impegnato a versare alla Regione sempre nell’accordo dell’ottobre del 2010. È una ribellione che segue la decisione, nella stessa seduta di giunta di due giorni fa, di resistere ai rilievi costituzionali del governo sulla manovra estiva 2011. Tutto questo mentre si controlla che non ci siano altre sorprese.
 Il contenimento della spesa, altra certezza di Savino, sarà di 77 milioni di euro, non un centesimo di più. Almeno sul 2012. Il maxiemendamento di questi giorni, assicura l’assessore, «non è destinato a comportare riflessi sul quadro complessivo del bilancio di previsione in quanto, in fase di predisposizione, abbiamo effettuato stime adeguate sul concreto impatto delle manovre e abbiamo soprattutto dovuto tener conto dell’effetto cumulativo dei tagli già precedentemente imposti con il decreto legge 78/2010».

Draghi detta la linea a Monti
E' durato circa un'ora l'incontro tra il neo-presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, e il neo-senatore a vita, Mario Monti, indiziato numero uno per la guida del governo tecnico caldeggiato da Giorgio Napolitano e che dovrebbe essere istituito dopo la formalizzazione delle dimissioni di Silvio Berlusconi. Il faccia a faccia tra i due, a Palazzo Giustiniani, può essere inquadrato come una sorta di versione 'orale' della lettera che l'Eurotower ci spedì lo scorso agosto per imporci l'agenda di governo con cui quietare la crisi economica e le pesanti ripercussioni che ha avuto su Piazza Affari, le Borse europee e i nostri titoli di Stato. Mario Draghi, ex presidente di Bankitalia, forte del suo nuovo ruolo continentale detta la linea del governo di Mario Monti.

Repubblica: case di lusso e Maserati così l’esercito ci costa 50mila euro al minuto
Più ufficiali che soldati, ecco gli sprechi della Difesa. Roma, 12 nov - (di Enrico Bellavia ed Emanuele Lauria) Ogni minuto che passa lo Stato brucia 50 mila euro in spese militari. Tre milioni l’ora, settantatré al giorno. L’orologio della Difesa non conosce soste, ignora gli allarmi della crisi, scandisce i tempi di un flusso finanziario continuo. Quello necessario a garantire un esercito di professionisti, gli armamenti, le missioni all’estero. E ad assicurare un ventaglio sempre più ampio di funzioni più o meno tradizionali: dalla vigilanza sulle discariche alle iniziative promozionali come feste e parate. Sono le cifre di un apparato di sicurezza interno ed internazionale di cui il governo può menar vanto, ma sono anche i numeri di un gigantesco business che alimenta sprechi e sperperi. Tagliato il traguardo dei due lustri della leva volontaria, il nuovo modello di Difesa varato nel 2000 mostra tutte le sue crepe. Additate, allo stesso modo, da pacifisti e osservatori militari accreditati. Il totale delle spese per le forze armate e l’industria bellica, nel 2010, si è attestato sui 27 miliardi di euro. In questo comparto, per intenderci, lo Stato garantisce finanziamenti quattro volte superiori a quelli del fondo ordinario delle università. O, messa in un altro modo, appronta risorse più di tre volte superiori ai tagli deliberati per scuola e servizi. Come si arriva a questa cifra che fa a pugni con i propositi rigoristi dell’esecutivo?

LA RAGNATELA DELLA SPESA
Ventisette miliardi è la somma indicata dal rapporto annuale del Sipri, un istituto internazionale indipendente che ha sede a Stoccolma. È un conto economico in crescita rispetto all’anno precedente, che tiene conto di una pluralità di voci che fanno lievitare il totale a una quota quasi doppia rispetto a quella, ufficiale, che compare nel bilancio della Difesa: il ministero guidato da Ignazio La Russa ha infatti una dotazione di 14,5 miliardi di euro, ai quali vanno aggiunti i 5,7 miliardi della funzione sicurezza garantita dai carabinieri e gli 1,5 miliardi delle missioni all’estero rifinanziate di sei mesi in sei mesi. Disseminati poi in mille altri capitoli ci sono le voci riconducibili alle spese militari ma che rientrano negli investimenti per la produzione di armi, mezzi e sofisticati congegni tecnologici a scopi bellici. Il solo ministero dello Sviluppo economico ha una quota di 3,5 miliardi per questa finalità ma nel settore della ricerca risorse sono destinate a fini collaterali anche nei capitoli del Miur. Allora, la domanda è: in che modo vengono utilizzati i fondi?

COMANDANTI E COMANDATI
L’Italia è l’ottavo paese al mondo per spese militari, addirittura il quinto se si analizzano le uscite pro-capite, cioè divise per il numero di abitanti. Eppure il nostro Paese non è né la quinta né l’ottava potenza internazionale. Un dato di partenza su cui si interrogano in molti. Anche perché, lo Stato italiano, pur destinando solo lo 0,9 per cento del suo Pil alla difesa, ha un contingente militare che per dimensioni è secondo in Europa solo alla Francia. In realtà, le nostre forze armate presenti nei teatri dei conflitti, protagoniste  dall’Aghanistan al Libano di missioni apprezzate a livello internazionale, non superano le 12 mila unità. Ma alle spalle di queste avanguardie d’eccellenza, c’è un apparato elefantiaco che conta 190 mila persone. Ed è la distribuzione di questo personale a suscitare qualche interrogativo. A partire dalla cifra dei graduati: 98 mila fra ufficiali e sottufficiali. In pratica, come rivelano Massimo Paolicelli e Francesco Vignarca nel libro “Il caro armato”, oggi fra esercito, marina e aeronautica i comandanti sono più dei comandati. In Italia abbiamo seicento fra generali e ammiragli: gli Stati Uniti, che pure vantano un apparato militare da un milione 400 mila uomini, hanno appena 900 figure di questo tipo. Quanto risponde questa struttura a esigenze strategiche e logiche di bilancio?

PRECARI IN MARCIA
In tempo di crisi sono in tanti a ragionare di tagli. Perché, a fronte di chi va a rischiare la vita su scenari di guerra delicati con un’indennità di rischio che al massimo raddoppia lo stipendio, c’è un contingente di retroguardia che è diventato una fabbrica di illusioni. Abolita la leva obbligatoria, nelle forze armate hanno fatto ingresso volontari che restano in servizio da uno a quattro anni, al termine dei quali dovrebbero rimanere nei ranghi o passare ad altri corpi con una corsia preferenziale. Nonostante i cospicui investimenti sulla loro formazione, il 75 per cento rimane fuori e lo Stato deve procedere a nuovi reclutamenti. Per fortuna, dicono gli esperti, non c’è una crisi di vocazione, soprattutto al Sud dove è forte la fame di lavoro. Al punto da determinare, ad esempio, una mutazione genetica del corpo degli alpini, che fino a qualche anno fa era composto quasi esclusivamente da “padani” e oggi per il 70 per cento è costituito da meridionali. Curiosità che può far sorridere. Ma un fatto è certo: la vita da caserma tira ancora. Come dimostrano i dati del 2009: 16.300 posti a concorso per la ferma annuale, 70.444 domande. E per i 5.992 posti di ferma quadriennale, i concorrenti furono 24.339. Voci in netta controtendenza rispetto agli anni precedenti.

LA MINI NAJA
Eppure il governo, l’anno scorso, ha deciso di lanciare una campagna di avvicinamento all’esercito. L’ha chiamata mini-naja: inizialmente un progetto che prevedeva solo tre settimane di campus addestrativo riservato a 1.500 giovanissimi. Ma nel 2011 sono stati pubblicati già tre bandi da 2.500 posti. L’iniziativa ha avuto successo e andava incentivata, la tesi di La Russa. Ma c’è chi sospetta che dietro l’operazione ci siano motivi promozionali. È l’interrogativo sollevato dai Verdi ma anche dal sindacato di polizia Sap, che puntano l’indice su una spesa da 19,8 milioni di euro nel triennio 2010-2012. L’austerity avrebbe forse dovuto consigliare una destinazione diversa dei fondi. Soprattutto in un Paese che, specialmente ai vertici della sua struttura militare, continua ad avere un’organizzazione ponderosa. La fondazione Icsa, di cui è presidente Marco Minniti, nell’ultimo rapporto annuale si spinge oltre confini poco esplorati sinora. E attacca la proliferazione degli organismi di comando: oggi, scrive, «ci sono di fatto cinque stati maggiori,
senza contare l’enorme staff del ministro, la cui organizzazione è stato oggetto di una riforma che tutto ha fatto tranne ridurne la consistenza a livelli di sobrietà. Occorre rivedere compiti, responsabilità e piani organici. Intervenire non con le forbici ma con la mannaia». Ma quali sono le sacche di privilegio che resistono nelle alte gerarchie militari?

STELLETTE D’ORO
Fra gli ufficiali di rango elevato il turn-over è praticamente inesistente, con una progressione di carriera garantita dall’anzianità più che dal merito e con benefit inattaccabili: come gli alloggi riservati, fino a 600 metri quadrati di superficie, per 44 fra generali e ammiragli che possono beneficiare di servizio all-inclusive, comprensivo di battitura di tappeti e lucidatura dell’argenteria. Lo Stato, in pratica, paga pure la colf. Spesa: 3 milioni e mezzo l’anno. Per sei di loro pure un’indennità speciale da 409 mila euro dopo il pensionamento. Un beneficio, quest’ultimo, che spetta al capo di stato maggiore della difesa, ai tre capi di stato maggiore delle forze armate, al segretario generale della difesa e al comandante generale dell’arma dei carabinieri. Lo Stato si garantisce inoltre la possibilità di una chiamata in servizio di ufficiali e sottufficiali fino a cinque anni dopo il pensionamento. Un’opzione retribuita con regolare compenso, a prescindere dall’effettivo impiego dei beneficiari. E l’eventuale apporto ausiliario - evidentemente non tanto eventuale - costa 326 milioni di euro. Senza considerare che molti degli ufficiali di punta in congedo transitano poi negli enti statali che si occupano di armamenti: da Finmeccanica all’Augusta, dalla Selex all’Oto Melara. C’è un’oligarchia militare tuttora ossequiata e ben remunerata. E che viaggia anche comoda. Sfidando il periodo di ristrettezze, la Difesa si è recentemente dotata di 19 Maserati blindate da 100 mila euro l’una. Costose, sì: «Ma si premia pur sempre un’azienda automobilistica italiana», si è schermito La Russa.

UNA MACCHINA CHE PERDE PEZZI
Le spese per il personale portano via quasi i due terzi delle risorse destinate all’attività delle forze armate: 9,5 dei 14 miliardi presenti nel bilancio della Difesa. La dieta imposta dall’esecutivo? Più ostentata che reale. E, come rileva il generale Leonardo Tricarico (ex capo di stato maggiore dell’Aeronautica e socio della Fondazione Icsa), i tagli non hanno abolito gli sprechi ma hanno inciso «sugli stanziamenti per addestramento, manutenzione e infrastrutture»: il relativo capitolo è stato ridotto del 18,2 per cento. Solo per l’arma blu, la sforbiciata ai finanziamenti comporterà un dimezzamento nel 2013 delle ore di volo. A cascata, il colpo di forbice del governo inciderà su spese vive come benzina e pezzi di meccanica per i mezzi in servizio. Con il paradosso illustrato da Paolicelli e Vignarca: ci sono 180 autoblindo Lince (i veicoli più utilizzati nelle missioni all’estero) fermi in officina ma sono partiti ordinativi per altri 1.150 mezzi. Fra mille difficoltà quotidiane, alle forze armate viene però chiesto di garantire servizi “civili” cari ai politici: in dieci anni il governo ha maturato debiti per 250 milioni di euro solo nel capitolo voli di Stato. È pesante, sul piano finanziario, la gestione di 30 mezzi aerei a disposizione di ministri e sottosegretari per ogni capriccio, fra cui un «indispensabile» spostamento da Linate a Malpensa fatto di recente con un jet proveniente da Roma. Fra gli ultimi acquisti della flotta, i super-elicotteri Av 139 da 49,8 milioni di euro, prodotti dall’Agusta-Vestland (gruppo Finmeccanica) allestiti con ogni genere di comfort. D’altronde, l’industria militare non conosce crisi.

L’AFFARE DEI JET
L’ultimo “affare” è la costruzione del nuovo velivolo F35, ovvero il Jsf, Joint Strike Fighter, fortemente sponsorizzato dal Pentagono. Il progetto del caccia made in Usa va avanti dal 2001 e i costi sono lievitati a dismisura fino a impensierire l’amministrazione Obama. L’Italia, che con Finmeccanica è uno dei partner privilegiati del progetto, secondo le ultime stime potrebbe arrivare a spendere 15 miliardi di euro per dotarsi di 131 caccia. Ma è un investimento che non spaventa Finmeccanica, l’azienda controllata al 30 per cento dal Tesoro e finita al centro dell’inchiesta sulla P4, un colosso che sfida la difficile congiuntura economica: ha un fatturato da 18,7 miliardi e un attivo da 500 milioni. Nel 2010 ha distribuito dividendi allo Stato per 71 milioni ma molto di più, evidentemente, ha incassato dallo Stato stesso per la realizzazione di mezzi e armamenti. Un impegno finanziario rilevante è quello messo in campo per la portaerei Cavour - 1,3 miliardi di euro - e per le 10 fregate Fremm per le quali occorreranno 5,6 miliardi di euro. Con una particolarità tutta italiana: la stessa fregata, annota Massimo Paolicelli dell’associazione “Sbilanciamoci”, costa ai francesi 280 milioni, al nostro Paese 350. E il governo ha sottoscritto contratti per l’acquisto di 8 aerei senza pilota (1,3 miliardi) e di due sommergibili per un miliardo. Uscite a nove zeri. Ma esiste un piano per far cassa?

MAGISTRATI E GINNASTI
È del 2008 il primo programma di dismissioni che dovrebbe portare alla vendita di 200 caserme, 3.000 alloggi militari e 1.000 installazioni considerate inutili. Il progetto non ha ancora sortito effetti significativi, visto che molte delle case da cedere sono occupate abusivamente ed esistono intoppi burocratici per le variazioni di destinazioni d’uso di aree estese che fuori dal circuito speculativo è difficile mettere a rendita. Rimangono intatti anche gli apparati di supporto all’attività delle forze armate, come la sanità militare che mantiene centinaia di posti letto e camici con le stellette sempre più dirottati sulla certificazione delle invalidità. In presenza di un carico di lavoro assottigliatosi enormemente negli anni, la giustizia militare conta ancora una sessantina di magistrati. Circoli e stabilimenti balneari sono in larga parte autofinanziati ma assorbono personale. In epoca di vacche magre, saltano agli occhi le spese per i gruppi sportivi, che fanno attività meritoria e spediscono pure atleti italiani alle Olimpiadi, ma che contribuiscono ad appesantire i bilanci. Non senza storture: «Proprio utile, ad esempio, finanziare la ginnastica ritmica?», chiede il generale Tricarico. Delineando l’ultimo paradosso di un esercito generoso nelle missioni all’estero e sciupone in patria.

Le Monde: «Berlusconi: il bilancio del governo presidente uscente è misero»
Scrive il quotidiano: La sua «impotenza» figlia del conflitto di interessi. E si chiede «quanto durerà l' impronta culturale del Berlusconismo»
MILANO - Dopo «anni di regno» scrive l'autorevole quotidiano francese Le Monde, «Silvio Berlusconi lascia l'Italia come l'ha trovata». Come a dire, nessun significativo cambiamento, nessuna riforma importante, nessuna svolta (a parte quelle relative ai suoi affari e ai suoi processi). E questo, spiega Le Monde, a causa del «conflitto di interessi».

RESPONSABILITA' -Nell'articolo, in evidenza nell'edizione online, Le Monde parla dagli accenni fatti martedì scorso da Berlusconi ai temi della «responsabilità» e della «coscienza». Accenni, commenta Le Monde, «troppo tardivi e troppo rari». «Dopo quasi dieci anni di regno nel corso degli ultimi diciassette anni, Berlusconi lascia l'Italia più o meno nello stato in cui l'ha trovata quando è andato al governo per la prima volta nel 1994. Per quanto riguarda invece le sue fortune personali e la sorte dei suoi processi, tutto va meglio di allora». Il «bilancio del presidente uscente», incalza il quotidiano, «è misero. Non è riuscito a effettuare la rivoluzione liberale che aveva promesso. Le tasse, che voleva ridurre, sono aumentate, almeno per quelli che le pagano. La frattura tra il nord, ricco e dinamico, e il sud, povero e assistito, è aumentata. Lo Stato, inefficace, resta frazionato in regioni, province, comuni, con competenze inestricabili. L'esecutivo, sotto la costante pressione del parlamento, è sempre molto debole. La televisione pubblica è sempre nelle mani dei partiti e la crescita continua a stagnare».

IMPOTENZA - Ma perché, si chiede Le Monde, un presidente del Consiglio che ha avuto tanta «popolarità» e ha disposto di «mezzi finanziari e mediatici» mai visti prima non è riuscito a fare (quasi) nulla? «Questa impotenza ha una spiegazione: il conflitto di interessi. Silvio, l'uomo d'affari, ha considerevolmente ridotto il margine di manovra di Berlusconi il presidente del Consiglio». Del resto, dice Le Monde «come cambiare il sistema pubblico televisivo e dei media quando si posseggono in prima persona almeno tre canali televisivi, una casa editrice e 40 giornali? Come riformare la giustizia quando si è oggetto di 27 processi? Come riformare gli ordini professionali quando si fanno eleggere in parlamento i propri avvocati? Come combattere l'evasione fiscale quando si commettono frodi in prima persona? Come affermare l'autorità dello Stato quando il proprio principale alleato, la Lega Nord, difende l'autonomia del Nod del paese. Come rappresentare il genio degli italiani quando si è adepti del rito del 'bunga-bunga?». Ma come sarà l'Italia senza Berlusconi conclude l'articolo? «resta un'impronta culturale. Questa sarà senza dubbio dura da cancellare. 17 anni di berlusconismo hanno profondamente modificato gli italiani e ingigantito i loro difetti...un giorno forse sapremo se Berlusconi ha fatto gli italiani a sua immagine e somiglianza o se non sia vero il contrario».

L’antiquata economia italiana si può salvare con riforme
di Marike Stelling – 8 novembre 2011
Pubblicato in: Olanda
Traduzione di ItaliaDallEstero.info
Sicuro di sé, venerdì scorso ha annunciato che l’economia italiana è in buona salute perché i ristoranti sono pieni, come gli aerei e gli alberghi. “Questo non è un Paese in crisi.” La sicurezza di sé non gli è servita a niente. Anzi, nel corso degli ultimi giorni Silvio Berlusconi ha perso sempre più la fiducia degli investitori. Tutti fuggono dai titoli di Stato italiani, spingendo gli interessi sul debito a livelli insostenibili.
Incombe il pericolo di una spirale negativa. Se i tassi di interesse diventano troppo alti non sarà più possiblie finanziare il debito e lo Stato italiano andrà in bancarotta. Si possono solo fare congetture su quale sia il tasso di interesse che rende un Paese insolvente o fallito. Molti economisti considerano un tasso superiore al 6,5 per cento non sostenibile per l’Italia. Ieri, il tasso d’interesse è salito al 6,63 per cento. I tagli che il governo italiano può approvare non possono certo competere con un tasso a questi livelli.
Il problema del debito italiano minaccia l’eurozona. È stato possibile salvare la Grecia, ma si tratta di una piccola economia, circa il 2 per cento del totale dell’economia europea. Ma l’economia italiana è la numero 8 del mondo, e la numero 3 della zona euro (ne rappresenta il 15 per cento del totale). Il resto dell’Europa può facilmente danneggiare se stessa nel tentativo di salvarla.
 Il debito italiano di 1900 miliardi di euro è così enorme che per gli altri paesi dell’Unione Europea (UE) è molto più difficile salvare il Paese. L’Italia ha il secondo debito più alto in Europa, il cui totale ammonta a circa il 120 per cento del prodotto interno lordo (PIL). Solo la Grecia ha un debito, più alto, circa 150 per cento del suo PIL. Ma, in euro, il debito greco è molto più piccolo, ammonta a 350 miliardi di euro.
I precedenti salvataggi di Paesi dell’eurozona caduti in una simile spirale negativa del debito si sono svolti nel modo seguente. L’UE e il Fondo Monetario Internazionale (FMI) si sono fatti carico per anni dei debiti di Grecia, Portogallo e Irlanda. Così l’Europa ha protetto questi Paesi dai mercati finanziari. La spirale negativa è stata fermata, e i fallimenti sono (per il momento) stati scongiurati.

Per proteggere il governo italiano dai mercati è necessario molto più denaro. Già solo quest’anno e il prossimo, il governo italiano ha bisogno di circa 300 miliardi di euro per rifinanziare il debito. Fino al e incluso il 2014 la cifra è di circa 650 miliardi, secondo i calcoli della banca d’investimenti americana Goldman Sachs. Attualmente non ci sono così tanti soldi nel fondo di emergenza dell’UE. Se anche gli altri Paesi membri dell’euro fossero disposti a sborsare i soldi necessari per salvare l’Italia, ciò minaccerebbe la loro stessa solvibilità.
Per lungo tempo i mercati finanziari si sono preoccupati straordinariamente poco del Paese ora definito ‘troppo grande da salvare’. Nel primo anno dopo l’inizio della crisi del debito nella primavera del 2010, sono stati principalmente Spagna, Irlanda e Portogallo a perdere la fiducia degli investitori. La cosa è di rilievo perché la Spagna ha un debito molto più basso dell’Italia, circa il 60 per cento del PIL in confronto al 120 per cento di quello italiano. Ma l’economia spagnola stava molto peggio, soprattutto a causa del crollo del mercato immobiliare, dell’alto livello di indebitamento di imprese e cittadini e dell’alta disoccupazione.
L’economia italiana versava in condizioni migliori. Il settore privato ha meno debiti, la disoccupazione è più bassa e il governo ha un disavanzo di bilancio relativamente modesto. Inoltre, l’Italia ha questo livello di debito sin dal 1991. L’Italia è quindi un perfetto esempio di cosa può accadere a un governo che indugia con le necessarie riforme e i tagli alla spesa.
Le attuali preoccupazioni sono relativamente facili da rimuovere, afferma Bas Jacobs, professore di economia presso l’Università Erasmus. “Se il governo annuncia una serie di riforme strutturali, probabilmente il tasso d’interesse diminuirà e il Paese non sarà più insolvente. Le misure che l’Italia deve prendere non sono affatto così draconiane come quelle che deve prendere la Grecia. “Ma se i tassi di interesse restano alti, il problema è grave, continua Jacobs. “Basta fare un po’ di conti. Se, con un livello di debito del 120 per cento del PIL, il tasso di interesse aumenta dell’1 per cento il governo è costretto a fare tagli aggiuntivi o aumentare il carico fiscale per un totale corrispondente all’1,2 per cento del PIL, che è enorme.”

Il problema principale dell’economia italiana è che ha una crescita molto bassa da ormai quasi quindici anni, in media 0,75 per cento all’anno. Perché? Il FMI e l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico lo sanno bene, come si evince dai loro più recenti rapporti sull’Italia.
L’immagine dell’Italia che emerge da questi rapporti è quella di un’economia antiquata. Ci sono troppe regole che proteggono le attuali grandi aziende e ostacolano i nuovi ingressi. La pressione fiscale è troppo alta. Le regole sui licenziamenti troppo rigide. Ciò rende difficile per i giovani trovare posti di lavoro. La popolazione ha un livello di istruzione basso. I salari sono troppo alti in relazione alla produttività dei lavoratori. Troppe aziende sono di proprietà del governo. A causa di tutti questi fattori, l’economia italiana non può competere con gli altri Paesi europei. La quota italiana nel commercio mondiale ha registrato un costante calo a partire dagli anni Novanta.
L’economia ha urgente bisogno di riforme, non in primo luogo di tagli di bilancio. Questo in sé è una buona cosa, perché se ora il governo effettuasse tagli estesi, è probabile che la disoccupazione aumenti e che l’economia cresca di meno. La soluzione, dicono gli economisti all’unisono, sono le riforme, cosa che non colpirebbe duramente l’economia nel presente e aumenterebbe le possibilità di crescita nel futuro.
Berlusconi – o un nuovo primo ministro – non devono quindi fare altro che presentare un piano di riforme convincente e il problema verrà probabilmente risolto. Fino ad allora i mercati finanziari non si fideranno dell’Italia. Soprattutto se il governo continua a non prestare attenzione ai problemi che i mercati invece vedono con chiarezza.
[Articolo originale "Ouderwetse economie van Italië is met hervorming te redden" di Marike Stelling]

Questo è tutto, gente
 – 13 novembre 2011
Pubblicato in: Gran Bretagna
Traduzione di ItaliaDallEstero.info
Perché l’euro sopravviva, l’Italia non deve fallire. Ciò richiederà leadership e coraggio.
[Articolo di copertina dell'Economist]
Sebbene sia giunta dopo scandali, complotti e un operato da presidente del Consiglio veramente penoso, la promessa di dimissioni di Silvio Berlusconi non è stata più catartica degli altri rimedi escogitati finora dalla zona euro. Il gesto è stato insufficiente, perché Berlusconi gode di così poca fiducia – dopo un totale di 8 anni e mezzo di disastroso incarico – che persino adesso si teme che trovi un modo per restare in carica o per ripresentarsi. Il gesto è arrivato troppo tardi perché, ora che ha promesso di dimettersi, i bond italiani erano già in preda al panico. Ad un certo punto, le rendite sono salite fino al 7,5%, un livello che alla fine getterebbe l’Italia nell’insolvenza e che, ancor prima, scatenerebbe un assalto agli sportelli delle banche.
Quando il terzo mercato obbligazionario più grande al mondo comincia a cedere, la catastrofe incombe. In gioco non c’è solo l’economia italiana, ma anche la Spagna, il Portogallo, l’Irlanda, l’euro, il mercato unico europeo, il sistema bancario globale, l’economia mondiale e più o meno tutto quello che riuscite a immaginare. La Grecia è importante perché stabilisce un precedente per l’euro – per cose come la svalutazione del debito e le misure di salvataggio. L’Italia conta molto di più perché è molto grande.
È chiaro che l’Italia sarà il banco di prova che testerà la distruzione dell’euro – o la sua sopravvivenza. Solo poche settimane fa, questo test sembrava ancora evitabile. Ora è alle porte. Se la zona euro vuole che la sua moneta sopravviva, deve arginare il panico e rendere credibile il teatrino della politica italiana. Entrambe le cose sono ancora nella sfera d’influenza dell’Europa. Ma ad ogni sbandamento della zona euro verso la corruzione morale, ad ogni maldestro cambio di governo e ad ogni riluttante intervento nei mercati finanziari, il compito diventa sempre più difficile e costoso. Mentre si apre questo scenario così opprimente, si affievoliscono le possibilità di sopravvivenza dell’euro.
Presto panico
Il compito urgente è quello di tamponare il panico finanziario – anche per dare ai politici l’opportunità di dimostrare che, ora che hanno capito cosa c’è in gioco, possono fare di meglio. Il panico ha preso piede il 9 novembre quando, sullo sfondo dell’impennata dei rendimenti dei Titoli di Stato italiani, l’agenzia di gestione del rischio LCH Clearnet ha innalzato i propri margini di garanzia. Ciò significa che chiunque operasse con i bond italiani doveva depositare più capitale per tutelarsi da possibili inadempienze. Questo costo extra ha reso più caro operare sul debito pubblico italiano, causando un’ondata di vendite, visto che gli investitori lasciavano il mercato.
A questo punto, nulla può impedire una crisi del debito in Italia. I costi di finanziamento sono destinati a restare molto più elevati dei livelli pre-crisi. L’industria finanziaria non invertirà presto il margine di garanzia extra e anche se lo facesse, gli investitori non considererebbero il debito italiano come “senza rischio”. Le agenzie di rating sicuramente faranno retrocedere il Paese. Se la situazione del debito è lasciata precipitare, l’Italia verrà esclusa dai mercati obbligazionari. Le sue banche diventeranno vulnerabili, poiché clienti e creditori concluderanno che loro e lo stato italiano potrebbero essere insolventi. Il contagio si diffonderà in tutta l’eurozona. La fine arriverà presto.
Ma l’Italia non è ancora insolvente. Sebbene il piano di salvataggio stabilito dall’eurozona lo scorso mese si è ridotto in brandelli, la Banca Centrale Europea potrebbe ancora guadagnare tempo impegnandosi a comprare il debito italiano in quantità illimitata e a proteggere le banche europee, come ha sostenuto The Economist. I segni questa settimana erano che la BCE fosse intervenuta per attenuare i rendimenti italiani. Ma non ha ancora fatto pubblicamente quella promessa fondamentale di fare qualsiasi cosa necessaria, senza limiti, per delimitare la crisi e fermare il panico.
La verità è che il rischio della frantumazione dell’euro è davvero aumentato. Durante il recente G20, la cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente francese Nicolas Sarkozy hanno ammesso per la prima volta che potrebbero abbandonare la Grecia al suo destino – un devastante cambiamento di rotta per dei leaders che erano stati sempre convinti del fatto che l’euro sarebbe sopravvissuto intatto a qualsiasi prezzo. Secondo alcune voci, starebbero contemplando l’idea di costituire un nuovo club del nucleo dei Paesi dell’eurozona in grado di rispettare le regole, liberandosi degli altri. Tali voci renderanno più difficile per la BCE convincere i mercati che l’euro è qui per restare. Ma forse darebbero solamente una solenne lavata di capo ai politici europei – in effetti, potrebbe essere questa l’idea.
In fin dei conti, i politici sono le sole persone che possono sistemare le cose. Se la BCE concederà un attimo di respiro, allora i politici dovranno usarlo per convincere il mondo che le democrazie della zona euro hanno la capacità di gestire i propri debiti e di riformare le proprie economie. Se i politici falliscono, alla fine anche l’euro fallirà.

L’uomo che ha mandato a rotoli un’intera valuta
Mentre il destino dell’euro era riposto sulla testa trapiantata di Berlusconi, le possibilità di successo erano molto esili. Amava descriversi come un riformatore liberale pro-business, ma sotto il suo governo l’Italia non è riuscita assolutamente ad abbandonare il sistema che prevedeva la svalutazione della lira per compensare l’inflazione e la produttività stagnante o in calo.
Tra il 2001 e il 2010 i costi del lavoro in Italia sono saliti, mentre l’economia è cresciuta meno di quella di ogni altra nazione, tranne Haiti e Zimbabwe. The Economist ha a lungo sostenuto che Berlusconi fosse inadatto a governare, ma anche noi siamo rimasti molto sorpresi da come lui continuasse indisturbato a politicheggiare e a fare feste, ignorando la necessità di riforme mentre la crisi dell’euro si avvicinava sempre più all’Italia.
Senza Berlusconi, l’Italia ha una possibilità. L’ammontare del debito, sebbene elevato, è stabile. Non ha sofferto il boom immobiliare né il connesso fallimento bancario. Gli Italiani sono bravi risparmiatori e gli introiti fiscali del governo non dipendono troppo dalla finanza o dalle proprietà. Prima di dover pagare gli interessi, l’Italia aveva persino degli utili fiscali.
Ora a Roma si discute per trovare un tecnocrate che guidi un nuovo governo dedicato alle riforme – Mario Monti, per esempio, che era un rispettato commissario europeo. Tale governo provvisorio avrà una parte importante nei prossimi mesi. Ma il processo di riforma ha bisogno di essere sostenuto per anni e ciò richiede, più di ogni altra cosa, la legittimità della democrazia. Pertanto qualsiasi governo tecnico ad interim dovrebbe prepararsi per elezioni urgenti che possano portare a un governo adatto per le riforme.
Perché l’euro sopravviva, l’Italia deve farcela. Perché l’Italia ce la faccia, i suoi politici bisticcioni devono trovare inconsuete risorse di unità e coraggio. Ciò dipende anche dal popolo italiano e dalla sua volontà di fare sacrifici, dall’appoggio della BCE all’Italia e dal risoluto supporto di Francia e Germania all’euro. È una lista spaventosamente lunga di cose che devono andare bene.
[Articolo originale "That’s all, folks"]

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